Come dice la locuzione latina, nomen omen. In ungherese király significa “re”, e Charles Frederick Kiraly può essere considerato il Re della pallavolo, recente e non solo. Un regno un po’ particolare il suo, dal momento per costruirlo ha dovuto varcare i confini della propria nazione, vincendo in tutto il mondo e addirittura in discipline diverse, seppur strettamente imparentate. Kiraly è infatti l’unico nella storia di questo sport ad aver vinto medaglie olimpiche in due differenti competizioni, volley indoor e beach volley.
Costruire una leggenda
Karch, come tutti lo conoscono, nasce il 3 novembre 1960 nel Michigan, a Jackson. Il padre László ha fatto parte della Nazionale ungherese juniores ed è lui a trasmettere al figlio la passione per questo sport. Per la precisione Karch fa i primi palleggi sulla sabbia, dal momento che il primo torneo a cui partecipa a 11 anni è di beach volley. Oltre alla passione per il volley, László ha donato al figlio la libertà di scelta, facendolo nascere negli Stati Uniti dopo una fuga rocambolesca dal regime sovietico in un camion di cocomeri.
E il piccolo Frederick non si fa scappare l’occasione di realizzarsi. Fin da subito mette cuore e sudore negli allenamenti e sviluppa una vera e propria repulsione verso l’errore, che lo porta a passare ore ed ore in palestra per automatizzare ogni movimento. Lui, la palla e alcune volte solamente un muro per curare in ogni dettaglio il gesto tecnico.
Kiraly approccia la disciplina in maniera maniacale: sono il lavoro fisico e il sacrificio quotidiano a fare da collante per ottenere il massimo risultato possibile. La statura non eccelsa (188 centimetri) sarebbe tutt’altro che una buona base di partenza per la costruzione di un giocatore di alto livello. Eppure la sua esplosività cresce a dismisura fino a raggiungere livelli di stacco disarmanti, con un picco di 105 centimetri di elevazione da fermo che gli permette di colmare definitivamente il deficit di altezza rispetto alla media dei giocatori di volley.
Ritenuto dalla totalità degli addetti ai lavori una macchina da guerra, Kiraly ha curato per tutta la carriera sia l’aspetto tecnico che quello mentale del gioco, prestando attenzione a non tralasciare alcun dettaglio. In uno sport in cui la libidine assoluta è l’attacco, lui predilige difese e ricezioni, basandosi sulla ferma convinzione che sia proprio lì che il campione è chiamato a fare la differenza. Una qualità che lo rende precursore della nuova concezione di pallavolo: pur avendo giocato nell’epoca del cambio palla, ha sviluppato quei fondamentali di seconda linea che oggi, con il rally point system (ogni azione un punto), sono l’ago della bilancia in grado di determinare l’esito di una partita.
Nel “Kiraly Pensiero” c’è la convinzione che nessuna palla sia impossibile e che tutto ciò che oltrepassa la rete si possa prendere. In attacco non è debordante e la potenza di schiacciata è nella norma, ma nella sua testa il problema non sussiste e la soluzione è sempre e solo il lavoro. Le ore in palestra trasformano un giocatore dall’ottimo controllo nel più forte in assoluto nel block-out, ossia la palla attaccata contro il muro avversario e fatta finire fuori dal campo.
Immagini che fanno capire il pensiero e lo spirito di Karch
Mentalità vincente
Sebbene, come detto, nasca praticamente con la palla in mano, Kiraly riesce a giocare a pallavolo con una certa regolarità solo dal 1976, quando entra nella Santa Barbara High School. I risultati sono subito eccezionali sia a livello di squadra (finalista nel campionato della South California), sia a livello individuale, tanto da valergli l’accesso alla Nazionale Juniores nel 1977. L’anno seguente porta Santa Barbara High School alla vittoria del torneo con 83 successi consecutivi e aggiudicandosi il premio di MVP del campionato. Ciò attira le attenzioni delle migliori compagini del volley universitario, cui accede nel 1979.
Nei quattro anni successivi partecipa alla Division I organizzata dalla NCAA difendendo i colori di UCLA, con cui vince 3 titoli (1979, 1981 e 1982) e mette insieme uno score incredibile di 129 partite vinte su 134, tant’è che nel 1992 l’università decide di ritirarne la maglia e inserirlo nella Hall of Fame. In questo periodo Karch è abituato a sdoppiarsi nei ruoli di alzatore e schiacciatore – per fare un parallelismo con il calcio è come dire regista e punta – fin quando incontra l’allenatore della Nazionale maggiore USA Doug Beal. La sua scelta di impostarlo come schiacciatore-ricevitore si rivelerà vincente per la definitiva consacrazione di Kiraly.
Beal è l’allenatore visionario che per primo ha previsto l’impianto di squadra che oggi è predominante, con un solo alzatore e due ricevitori, ragion per cui non può rinunciare alla classe di Kiraly in quel ruolo. Nel 1981 assistiamo all’esordio in Nazionale maggiore del giovane Karch, e da lì a qualche anno in squadra si aggiungeranno altri campioni come Jeff Stork, Dusty Dvorak, il grande amico Steve Timmons, Scott Fortune, Craig Buck e Bob Ctvrtlik, che insieme a Kiraly scriveranno la storia del volley.
La consacrazione mondiale
Alla prima competizione, il campionato nordamericano, arriva “solo” l’argento alle spalle di Cuba ma gli USA sapranno rifarsi nelle due edizioni successive. Il 1984 è l’anno della prima apparizione olimpica – il più giovane della spedizione – a Los Angeles, una rassegna caratterizzata dal boicottaggio di tutte le formazioni del blocco sovietico come reazione a quello statunitense dell’edizione precedente, svoltasi a Mosca. Gioca da titolare tutte le partite e risulta determinante in finale, dove gli States ribaltano ogni pronostico e sconfiggono lo strafavorito Brasile, che nel girone aveva umiliato proprio gli USA con un netto 3-0. Il successo in finale vale a lui e alla sua Nazionale la medaglia d’oro, la prima per gli Stati Uniti da quando il volley è entrato nel programma olimpico.
Nel 1985, all’età di 25 anni, Kiraly diventa capitano della Nazionale, un traguardo incredibile per un giocatore così giovane e in una selezione di tale importanza. Ma la decisione appare naturale, il ragazzo ha carisma e personalità da vendere e non solo assolve al suo compito alla grandissima, ma addirittura contribuisce alla crescita della sua squadra: in appena tre anni arrivano il titolo nei Giochi panamericani, la Coppa del Mondo in Giappone – con Cecoslovacchia e URSS presenti e Karch nominato miglior giocatore – e i Mondiali di Parigi, completando così il Triple Crown. Il vero capolavoro arriva però con il bis olimpico grazie all’oro ai Giochi di Seul 1988, in cui i boicottaggi sono finiti e le squadre sono tutte presenti e ben attrezzate.
Nonostante il parterre de roi, non c’è storia: Kiraly e compagni dominano il torneo dalla prima all’ultima palla. Il Brasile in semifinale e l’Unione Sovietica in finale non possono nulla davanti allo strapotere fisico e tecnico degli statunitensi. Karch è ovviamente il perno del gioco e alla fine della rassegna viene nominato per la seconda volta – dopo il successo nel 1986 – miglior pallavolista del mondo. A questo punto arriva però il colpo di scena: terminate le Olimpiadi Kiraly annuncia l’addio alla Nazionale. Una decisione completamente inaspettata, le cui reali motivazioni sono ancora oggi misteriose. Con il suo addio ai parquet internazionali finisce anche il ciclo magico della nazionale USA, di certo non una semplice coincidenza.
Sulla sabbia e ritorno
Ma le sorprese non sono finite perché, contemporaneamente a questo addio, Kiraly si prende un periodo sabbatico dalle palestre per tornare al primo amore adolescenziale, il beach volley. Partecipa a 16 campionati AVP con il compagno Bent Frohoff con 4 vittorie e 9 podi. Ma è con Steve Timmons che decide di affrontare il più importante campionato del settore, il World Tour, che si svolge a tappe in giro per il mondo. I due partecipano alle tappa di Rio (6° posto) e Jesi (3° posto) prima di vincere quella di Enoshima. Nel 1990 decide invece di prendere parte solo ai tornei del circuito AVP, ottenendo 21 podi su 23 tappe, di cui 7 salendo sul gradino più alto. Incredibile come, in due sport diversi, Kiraly non riscontri alcun problema di adattamento, riuscendo ad eccellere e a far parte dell’élite mondiale.
Un Kiraly tecnicamente perfetto in azione sulla sabbia
A questo punto della carriera, ecco la seconda sliding door. Nel 1990 per Kiraly e Timmons arriva arriva un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Giunge dal campionato più importante del mondo, quello italiano, e precisamente dalla storica Messaggero Ravenna. Un’offerta faraonica per assicurarsi le prestazioni dei due statunitensi. Assieme a Fabio Vullo, Andrea Gardini, Roberto Masciarelli e Stefano Margutti, i due compongono uno dei sestetti più forti della storia, tanto da vincere scudetto e Coppa Italia nella stagione d’esordio, cui seguiranno nel 1992 il Mondiale per club, la Coppa dei Campioni e la Supercoppa europea. Avendo vinto in due anni tutto quello che si poteva vincere, Kiraly decide di cercare nuove sfide e a 32 anni dà l’addio definitivo all’attività indoor.
Il richiamo della sabbia e del mare è troppo forte, senza contare che una ghiottissima occasione tenta Karch. La voce che inizia a circolare nell’ambiente è lo storico ingresso del beach volley tra gli sport olimpici a partire dall’edizione del 1996, da disputare oltretutto in patria, ad Atlanta.
Quando l’inserimento tra le discipline olimpiche è confermato, Karch rompe gli indugi. Decide di far coppia fissa con Kent Steffes, con cui domina in lungo e in largo i tornei AVP dal 1992 al 1996, lasciando agli altri praticamente solo le briciole e mettendo a referto 77 vittorie su 113 partecipazioni. Arriva il tanto atteso torneo olimpico di Atlanta 1996: il duo parte come testa di serie numero 3 a causa della mancata partecipazione alle tappe del World Tour, che priva Kiraly e Steffes dei punti necessari per migliorare la posizione nel tabellone principale. Eppure l’opinione comune è che siano la coppia da battere.
Di quell’Olimpiade rimane nella storia il derby statunitense giocato nei quarti di finale contro la coppia composta da Carl Henkel e Sinjin Smith, con un interminabile set decisivo durato ben 55 minuti. Il resto degli incontri sono pura formalità e fanno sì che l’uomo, già campione, diventi leggenda: unico nella storia fino ad oggi ad aver vinto la medaglia d’oro olimpica sia nella pallavolo che nel beach volley.
Purtroppo l’anno successivo un grave infortunio alla spalla fa sì che le sue apparizioni si diradino, tant’è che non riesce a centrare la qualificazione per i successivi Giochi Olimpici di Sidney 2000. Ha giusto il tempo di alzare ancora un po’ l’asticella e piazzare un altro record, vincendo un torneo AVP nel 2005 in coppia con Mike Lambert all’età di 45 anni. Nel frattempo nel 2000 viene nominato dalla FIVB, in coabitazione con il nostro Lorenzo “Lollo” Bernardi, “Miglior Giocatore del XX Secolo”. Per far capire la dimensione del fenomeno, Kiraly nell’arco dei suoi 31 anni di carriera è salito sul podio nel 75% delle competizioni alle quali ha preso parte.
Il punto decisivo in trasferta: la Messaggero Ravenna piega la Banespa ed è sul tetto del mondo
La nuova vita da coach
Terminata la carriera agonistica, Kiraly inizialmente pare allontanarsi dal mondo del volley. Finché una sera la moglie Jenna lo accoglie al rientro a casa e gli spiega che la squadra del piccolo Kory – uno dei due figli – è rovinosamente ultima in classifica e avrebbe bisogno di una scossa. Da questa bizzarra coincidenza nasce la carriera di un allenatore di successo: Kiraly decide di tornare in palestra e diventa allenatore della squadra. La settimana successiva arrivano già i primi set vinti, la stagione successiva le prime vittorie e così via. Decide addirittura di dedicarsi all formazione di nuovi pallavolisti a tempo pieno, tanto che nel 2007 fonda la Karch Kiraly Volley Academy.
Con un curriculum del genere, per gli incarichi prestigiosi è solo questione di tempo: nel 2009 arriva la chiamata come assistant coach della Nazionale statunitense femminile al fianco di Hugh McCutcheon. A Karch viene ovviamente chiesto supporto tecnico per la prima squadra degli USA ma anche di mettere a disposizione la sua sconfinata esperienza ad alto livello. Si tratta di un momento di rifondazione per gli USA, con tante atlete giovani chiamate per far ripartire un ciclo. Fondamentale sarà il suo apporto psicologico e motivazionale nella crescita del roster a disposizione, anche vista la concorrenza particolarmente agguerrita nel volley femminile mondiale dell’epoca.
Durante questo periodo da assistente agisce senza poter incidere come vorrebbe, perché la delimitazione dei ruoli in uno staff nazionale è netta e non si ha particolare libertà di movimento. Arriva un quarto posto ai mondiali giapponesi del 2010 e nello stesso anno la vittoria nel Grand Prix, vittoria ripetuta anche nei due anni successivi. Arrivano anche due argenti olimpici consecutivi, a Pechino 2008 e Londra 2012. Ma la federazione vuole di più, e lo vuole ovviamente anche Kiraly. Una comunione d’intenti che porta ad un inevitabile matrimonio: il 12 settembre 2012 Karch Kiraly prende in mano le redini della squadra femminile USA per i quattro anni a venire, con un unico obiettivo dichiarato: l’oro olimpico di Rio 2016.
Ora che è head coach, Kiraly ha ogni carta in mano per trasferire alle atlete tutto ciò che ha nel bagaglio tecnico, motivazionale e esperienziale. La prima uscita è però un sesto posto nel Gran Prix che sa di mezzo passo falso. Team USA ottiene ugualmente il pass per i Mondiali previsti in Italia nel 2014 grazie al successo nel campionato nordamericano NORCECA. Nella kermesse iridata gli USA vengono inseriti nella Pool C, vinta a punteggio pieno lasciando per strada solo 2 set, uno a sorpresa con il Messico e uno con la corazzata Russia.
Nella seconda fase, lo scontro diretto perso per 3-0 con la favoritissima Seleçao brasiliana costa il primo posto, relegando gli Stati Uniti in un girone di ferro con Russia e Italia, valido per l’accesso alle semifinali. Qui la fortuna aiuta la squadra di coach Kiraly, che si qualifica nonostante l’iniziale sconfitta con l’Italia grazie alla doppia caduta della Russia con le azzurre e gli stessi USA. Avversario in semifinale? Il solito spauracchio Brasile dello storico allenatore Zé Roberto. Una sfida che segna il definitivo cambio di marcia: stavolta gli USA superano in volata i carioca e fanno il bis contro la Cina in finale, aggiudicandosi il primo oro mondiale della storia della Nazionale femminile a stelle e strisce.
Kiraly durante uno dei suoi time out
Appuntamento con la Storia
Ad agosto 2016 è finalmente il momento delle Olimpiadi. La squadra viene sorteggiata con Serbia, Cina, Paesi Bassi, Italia e Porto Rico, in quello che è sicuramente il più complicato dei due gironi. Gli USA chiudono al primo posto senza sconfitte, soffrendo solo contro i Paesi Bassi, piegati 3-2. Nei quarti la squadra di Kiraly trova il Giappone, movimento in costante ascesa in Asia ma che nulla può a livello olimpico: un facile 3-0 vale la semifinale. La strada verso l’agognato oro si interrompe tuttavia in semifinale, al cospetto di una Serbia ancora troppo forte per le ragazze a stelle e strisce, relegandole alla finalina per il terzo posto, poi vinta sui Paesi Bassi.
Alla fine dei Giochi la delusione è tangibile, ma a mente fredda la federazione conviene che il gruppo è in crescita e che in questi casi la continuità sia sempre la miglior medicina. Ragion per cui coach Kiraly viene riconfermato sulla panchina per altri quattro anni, con l’obiettivo di andarsi a prendere l’oro alle successive Olimpiadi. E l’ultimo tassello dorato del puzzle arriva proprio a Tokyo nel 2021: dopo alcune difficoltà nel girone eliminatorio, la squadra statunitense si scioglie e rulla chiunque le si pari davanti.
A Tokyo le ragazze fanno definitivamente proprio il credo del tecnico: nel loro campo non cade un pallone, non esistono difese impossibili. Nel suo cammino la squadra ha imparato a soffrire e maturato la giusta esperienza per le grandi occasioni. E in effetti dopo gli intoppi nel girone arriva un doppio 3-0, rispettivamente in semifinale e finale ai danni di Serbia e Brasile, le due superpotenze del momento, che permette di conquistare l’oro olimpico femminile per la prima volta nella storia. King Karch diventa leggenda: dopo i due ori olimpici nella pallavolo indoor ed il primo oro assoluto del beach volley, ecco il quarto oro olimpico, stavolta da allenatore.
Karch Kiraly è probabilmente la persona più vincente della storia recente della pallavolo. Solo un’altra atleta è riuscita ad avvicinarne le imprese: la cinese Jenny Lang Ping si è fermata “solamente” all’oro olimpico come giocatrice e come allenatrice della sua Nazionale. Quello di Tokyo è l’ultimo capitolo fino ad oggi ma dubitiamo fortemente che sia già stata scritta tutta la storia. Tra pochi mesi, a Parigi, ci sarà la possibilità di vergare una nuova pagina d’oro.
Un’immagine ormai consueta, quella di Kiraly sul gradino più alto del podio olimpico. Qui è l’oro nel beach volley ad Atlanta 1996
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