Quando parliamo di Stoccolma 1912, la quinta edizione delle Olimpiadi moderne, probabilmente abbiamo di fronte i primi veri Giochi che rispecchiano la concezione contemporanea dell’evento. Non a caso spesso ci si riferisce alla rassegna scandinava come la Sunshine Olympiad. Londra 1908 fu un grande successo e riuscì a dare credibilità a un progetto ormai caotico e mal gestito. Rimanevano però delle questioni logistiche e regolamentari da risolvere per far sì che l’organizzazione potesse finalmente definirsi solida e avviata.
Dopo l’esperienza londinese, il CIO aveva imposto ai comitati dei paletti molto più severi, anche riguardo alle infrastrutture, un fatto che scoraggiò diverse candidature. Nel 1909, al congresso di Berlino, sul tavolo dell’assemblea arrivarono soltanto due proposte, Stoccolma e Berlino stessa. Pur essendo uno Stato piuttosto marginale nello scacchiere politico dell’epoca, la Svezia aveva un ruolo centrale all’interno del movimento olimpico e poteva vantare come sponsor principale Viktor Balk, il padre putativo dello sport scandinavo.
Balk, già ufficiale dell’esercito svedese, fu uno dei membri fondatori del CIO a partire dal 1894 e una delle figure più vicine al Barone de Coubertin, l’anima del comitato olimpico. Sfruttando i propri agganci all’interno del panorama sportivo locale, il colonello era conosciuto in Svezia per essere il fondatore dei Nordiska Spelen (i Giochi Nordici), una rassegna di sport invernali e non, che coinvolgeva gli stati del nord Europa. Balk ottenuto l’appoggio della federazione di atletica e – soprattutto – della famiglia reale, con il Re Gustav V entusiasta all’idea di ospitare i Giochi, riuscì a racimolare finanziamenti per quasi 6 milioni di euro attuali.
Se il progetto in Svezia procedeva a gonfie vele, lo stesso non si poteva dire dei rivali a Berlino. I tedeschi non avevano ancora un piano per uno stadio che andasse incontro alle richieste del CIO, in più non poterono mettere sul piatto la stessa forza economica mostrata da Balk e dal SOC (Swedish Organization Committee). Il colpo di grazia alle velleità teutoniche arrivò nel marzo del 1909 con la morte Egbert von der Asseburg, il rappresentante tedesco all’interno del CIO e leader del comitato per Berlino 1912. Non avendo dunque delle alternative credibili, il Barone accettò di buon grado la proposta svedese, con la promessa di tornare in Germania nel 1916 – purtroppo però sappiamo che la Storia avrebbe avuto ben altri piani.
Stoccolma 1912: le Olimpiadi minimaliste
Ottenuta l’assegnazione il 28 maggio 1909, Balk e il suo staff non persero tempo. Primo punto della lista era la questione stadio. La strada più comoda sarebbe sicuramente stata l’ampliamento e il miglioramento delle strutture già presenti in città. Balk però, per le sue Olimpiadi aveva ben altro in mente. Con l’aiuto di Torben Grut, all’epoca uno degli architetti svedesi più in vista, il SOC decise di costruire uno stadio completamente nuovo, lasciando le arene già presenti come campo di allenamento. Non più complessi enormi e sfarzosi come White City a Londra, bensì un piccola struttura nel centro di Stoccolma capace di ospitare appena 22.000 spettatori, in pieno stile nazionale romantico scandinavo, caratterizzato dall’uso di mattoni rossi e da torri merlate sulla falsa riga dei castelli medievali. Un edificio talmente ben progettato da essere funzionale e utilizzabile ancora oggi.
Gli svedesi, memori del caos delle esperienze passate dovuto anche e soprattutto alla mole di sport presenti, avevano in mente dei Giochi con appena 4 discipline: atletica, lotta, ginnastica e nuoto. Il CIO era sì consapevole che l’edizione di Londra era stata esagerata in termini di numero di gare, tuttavia non accettò un’Olimpiade ridotta così all’osso. Dopo una serie di botta e risposta, Stoccolma 1912 venne ampliata con vela, canottaggio e scherma.
Gli svedesi non vollero sentire ragioni sugli sport di origine anglosassone e per questo non comparvero nel programma il polo, il lacrosse e il rugby così come, tra le discipline della lotta, la boxe, considerata sport brutale e quindi non adatta a una rassegna olimpica. Al contrario, cedettero su calcio, tennis e ciclismo, sport ormai troppo popolari e seguiti per essere lasciati fuori dal programma, mentre introdussero il concorso di equitazione. Su proposta del soldato a cavallo Hans von Rosen, per la prima volta ai Giochi si disputarono gare equestri dall’aria estremamente elitaria: la competizione infatti, era riservata soltanto agli ufficiali in servizio.
Stoccolma 1912 fu rivoluzionaria anche per la durata dell’evento. Non più mesi e mesi di gare, lungo tutta la stagione estiva, bensì un programma ben studiato e organizzato, spalmato in tre comode settimane a cavallo tra giugno e luglio, eccezion fatta per gli sport di squadra cominciati ben prima dell’apertura ufficiale.
Le novità però non si limitarono al solo programma sportivo. Per ampliare l’ideale olimpico, de Coubertin riuscì finalmente a coronare uno dei suoi più grandi sogni: una competizione parallela alle gare, in cui artisti da tutto il mondo avrebbero potuto sfidarsi in cinque diverse categorie: letteratura, scultura, pittura, architettura e musica. Molto particolare è il caso del concorso di letteratura, dove il primo premio venne assegnato alla coppia tedesca, Georges Hohrod e Martin Eschbach con “Ode allo sport”. Niente di più falso. I due poeti, in realtà mai esistiti, furono frutto dell’invenzione del Barone che, per sopperire alla mancanza di partecipanti, decise di mettersi in gioco lui stesso e concorrere con uno pseudonimo. Nei concorsi artistici trionfarono anche due italiani. Nella musica vinse Riccardo Barthelemy con una marcia trionfale olimpica mentre il pittore Carlo Pellegrini ottenne l’oro con un olio dedicato agli sport invernali.
Il sogno dell’atleta perfetto
Tra le novità più intriganti dell’Olimpiade svedese, il Barone introdusse nel programma di atletica il pentathlon moderno con l’idea di mostrare al mondo il grande sportivo, completo, abile a tutto tondo. La gara venne presentata come una combinazione di una competizione equestre stile ‘salto con ostacoli’, una di tiro con pistola rapida, una prova di spada, una gara di nuoto e una corsa campestre. Nella testa sempre romantica e poetica di de Coubertin, infatti, questa nuova disciplina avrebbe dovuto raccontare una storia: l’avventura di “ufficiale di collegamento il cui cavallo è abbattuto dai nemici, che si difende con la pistola, poi con la spada, infine si getta a nuoto nel fiume e fugge a piedi per i campi”.
La gara, riservata agli ufficiali, vide gli svedesi dominare con 6 atleti nelle prime 7 posizioni. Unico intruso non scandinavo fu un americano, il giovane ufficiale di cavalleria George S. Patton, proprio quel George Patton, il futuro “Generale d’acciaio” leader delle truppe statunitensi sul fronte occidentale durante la Seconda Guerra Mondiale. Patton arrivò a Stoccolma con grandi aspettative. Convinto di sbaragliare facilmente la concorrenza, si aggirava per la città con la spocchia del superiore sfoggiando la sua scintillante Colt calibro 38 alla cintura.
Il futuro generale impegnato nella prova di tiro con la sua inseparabile Colt
I suoi risultati furono soddisfacenti in quattro delle cinque discipline, pur rischiando la morte alla fine della prova di corsa a causa di una dose eccessiva di oppio somministratagli dal suo allenatore. Dov’è che Patton perse la gara di pentathlon moderno? Proprio nel tiro, la specialità della casa dove arrivò appena ventunesimo. L’ufficiale provò a giustificarsi sostenendo che uno dei suoi tiri passò attraverso un foro creato da uno sparo precedente (una dinamica che neanche il migliore Robin Hood avrebbe potuto ricreare), ma gli arbitri non accreditarono il colpo, penalizzandolo nei punteggi. Alla fine fu quinto.
Il più forte del secolo
Sono tanti gli sportivi che possono ambire al titolo di atleta più forte del secolo, tutti con valide motivazioni. Alì, Jordan, Senna: ognuno ha il suo preferito anche a seconda dello sport di riferimento. Tuttavia ce n’è uno che sbaraglia nettamente la concorrenza, la cui memoria – ironia della sorte – si è persa tra le pagine della Storia. Stiamo parlando di Jim Thorpe, che a Stoccolma 1912 si rivelò al mondo.
La storia di Thorpe inizia ben prima delle Olimpiadi svedesi. Il ragazzo vantava un mix genetico esplosivo. Figlio di un irlandese e di un’indiana potawatomi, il suo nome da nativo americano era Wha-tho-huck, “sentiero lucente”, come quello disegnato dai raggi della luna fra le assi della capanna in cui nacque. A scuola non era di certo tra i primi della classe, tuttavia furono proprio i professori della media Haskell di Lawrence, nel Kansas, ad accorgersi del suo immenso potenziale nello sport. Nel 1904 accettò la proposta di Carlisle, un liceo in Pennsylvania non esattamente come gli altri: era una scuola di “deindianizzazione”. Fondato dal Capitano Richard Henry Pratt nel 1879, l’obiettivo dell’istituto era educare i bambini nativi americani secondo i valori e i costumi occidentali, allontanandoli dalle proprie tradizioni.
A Carlisle, Thorpe fu immediatamente conteso dai vari programmi sportivi. Alla prima esperienza con il salto in alto, dominò la competizione scolastica con un clamoroso per l’epoca 1,85, gareggiando con i vestiti di tutti i giorni. Nel baseball era l’uomo di punta della squadra, ma fu nel football che la stella di Thorpe brillò maggiormente. Celebre fu la partita del 1912 contro Army – la squadra dell’esercito – un match che per il significato politico e culturale andava ben oltre la semplice rivalità sportiva.
Thorpe giocò una partita straordinaria, dimostrando la sua incredibile abilità atletica. Le sue corse travolgenti e il suo gioco fisicamente dominante furono determinanti per la vittoria dei suoi per 27-6. Durante un placcaggio il nativo di Prague, Oklahoma, mise al tappeto un giovane Dwight Eisenhower, futuro grande generale e 34° presidente degli Stati Uniti. Nel 1961 proprio Eisenhower ricorderà Thorpe in un celebre discorso come il più grande atleta del secolo.
Thorpe durante la prova del lancio del giavellotto
Thorpe arrivò dunque a Stoccolma 1912 come l’atleta di punta della spedizione americana nel decathlon e nel pentathlon classico. Non deluse le attese. Dominò entrambe le discipline vincendo quasi tutte le gare, mettendo a referto dei punteggi che gli avrebbero garantito medaglie d’oro in tutte le edizioni dei Giochi fino a Londra 1948. Al momento della premiazione, il re di Svezia, colpito dalle prestazioni dell’americano, lo celebrò in un modo simile a quello del Presidente qualche anno più tardi, definendolo a sua volta il più grande del mondo. Jim però, non era pronto alla gloria e alle celebrazioni. Era un ragazzo schivo, timido e ingenuo, un carattere riassunto perfettamente dalla sua risposta telegrafica e imbarazzata “thanks King”.
Già, l’ingenuità. Thorpe era una persona semplice e non era dotato della malizia necessaria a districarsi tra i meandri di un mondo sempre più complicato, a maggior ragione se trattato come una star. Tornato negli Stati Uniti, durante l’estate – come tutti gli studenti universitari – giocò a baseball per soldi, non più di 40 dollari a partita, piccole cifre appena sufficienti per tirare avanti. Tuttavia, mentre i suoi colleghi venivano ingaggiati sotto falso nome, garantendosi così lo status di amatori – all’epoca requisito fondamentale per essere un atleta olimpico – Jim con il suo candore unico, lo faceva con la sua vera identità. Era a tutti gli effetti un professionista. In seguito a un’inchiesta condotta da un giornale locale, il CIO venne a conoscenza della storia, revocando senza troppe cerimonie le due medaglie d’oro.
Da qui cominciò la lenta e inesorabile caduta di un uomo purtroppo lasciato a sé stesso. Ci furono timidi tentativi di ripresa – rimase per qualche anno un’icona del football e venne nominato presidente dell’APFA, la madre dell’NFL – ma la sua vita scivolò progressivamente verso l’alcol e una forma deleteria di autoannientamento. Morì nel 1953 a 65 anni per un infarto cardiaco tra le braccia della terza moglie.
Le medaglie verranno restituite ai figli di Thorpe solo nel 1983, grazie alla mediazione dell’allora presidente del CIO Samaranch a parziale risarcimento dell’atleta più forte di cui probabilmente non avete mai sentito parlare.
Le gare di Stoccolma 1912
Uno degli eventi più incredibili delle Olimpiadi fu l’epico incontro di lotta greco-romana tra il russo Martin Klein e il finlandese Alfred Asikainen, durato quasi 12 ore. Fu un match carico di significato: a scendere in pedana infatti non furono soltanto due atleti rivali, bensì i rappresentati di due nazioni in piena crisi diplomatica. Abbiamo visto come nel 1908 la Finlandia fosse ancora un territorio sotto il controllo zarista, una situazione rimasta tale anche quattro anni dopo. Le cose infatti non erano cambiate rispetto a Londra: riconosciuti come un comitato autonomo, i finlandesi poterono sì sfilare con il proprio nome, ma dovettero accettare nuovamente la bandiera russa. Il momento di massima tensione si verificò quando, durante la cerimonia di apertura, tra le fila del contingente finnico spuntò una bandiera bianca con croce blu, subito confiscata.
In questo clima di grande tensione tra i due paesi, l’incontro tra Klein e Asikainen fu un vero e proprio manifesto politico. Fin da Atene 1896, nella lotta non erano previsti la divisione in round e limiti di tempo. Nel caso uno dei due contendenti si fosse dimostrato più meritevole – come successe con Enrico Porro a Londra – spettava ai giudici eventualmente assegnare la vittoria ai punti. Entrambi gli atleti dimostrarono una resistenza fisica e mentale fuori dal comune, nessuno voleva cedere al rivale. Alla fine, dopo 11 ore e 40 minuti di colpi, prese e botte, Klein riuscì ad avere la meglio ma uscì talmente malconcio dall’incontro che fu costretto a ritirarsi dalla finale contro lo svedese Johansson, programmata per il giorno successivo.
Diversi spunti arrivarono anche dal programma di nuoto. Il Barone aveva pochi paletti per i suoi Giochi Olimpici, uno di questi era la questione legata alle donne. De Coubertin, infatti, aveva un’idea estremamente classica delle Olimpiadi, sullo stile di quelle antiche in cui a competere erano esclusivamente gli uomini. Tuttavia già da diverse edizioni il movimento femminile era in forte ascesa (il primo oro fu assegnato a Charlotte Cooper a Parigi 1900 nel tennis) e pretendeva gli stessi trattamenti riservati agli uomini. Le donne di fatto competevano nelle varie discipline, ma il sentimento collettivo era quello di un contentino, come per tenerle buone, tanto i loro risultati avrebbero contato poco o niente. A Stoccolma 1912 comunque il numero delle partecipazioni femminili era salito a 57, con l’aggiunta – per la prima volta – di gare di nuoto e tuffi.
Nei 100 metri stile libero vinse Fanny Durack, una diciottenne australiana con un costume che de Coubertin e gli altri membri del comitato definirono scandaloso e inadatto al contesto. All’epoca infatti, le convenzioni sociali riguardo l’abbigliamento femminile erano estremamente restrittive, con abiti lunghi e coprenti anche durante le attività sportive. I costumi da bagno erano spesso costituiti da gonne lunghe e pantaloni larghi, che rendevano molto complicato il movimento in acqua. Il costume di Fanny Durack invece era una versione in lana più moderna e aderente che permetteva una maggiore libertà di movimento.
Fanny Durack, a sinistra, con il suo costume “osceno”
A Stoccolma 1912 l’atletica scrisse altre due indelebili pagine di storia, la prima nel salto in alto. All’epoca la tecnica standard per superare l’ostacolo prevedeva la sforbiciata laterale, fino all’arrivo di George Horine – primo uomo ad andare sopra i due metri. Horine introdusse il western roll, lo stile costale poi evoluto nel ventrale: non si era mai vista una cosa del genere. L’americano si accontentò del bronzo ma rivoluzionò il mondo del salto con una tecnica che rimase il punto di riferimento fino al 1968, quando salì alla ribalta Dick Fosbury.
Horine a Stoccolma 1912 con un salto in stile costale
Alle Olimpiadi svedesi assistiamo – probabilmente – alla prima gara tirata della storia dei Giochi, un testa a testa fino all’ultimo metro. Nelle edizioni precedenti tutte le gare di atletica furono dominate da un singolo atleta, troppo più forte degli altri per essere battuto o messo in difficoltà. I 5.000 metri corsi a Stoccolma in questo senso furono una grande novità. Protagonisti della gara furono un finlandese, Hannes Kolehmainen – eccellente fondista, già detentore di diversi record – e un francese, Jean Bouin – marsigliese favorito per l’oro. Già dallo start fu evidente che la medaglia d’oro sarebbe stata una questione riservata ai due.
I due atleti scavarono fin dalle prime fasi un solco netto con il resto del gruppo, accendendo la gara negli ultimi giri. Fu un duello estenuante. Bouin prese il comando per la maggior parte del tempo, ma Kolehmainen, rimasto sempre a contatto, sfruttò la scia del francese per risparmiare energie per il giro finale. Negli ultimi 200 metri, il finlandese sferrò l’attacco decisivo, superando il rivale con un’accelerazione fulminante. Nonostante un disperato tentativo di recupero da parte di Bouin, Kolehmainen riuscì a mantenere il vantaggio fino alla linea del traguardo. La gara terminerà con un decimo di secondo di distacco tra i due, un’inezia su una tale distanza. Già un decimo di secondo, avete capito bene. Le Olimpiadi di Stoccolma 1912, sempre sull’onda della modernità e della perfetta organizzazione, furono le prime a introdurre il cronometraggio elettronico e il fotofinish.
A proposito di misure e cronometri, in questa edizione dei Giochi si registrò il tempo più alto per una maratona, corsa in più di 54 anni.
Stoccolma 1912 fu un grande successo. Gli svedesi dimostrarono al mondo interno che i Giochi potevano essere un’attrazione globale capace di generare interesse anche senza la concomitanza di fiere o altri eventi. L’organizzazione fu impeccabile e grazie alla neutralità politica dello stato scandinavo e a gare belle e intense, l’idea di una fratellanza tra popoli che trascendesse i confini nazionali tanto sostenuta da de Coubertin, si rafforzò sempre di più. Insomma era il momento più alto per il movimento olimpico dalla sua fondazione. Sull’Europa e sul mondo intero però, incombeva un enorme nuvolone grigio. Siamo alle porte della Prima Guerra Mondiale con una promessa di Olimpiade a Berlino. Quali saranno le scelte del Barone e del CIO? Appuntamento tra sette giorni per scoprirlo.
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