Mkhitaryan, uno shen ai piedi dell’Ararat

Mkhitaryan - Puntero

Secondo la cultura cinese, uno shen è la concettualizzazione di un’anima divina, che cinge l’essere umano. È lo spirito divino che scende sull’uomo e nell’uomo, fino a diventare un tutt’uno con esso. La sua dimora è al centro del cuore e funge da consigliere silenzioso nel cammino di crescita dell’individuo a cui si lega. Lo shen unisce cielo e terra, spirito e materia. L’Huangdi Neijing, l’antico libro di medicina tradizionale cinese, dice che “Possedere gli Spiriti è lo splendore della vita. Perdere gli Spiriti è l’annientamento”. Mkhitaryan lo sa bene. Il padre, fattosi spirito, l’ha guidato alla gloria. Uno shen ai piedi dell’Ararat gli ha donato la vita e l’ha reso immortale.

 

Tra l’Armenia e la Francia

Henrikh Mkhitaryan nasce a Yerevan il 21 gennaio 1989. Il padre Hamleti era un calciatore professionista e giocava nel Valence, nella seconda divisione francese. L’eco di un possibile conflitto in patria obbliga l’intera famiglia a trasferirsi sulle rive del Rodano. Hamleti era un attaccante affermato in patria ed è proprio colui che instilla in Henrikh la passione per il calcio. Il padre lo porta a tutti gli allenamenti e, col passare del tempo, instaura un legame indissolubile col figlio.

A soli 34 anni, Hamleti Mkhitaryan torna in Armenia, a causa di un tumore al cervello che sarà per lui fatale. A 7 anni Henrikh è costretto a crescere rapidamente, senza la guida del suo mentore e idolo. Dal giorno della sua morte, Mkhitaryan inizia a studiare le videocassette del padre. Attraverso di esse analizza i passi del papà, ne copia le movenze e l’attitudine in campo. Si pone un obiettivo: calciare come il padre. Il fato l’ha accontentato. Il suo passo leggero, mai affaticato, sempre aggraziato, nasconde la potenza balistica di Hamleti.

La prima metà degli anni ’90 si avvicina alla propria fine, mentre in Armenia iniziano i tumulti. La guerra del Nagorno-Karabakh riversa tutta la sua forza sull’ignaro Mkhitaryan a cui rimangono solo tre cose: la madre, il calcio e la promessa fatta al padre. Un anelito di rivalsa lo aiuta a farsi strada in un mondo cinico come quello del calcio. In questo, l’immagine, lo spirito di Hamleti si fa presenza centrale, seppur fugace. In una dimensione celeste è un ricordo imperituro, un simulacro che, nonostante la sua caducità, è destinato a non conoscere lo scorrere del tempo.

 

I primi passi nel calcio

Henrikh muove i primi passi nel calcio col Pyunik, la squadra della sua città. All’età di 14 anni il San Paolo gli offre un provino, che accetta senza remore. Il suo idolo calcistico, oltre al padre, era Kakà. Dopo la chiamata del Tricolor spera di ripercorrere le orme dell’ex 22 del Milan, ma la sua esperienza si ferma ad una manciata di amichevoli al fianco di Oscar e dell’ex laziale Hernanes. Un’avventura durata troppo poco, ma che gli darà la spinta necessaria per superarsi e raggiungere il suo obiettivo.

Nel 2006 riesce a mantenere la promessa fatta al padre. Esordisce col Pyunik a soli 17 anni, diventando in poco tempo un giocatore fondamentale per la compagine armena. Le sue gesta nel campionato locale attraggono ben presto l’attenzione di vari club, ma il più lesto è il Metalruh Donetsk, che lo porta nel 2010 in Ucraina. Dopo una sola stagione e mezza viene ufficializzato il suo passaggio all’altra squadra della città, il ben più blasonato Shakhtar. Proprio giocando nella Donbass Arena Mkhitaryan si avvicina ai lidi più importanti del calcio europeo. Sarà il Borussia Dortmund di Klopp che lo trasformerà in un giocatore di punta. Trequartista o mezzala poco importa, il suo cervello viaggia a velocità irraggiungibili per la maggior parte dei calciatori. Con il muro giallo come sfondo, Mkhitaryan suggellerà il patto col padre, spingendosi verso la gloria calcistica.

 

Il legame con la patria

Khoren Hovannisyan è un nome che oggi a tanti non dice nulla. Ad alcuni, magari, il nome ronzerà in mente per qualche giorno, riesumando ricordi che pensavano sepolti da tempo. In Armenia, invece, è una figura monumentale. Uno dei primi calciatori di origine armena a giocare un mondiale (quando rappresentava l’URSS), nel 2005 viene premiato dalla Federcalcio armena come miglior giocatore della storia della sua nazione. Con l’URSS riesce a vincere anche un Europeo U21 nel 1976 e un bronzo olimpico nel 1980.

Dopo la caduta dell’URSS Hovannisyan segue l’amico Hamleti Mkhitaryan in Francia, stringendo un legame profondo con la sua famiglia. Quando il secondo è costretto a tornare in Armenia, a causa della malattia, Khoren diventa una figura di spicco nel calcio armeno. Dopo aver allenato la nazionale, Hovannisyan diviene presidente del Pyunik. Conscio della promessa fatta da Henrikh al padre, spinge Mkhitaryan a seguire la carriera da calciatore e lo inserisce nelle giovanili della sua squadra. Khoren per lui è mentore, padre e amico: uno e trino, sotto il segno di Hamleti.

Grazie alla stella del calcio armeno, Henrikh ha potuto riabbracciare il padre, in una dimensione astratta. Sotto lo sguardo vigile del padre, Mkhitaryan ha mosso i primi passi di una carriera ricca di vittorie. Ma senza Hovannisyan probabilmente la storia sarebbe ben diversa.

 

Tra divino e terreno

L’Armenia ha fatto a Mkhitaryan da madre. Lui si è nutrito dai seni di una terra intrisa di dolore, a causa di un clima sociopolitico complesso. Non è un caso, quindi, se da ogni zona di Yerevan si possa scorgere il monte Ararat. La sua figura si estende all’orizzonte, oltre i confini della città e osserva dall’alto il flusso della vita, che scorre tra le vene della capitale. Il suo nome in turco è Ağrı Dı: il primo termine significa “dolore”, mentre il secondo “montagna”. Henrikh ha vissuto l’infanzia sotto l’occhio vigile di una vetta il cui nome appare come un monito. La “montagna del dolore” che s’innalza profetica, per proteggere una città intera.

Il nome Ararat deriva direttamente dalla Bibbia e dal Regno di Urartu, un’antica regione dell’Armenia. L’infanzia di Mkhitaryan appare come una trasposizione dal divino al terreno. Dall’attracco di Noè proprio sul monte sacro, fino ai tumulti degli anni ’90. Dalla morte prematura del padre, che permane sotto forma di spirito, alla conquista dell’intera Europa calcistica.

La città fortificata di Erebuni è posta su di un’altura, alle spalle di Yerevan. Era una delle fortezze erette lungo il confine settentrionale dell’antico regno di Urartu. Il suo nome deriva dal verbo Erebu-ni che anticamente significava “conquistare”, “vincere”. Mkhitaryan nella sua carriera calcistica riuscirà, con pazienza e dedizione, a tener fede all’ennesima profezia donatagli dalla sua terra. La vittoria diventerà il leit motiv della sua avventura nel mondo del calcio, da puro discendente del dio Haldi. Egli è un dio guerriero, la suprema divinità del Pantheon di Urartu. Spesso è raffigurato come un essere dalle fattezze di uomo, con una lunga barba e sempre a cavallo di un leone. Il leone alato, però, è anche il simbolo di Yerevan, sul cui scudo l’infinito si lega all’effige dell’Ararat.

La bandiera di Yerevan si erge sulla città come un simbolo. Una montagna, una divinità e l’infinito. Un numero che ricompare come stigmate. Tre come gli anni passati al Pyunik, o come quelli trascorsi indossando la maglia giallo-nera del Borussia Dortmund. Tre come le stagioni all’ombra del Colosseo. La trinità che trascende Mkhitaryan e lo guida, intimandogli di mantenere una promessa fatta al padre molti anni prima. La vittoria vive nel suo nome e il dolore cuce i tratti di un campione, che risponde al nome di Henrikh, figlio di Hamleti.

 

La melodia di Henrikh

In campo Mkhitaryan è leggero, delicato, elegante, ma impossibile da scalfire. Sa essere fulmineo e aggressivo, appena nota un varco tra le maglie della difesa avversaria. Come un rapace, sa sfruttare le debolezze dell’avversario e sfruttarle a suo vantaggio. In questo, lui coniuga due anime diverse, ma coesistenti all’interno del suo paese. Un legame che l’Armenia riesce a esprimere attraverso la propria musica. Un sinfonia simbiotica, che racconta la storia di un popolo isolato, con scarsa copertura mediatica, nonostante la violenza che la sua storia ha conosciuto.

L’Orchestra Sinfonica Armena è la prima anima del paese. La raffinatezza dei gesti di Mkhitaryan si ode nelle esecuzioni della violoncellista Arevik Galyan. La perseveranza di Smbatyan ha creato un’ensamble armonico, che punta a risanare le piaghe di un popolo colpito duramente negli ultimi decenni. Il maestro punta a ritrovare una melodia che ricordi ai cittadini armeni le proprie radici, ma che sappia guardare al futuro. Soprattutto, vuole creare un legame tra la sua terra ed il mondo, per rendere il Paese meno isolato di quanto non lo sia sempre stato.

Il grezzo grido d’aiuto dei System of a Down rappresenta l’altra anima della cultura armena. Un popolo che non si arrende, che combatte e vuole far sentire la propria voce. L’esplosività nelle gambe di Mkhitaryan e il suo tiro preciso e potente ricordano ritmo sincopato della batteria di Dolmayan e la voce evocativa di Serj Tankian. Una melodia in apparente contrasto con sè stessa, che però ritrova la propria unicità nel ricordo della terra natìa e di ciò che ha vissuto. Come nella canzone Holy Mountainsin cui la band narra la profonda cicatrice che sfregia l’animo degli armeni: il genocidio subito nei primi anni del ‘900.

 

Un’Armenia poetica

La storia di Mkhitaryan si intreccia inesorabilmente con quella di Hrand Nazariantz, storico poeta e pensatore armeno. Lui nasce in Turchia, da famiglia armena. Si trasferisce da giovane in Francia, a Parigi, per studiare. La malattia del padre, però, lo costringerà a tornare nella sua Scutari. Nel 1913 è costretto ad emigrare in Italia, a causa del fallimento della ditta di famiglia, dovuto dalle politiche anti-armene che si stavano inasprendo nel paese.

Lui è stato un poeta dotato di un’innata sensibilità e di una grande forza simbolica. Un’imperituro amore verso l’Armenia ne ha condizionato la poetica e l’ha reso un simbolo nel suo Paese. La sua poesia è stata mossa dallo stesso sentimento, dalla stessa forza e dall’orgoglio che Mkhitaryan non ha mai centellinato. Non ha mai lesinato parole d’amore verso l’Armenia e ne ha sempre difeso l’identità nazionale. Non ha mai esitato, nemmeno quando nel 2019 gli fu vietato l’ingresso a Baku, per via dei continui conflitti per la regione del Nagorno-Karabakh, contesa tra Armenia e Azerbaijan.

Mkhitaryan è stato nominato Ambasciatore di Buona Volontà dall’UNICEF e si è sempre impegnato in prima persona affinché cessassero le ostilità tra azeri e armeni. Un grande calciatore in campo, ma anche un uomo dotato di grande intelligenza e sensibilità nella vita di tutti i giorni. Non è un caso che Tsovinar Hambardzumyan, l’ambasciatrice armena in Italia, in un’intervista del 2020 abbia usato queste parole per descrivere il centrocampista, all’epoca della Roma:

«Mkhitaryan non solo eccelle nello sport, ma ha anche uno spiccato spessore intellettuale ed è una persona di altissimi valori etici e morali. […] Basterebbe semplicemente prestare attenzione a Henrikh durante le partite allo stadio e vedere come lui interagisce con i suoi compagni di squadra e con gli avversari per notare subito le sue impeccabili caratteristiche umane e la sua alta preparazione professionale.»

 

L’ennesima trinità

Mkhitaryan opera nel segno di un’altra trinità: musica, letteratura e politica. Un ragazzo forgiato dalla propria terra, che ne ha saputo assorbire l’essenza più profonda, trasferendola in campo. Il ricordo del padre, che ha vegliato sui suoi passi, gli ha insegnato ad evitare le insidie e affrontare le sconfitte. La sua terra, le sue alture e le sue ferite l’hanno reso un calciatore di livello assoluto.

Una vita nel segno del padre. Non ci sarebbe Yerevan senza l’Ararat, così come non ci sarebbe Mkhitaryan senza quello shen che si è fatto per lui linfa vitale. E allora sì, ora lo possiamo dire. Hamleti, sii felice: tuo figlio ce l’ha fatta. Henrikh ha fatto la storia.

 


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Di Thomas Novello

Studente di Editoria e Giornalismo e aspirante scrittore a tempo perso. Famoso su X (fu Twitter) per proteggere Diego "el más grande" Ribas Da Cunha e Berbatov.