Trentatré anni, non quelli di Gesù di Nazaret, ma quelli trascorsi dalla storica salvezza del 1991, quando il Cagliari, da tempo stagnante in Serie C, a otto stagioni dall’ultima volta raggiunse il massimo campionato italiano. Il testimonio ecumenico della risurrezione del Messia, il quale sarebbe riaffiorato dalle malagiate spoglie della propria salma. I rossoblù non avevano badato a spese pur di avere salva la vita: in estate erano arrivati José Herrera ed Enzo Francescoli, fresco vincitore della Ligue 1 con l’Olympique Marsiglia. Doveva ammaliare il grande pubblico, eppure lo stesso Claudio rimaneva convinto che i tifosi dovessero guardarsi dall’idealizzare una chimerica salvezza.
Dopo la sconfitta per 3-0 contro l’Inter di Trapattoni, i sardi seppero rivalersi sul Napoli di Maradona. Tuttavia, il successo del San Paolo avrebbe significato nient’altro che fumo: malgrado non tutti l’avessero interiorizzato, gli azzurri erano infatti alla fine del loro ciclo vitale. Complici i risultati poco incoraggianti, i giornalisti si erano lasciati andare a giudizi malevoli. Con quel sorriso rovesciato il tecnico capitolino aveva comunque raccolto le simpatie della stampa. Rimaneva imperturbabile al toto-allenatore, raccogliendo l’incrollabile fiducia del patron Antonio Orrù:
Se retrocederemo, lo faremo con Ranieri. Non ci serve un altro allenatore.
Intanto, gelida era l’aria che tirava laggiù in classifica. Nemmeno il più ottimista poteva pensare a un cambio di rotta. La sconfitta rimediata contro il Lecce doveva essere l’ultimo chiodo sulla bara in legno della Buona Sorte. Come una scadente bagnarola, il Casteddu imbarcava acqua affondando lentamente negli abissi. Alla vigilia del match contro la Juventus, allo Stadio Delle Alpi, le due rose avrebbero disputato un incontro determinante per la lotta salvezza: una partita da dentro o fuori, col Cagliari che andava sotto di due gol grazie alle reti di Di Canio e Marocchi mentre il coach assisteva imperturbabile alla catastrofe.
Nonostante l’atmosfera da funerale, gli ospiti – merito dei sigilli di Cornacchia e Cappioli – riequilibrarono la sfida fissando il risultato su un insperato pareggio. Improvvisamente, il girone di ritorno si sarebbe trasformato. La vittoria contro il Pisa aveva permesso di sognare e, in virtù del 2-1 contro i salentini di qualche giornata più tardi, i Lupi apparvero improvvisamente destinati alla retrocessione. Il 19 maggio dello stesso anno, mentre la Sampdoria vinceva il suo primo storico scudetto, la formazione di Ranieri superava il Bologna, guadagnandosi con un turno d’anticipo la permanenza in Serie A. Da lì a poco il saggio di Testaccio sarebbe stato contattato dal Napoli, che gli avrebbe affidato il compito di tornare ai vertici del calcio italiano:
Cagliari mi ha accolto e ha avuto fiducia in me sebbene venissi dalla Puteolana e da un campionato negativo. Insieme abbiamo fatto tanta strada, un percorso vincente che ci ha regalato tante soddisfazioni.
Un giovane Claudio Ranieri all’esordio in Serie A
F di fiducia. F di felicità
C’è da chiedersi di cosa sorrida. Parla di felicità perché di scontentezza e malcontento n’è pieno il mondo. Del resto, il suo calcio è sempre stato spensierato, sfrontato e senza fronzoli. Il discorso acquista maggiore significato se a tirare fuori l’argomento è un maestro come lui, capace come nessun altro di indossare il mantello del supereroe – sebbene l’apparenza sia da impiegato delle poste. Con l’occhiale da ragioniere, anchilosato al naso come un quadro alla parete, Sir Claudio scruta i suoi ragazzi con la cieca fiducia di chi mette tutto sul cavallo vincente. “Se non avessi mai perso non saprei cos’è la sfida”, canta Bresh in Guasto d’Amore. Il pallone è un gioco ingiusto, che ritrova in storture e sfortune la sua ragion d’essere. La felicità è un concetto elastico, capace di mutare tanto nella forma quanto nell’aspetto.
Cosa fa di undici individui una squadra? Bella domanda, direi l’essere importanti l’uno per l’altro e per noi allenatori che dai giocatori dipendiamo. Non è detto che ci si debba frequentare volentieri fuori, l’importante è che si vada nella stessa direzione in campo. Il Cagliari è affiatato anche fuori, come una famiglia.
D’altronde, anche il Leicester dei miracoli era “un gruppo di amici che viveva insieme”. Forse il segreto del suo successo stava proprio nella considerazione che calciatori, allenatori e opinionisti avevano della sua persona, un uomo buono, un gentiluomo. Era fissato con la tattica, arrivando addirittura a preferirla alla preparazione atletica. Ai tempi Jamie Vardy si scolava due Red Bull prima del fischio d’inizio, eppure segnava abbastanza da non meritare rimproveri, ma anzi considerazione e affetto.
Ranieri abbraccia il gioco attendista del do-nothing tactical master: in parole povere tra salvaguardare e osare è meglio aspettare. La spontaneità sopra la creatività. Mal che vada ci arrocchiamo in difesa a fare catenaccio, tanto li prendiamo in contropiede. Benché fosse conosciuto per il suo ghigno bonario, dalla sua placida indifferenza trapelava sempre una certa diffidenza. Il Normal One non è un tipo particolarmente loquace, non ha nessun tratto distintivo che lo differenzi dagli altri colleghi. È la propria compostezza a renderlo flemmatico. D’altra parte, essere ideologo vuol dire abbracciare il credo di un santone che accusa gli altri di deferenza, ovvero servilismo.
Datemi sempre tutto quello che avete da dare e in cambio io vi spiegherò un po’ di calcio.
Badare alla sostanza piuttosto che alla forma. Ciò di cui abbiamo colpa è l’ingratitudine:
Sono democratico con la squadra solo se fa come dico io. Sono anche più spensierato, per me lo stress è stare senza squadra.
I sorrisi dietro un’impresa, la più grande di Ranieri e non solo: il Leicester è campione d’Inghilterra.
Fine di un ciclo
Nell’eterno dualismo tra sensibilità e sensitività, da Ranieri ci si poteva aspettare veramente tutto.
Credo di essere una persona normale, sarà che non ho mai smesso di andare al supermercato con mia moglie: ho la fortuna rara di fare il lavoro che amo. Volevo fare il calciatore e ci sono riuscito, senza essere campione. Verso i 35 anni ho pensato: vediamo se son capace di allenare? Pian piano ci sono riuscito. Questo mi rende un uomo felice.
Un sentimento, un uomo che elargisce affetto per ricevere rispetto. Daniele De Rossi l’ha definito “un gentiluomo di carattere che nello spogliatoio ha gli attributi”. Il momento decisivo è stato quando il Cagliari si è ribellato alle dimissioni, ostacolandone il commiato. Con lui sono saliti in Serie A e con lui dovevano salvarsi, questa è stata la risposta dei calciatori prima di Udine:
Mi auguro di essere ricordato come una persona positiva, una persona che ha chiesto aiuto al popolo sardo, perché senza di loro, sono sincero, non ce l’avremmo fatta.
La gaiezza stava nel suo lascito, un addio alla città più che alla società, in quanto “Cagliari è la fine di un ciclo”. Era partito da lì ed era giusto fosse la sua ultima tappa prima del ritiro. Come lo dovremmo chiamare se non leggenda?
Come volete, meglio Claudio.
La riconoscenza del suo popolo sta in quell’amore senza riserve. Il calore della gente, che ravviva il settarismo tipico degli isolani, campanilisti per natura. Per non parlare dei litigi, da quello col presidente Massimo Ferrero a quello che ha coinvolto Francesco Totti:
Ma io sono un dipendente. E non vado a lamentarmi in giro. Certe cose rimangono tra me e la società. Non demolisco la credibilità di chi mi dà un lavoro a colpi di interviste o dissociazioni a mezzo stampa. Non l’ho mai fatto.
Metteva d’accordo tutti, persino i suoi detrattori, come quando José Mourinho, che l’aveva etichettato come un grigio italiota, alla notizia del suo esonero da allenatore del Leicester dichiarò: “Nessuno può cancellare la storia che ha scritto”. Ranieri viveva di emozioni genuine e, come conviene al savio, piangeva della propria emotività:
Quello che ottengo a Cagliari vale più di qualsiasi altra cosa.
Ai tempi della Roma, alla vigilia della trasferta di Marassi si era rifiutato di abbandonare la nave in tempesta. Dovette ricredersi quando alla terza sconfitta di fila in campionato – nella stagione 2010/2011 – avrebbe subito il clamoroso ribaltone del Genoa. Sotto di tre gol, al triplice fischio il Grifone vinse per 3-4, segnando la fine della sua prima avventura sulla panchina giallorossa.
Oggi siamo entrati in campo con la voglia di lottare e vincere, per tutti quelli che amano la maglia e la città. Ogni minuto della mia giornata è per la Roma, ho sempre detto che per me una sconfitta faceva più volte male, ma veder i miei ragazzi lottare fino alla fine e perdere mi scuote nel profondo.
Similmente, dopo la gara persa contro la Lazio nel febbraio di quest’anno, l’incespicante Cagliari galleggiava nella zona più calda della classifica. Nonostante avesse smesso di crederci, il capitano Leonardo Pavoletti ha rinnovato fiducia nei confronti del tecnico rossoblù, esortandolo a non darsi per vinto:
Stiamo lavorando come matti, siamo uniti, prima o poi la ruota girerà.
Dilly ding dilly dong, ecco il rintocco della campana. Per Claudio Ranieri è arrivato il prepensionamento, non macchiando ma arricchendo la carriera. Aveva ragione anche stavolta.
Il sorriso del mister dopo il successo al Mapei Stadium: Ranieri ce l’ha fatta di nuovo
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