Leggi, ascolti e pronunci Colombia e purtroppo associ questo nome al narcotraffico. Un Paese splendido, con una grande biodiversità, ricco di storia, che ha dato i natali a un Nobel per la letteratura come Gabriel García Márquez e a un artista famoso in tutto il mondo che si chiamava Fernando Botero, non può richiamare alla mente prima di tutto droga e delinquenza.
Parlando di Antioquia e del suo capoluogo Medellín, è inevitabile associare anche il nome di questa città, quando viene letto, ascoltato o pronunciato, al famoso cartello della droga. Anche il calcio non è fuori da queste dinamiche, perché:
El narcotráfico es un pulpo, toca todo, y el fútbol no es una isla.
Narcofútbol
“Il narcotraffico è un polpo, tocca tutto, e il calcio non è un’isola“: questa frase pronunciata dal saggio allenatore colombiano Francisco Pacho Maturana riassume il significato del calcio nella Colombia e nella Medellín degli anni ’90, periodo in cui, statistiche alla mano, era la città più pericolosa del mondo.
L’attenzione verso il calcio subisce una forte accelerata con l’ascesa al potere del colombiano più conosciuto nel mondo: Pablo Emilio Escobar Gaviria, El Patròn, un uomo che non ha bisogno di presentazioni. Tifoso dell’Independiente, decide di investire (o meglio riciclare) nell’altra squadra di Medellín, l’Atlético Nacional. Il tutto con l’intento di contrapporsi al socio José Gonzalo Rodríguez Gacha detto El Mexicano, proprietario dei Millonarios di Bogotà, e ad alcuni rivali in affari, i fratelli Orejuela proprietari dell’América de Cali.
I soldi riciclati da queste proprietà permettono di sviluppare e accrescere tutto il movimento calcistico colombiano. La stessa Nazionale non ha grande tradizione e seguito fino al periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, potendo sin lì vantare un secondo posto alla Copa America del 1975 e una sola partecipazione alla fase finale di un Mondiale nel 1962 come massimi traguardi raggiunti.
A livello di club, la Colombia raggiunge l’apice nel 1989 con la vittoria della Copa Libertadores proprio da parte del Nacional di Medellín ai danni dei paraguayani dell’Olimpia di Asunciòn. I Verdolagas, guidati in panchina da Pacho Maturana, sono una compagine composta da soli giocatori colombiani che rappresenteranno la spina dorsale della Nazionale che verrà, con gente del calibro di Renè Higuita, Andrés Escobar, Albeiro Usuriaga, Leonel Álvarez, Luis Carlos Perea e Jairo Tréllez.
Proprio il tecnico del Nacional de Medellín ottiene l’incarico per guidare la Nazionale dei Cafeteros, portando così in blocco più di metà della sua squadra di club a partecipare alla Copa America del 1987, conclusasi con un memorabile terzo posto, e ai Mondiali di Italia ’90, dove i colombiani destano un’ottima impressione, uscendo agli ottavi contro il Camerun esclusivamente per una follia del portiere Higuita.
La clamorosa topica di Higuita che ha condannato la Colombia a Italia ’90
Affaire Higuita
Folle follia. Non è solo una sorta di figura retorica ma una definizione che si addice perfettamente al personaggio di Renè Higuita. Cresciuto con la nonna e la zia nel quartiere di Castilla a Medellín, fin da ragazzino spicca per estro ed originalità. Un libero aggiunto, un portiere che non solo imposta l’azione ma si proietta addirittura in avanti, con larghe falcate e dribbling, tra cui quello famoso e sciagurato tentato ai danni di Roger Milla, costato l’eliminazione agli ottavi contro il Camerun.
Grande pararigori, in carriera segnerà anche alcuni gol su calcio piazzato, tra cui uno in semifinale di Copa Libertadores nel 1995 contro il River, sebbene il gesto tecnico più conosciuto del suo repertorio rimanga quello dello “scorpione” a Wembley contro la Nazionale inglese, consistente nel lasciare scorrere la palla dietro la testa e colpirla in tuffo con le suole. Non solo ferma in questa maniera Redknapp, ma lascia sbalordito il mondo calcistico per il coraggio, la bravura e l’originalità.
El Loco dovrebbe essere uno dei giocatori più rappresentativi per il Mondiale del 1994 negli Stati Uniti, ma non può partecipare perché finito nei guai dopo aver fatto da mediatore, senza prima avvisare le forze dell’ordine, tra i rapitori di una ragazza e la famiglia della giovane. Condotta illecita, problemi con la giustizia e addio campionati del mondo.
Pur essendosi sempre difeso dalle accuse ed affermando di non essere mai stato un narcos, inoltre, il portiere non nasconde l’amicizia e la stima verso El Patròn, che va a trovare frequentemente alla cosiddetta Catedral.
Anche senza il loro numero 1 titolare, i Cafeteros si qualificano alla fase finale della Coppa del Mondo 1994 dopo aver incredibilmente demolito 5-0 l’Argentina al Monumental, entrando nel novero delle compagini favorite per la vittoria finale.
Il leggendario “scorpione” di Higuita
Lo squadrone del 1994
Dopo una parentesi in Spagna alla guida del Valladolid, Maturana torna alla guida dei Cafeteros, confermando anche in questa circostanza il blocco dei suoi fedelissimi, cui aggiunge alcuni elementi di qualità. Il primo nome è indubbiamente quello del capitano, El Pibe Carlos Alberto Valderrama, talento sottovalutato e famoso forse più per la folta chioma riccioluta che per le sue giocate. Figlio di Jaricho, un ex calciatore che giocava come difensore centrale nell’Unión Magdalena, è soprannominato da ragazzino El Mono (come chiamano i biondi in Colombia) o El Pibe, nomignolo coniato dal suo ex allenatore delle giovanili proprio dell’Unión Magdalena, l’argentino Rubén Deibe (in Argentina Pibe si può tradurre come ragazzo).
Numero dieci, cervello del centrocampo, lento ma con una visione di gioco ed una velocità di pensiero che compensano alla perfezione le carenze nella corsa. Un giocatore che disputerà tre mondiali consecutivi da protagonista e che Pelé inserirà nella FIFA 100, la lista dei 125 giocatori più forti al mondo. Cresciuto nel quartiere Pescadito di Santa Marta, pigro e svogliato come il tipico costeno, ha come motto “todo bièn, todo bièn”, quasi a non curarsi dei problemi del mondo. La moglie lo rimprovera spesso perché gioca con la maglia fuori dai pantaloncini e i calzettoni abbassati. Eppure Valderrama sa anche essere elegante, grazie all’innata e smisurata intelligenza nel gioco con cui è in grado di mandare in gol i compagni. Gioca con alterne fortune anche in Europa nel Montpellier e nel Valladolid con Maturana, Higuita e Álvarez, suo fedele scudiero in nazionale. Quindi torna in patria e chiude la carriera negli Stati Uniti.
A centrocampo un altro nome altisonante è quello di Freddy Eusébio Rincón. Il colosso di Buenaventura, dotato di una fisicità straripante, giocherà anche per un anno nel Napoli. Oltre alla prestanza fisica, ha anche un ego smisurato e una forte personalità, tanto da mettersi contro l’allenatore dei partenopei dopo avergli comunicato in maniera colorita di volere al suo fianco, in attacco, il Condor Agostini e non Benny Carbone. Non è mai scoccata la scintilla con il nostro continente, né in terra partenopea né al Real Madrid, ma è ricordato in patria con il gol del pareggio all’ultimo minuto con la Germania durante i Mondiali del 1990 e la doppietta nel famoso 0-5 contro l’Argentina durante le qualificazioni.
Di quella squadra leggendaria non si può non menzionare Faustino Asprilla, spettacolare attaccante che per molti anni abbiamo potuto ammirare a Parma. Oltre ai suoi gol mai banali e festeggiati con una capriola, su tutti quello con cui a San Siro ha messo fine all’imbattibilità del Milan che durava da 54 partite, è ricordato anche per le doti da playboy, per le feste e le notti in discoteca. Carattere esuberante, svogliatissimo, abbinava una grande velocità ad una tecnica notevole.
Insomma, ci sono tutti gli elementi per sognare. Eppure le cose andranno diversamente.
El Pibe Valderrama in azione contro i padroni di casa ai mondiali statunitensi
Tragica fine
La pressione da parte della federazione, del popolo colombiano, della stampa e anche dei vari cartelli gioca un brutto scherzo ai Cafeteros e a Usa ’94 qualcosa va storto sin da subito. Il debutto non è dei migliori: Valderrama e compagni vengono sconfitti 3-1 dalla Romania. La squadra non gira, si dimostra nervosa contro gli ottimi rumeni guidati dal grandissimo George Hagi. Prima del secondo match un episodio scuote il ritiro: nell’hotel che ospita la Nazionale colombiana arriva un fax anonimo con minacce al CT Maturana e l’ordine di non schierare nella partita successiva, con gli Stati Uniti, il centrocampista Gómez, uno dei peggiori in campo all’esordio. Maturana esegue, perché il fax è anonimo ma non troppo e con i narcos non si scherza.
Con i padroni di casa, la musica sembra poter cambiare: i Cafeteros dominano tecnicamente e tatticamente. Finché al 35′, su un innocuo cross dalla sinistra dello statunitense Harkes, Andrés Escobar, uno dei più forti difensori sudamericani della sua generazione, devia il pallone nella propria porta. Da quel momento lo squadrone colombiano non esiste più, la sconfitta per 2-1 ne sancisce l’aritmetica eliminazione. La vittoria nella terza partita contro la Svizzera serve solo per le statistiche e i colombiani hanno paura di tornare a casa.
Non ne ha però Andrés Escobar, che rientra a Medellín a testa alta, proprio come fa quando esce palla al piede dalla difesa dopo aver anticipato l’avversario. Un difensore elegante, un vero gentiluomo, promesso sposo del Milan, che saluta l’avventura iridata rilasciando alla stampa una dichiarazione che in seguito suonerà drammaticamente beffarda:
A presto, perché la vita non finisce qui.
Escobar insomma ci mette la faccia e non sente la necessità di giustificarsi per un errore, per essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un po’ come succederà quella maledetta notte del 2 luglio 1994, nel parcheggio del ristorante El Indio, quando viene ucciso da sei colpi di mitragliatrice dall’ex guardia del corpo Humberto Munoz Castro. Sono diverse le versioni sull’accaduto e le ipotesi sul movente dell’omicidio ma, come diceva Pacho Maturana, Andrés non è stato ucciso dal calcio, ma dalla società.
Doveva essere solo un autogol, si è trasformato in tragedia
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