Il sole tiepido s’adagiò quieto dietro la linea dell’orizzonte, colorando il cielo con riflessi violacei. Come il tramonto di un’era ancora sconosciuta, una leggera brezza d’autunno faceva annuire i ciuffi d’erba che s’ergevano tra le pietre irregolari. Un lampo improvviso illuminò la figura del ragazzo che, come catatonico, guardava la televisione. Il viso delicato a tratti si contorceva, strappandolo dalle grinfie di una trance estatica, che lo isolava dal mondo. In fondo, però, isolarsi non era così brutto. Nessun livido sul volto, nessun graffio, non c’era spazio neppure per il rumore sordo della tosse enfisemica della madre. In quel luogo, appena un passo oltre il confine del reale, la sua vita si fondeva a quella dei ventidue ragazzi che correvano sul campo verde.
«È tardi. Forse è meglio che te ne vai a letto», bastò il tocco della mano ossuta della madre a riportarlo alla realtà.
«Ma la partita…»
«Lo sai quali sono le regole. Quando il sole va a dormire, anche i bambini devono andarci».
«E perché il papà può restare fuori?».
«Gli adulti a volte sono costretti a commettere peccati, per permettere anche a te in futuro di fare lo stesso. Ma te lo spiegherà lui quando torna a casa».
«E quando torna?».
«Presto piccolo mio, molto presto.» Mentre un rigo di sale le solcava il viso, la madre si piegò verso la figlia in fasce. La baciò con trasporto e se la strinse al petto, per coordinare i battiti cardiaci. Poi si voltò verso il primogenito, come in ultimatum: «Ora vai!».
Il ragazzo prese il telecomando, cercando di dilatare il tempo tra un movimento e l’altro. Tenne qualche momento per sé, in modo da ammirare quella poesia su prato che stava prendendo vita dietro allo schermo. Sull’angolo sinistro, laddove una folla indistinta di puntini saltava all’unisono, si poteva scorgere il risultato. Pensò a quello 0-0: che peccato. Gli sarebbe piaciuto vedere almeno un gol prima di coricarsi. Puntò l’apparecchio verso la televisione che si spense con un sonoro click. Il buio inghiottì la stanza e custodì con cautela un segreto, che forse non avrebbe mai rivisto la luce.
La camera da letto era praticamente un buco. Alle pareti due poster stropicciati ne occupavano interamente la superficie. L’intonaco bianco veniva qua e là interrotto da masse informi di muffa nera, che diffondevano nell’area il tipico fetore stantio. Un piccolo letto scricchiolante era l’astronave dentro la quale il ragazzo viaggiava nell’etere del suo subconscio. La piccola scrivania poggiava sul muro irto di piccole crepe, che creavano un mosaico astratto. Su di essa vi era posta una pila di libri da mesi inutilizzati, letti oramai solamente da polvere e umidità, che facevano scricchiolare i cardini della scrivania di legno.
Il gracile ragazzino sollevò la coperta macilenta, spargendo nell’atmosfera minuscole particelle di polvere, che danzavano all’unisono all’interno della stanza. Spense la luce. Il profilo della luna si era ormai perduto aldilà delle tapparelle, ma riusciva comunque a fendere la densa oscurità della stanza. Il ragazzino chiuse gli occhi. Si dice che sonno sia cugino di morte e che proprio nell’ora più buia della notte i sogni peggiori affiorino dalle tenebre. I proverbi vanno presi come tali: semplici dicerie. C’è uno spazio, però, nel quale fantasia e realtà si connettono, riversandosi l’una nel corpo dell’altra, in una relazione intraducibile a parole, ma ben visibile proprio quando le palpebre si chiudono. E fu così che le braccia di Morfeo si strinsero sul ragazzo.
Un pallone. Una sfera bianca, con qualche inserto nero e un paio di scritte indefinite di colore rosso. Qualche spruzzata di verde tanto per ricondurla al luogo a cui spetta di diritto. Quell’oggetto viaggiava, viaggiava, viaggiava senza sosta. Sorvolava monti, rovine, una grande infrastruttura ottagonale, sulla quale spiccava un’immensa cupola dorata, che guidava gli occhi di milioni di passanti verso un punto indefinito oltre la coltre celeste. Un’imponente cinta di mura perse la propria forma a contatto col pallone, che poté così continuare il suo cammino. Uno scarpino bianco, leggermente macchiato dal fango sottostante, si poggiò con veemenza sopra alla sfera. Con la mano ossuta si spostò una ciocca di capelli bagnati dal viso. Attorno a sé una massa informe di individui saltava all’unisono su spalti talmente alti da toccare il paradiso. Abbassò lo sguardo e vide che stava indossando una maglia di un verde poco più chiaro di quello del prato e dei pantaloncini dello stesso colore. Il ragazzo aprì gli occhi. «Che la partita abbia inizio» disse a quella parte di cervello, che sperava fosse ancora sveglia.
Strano. Questo era ciò a cui pensava il ragazzo ogni volta che si voltava. Un attimo era in piedi a guardare i suoi compagni di squadra rincorrere gli avversari, vestiti di un bianco candido con qualche arabesco verde, mentre l’attimo dopo era a terra, tentando di recuperare la sfera in scivolata. Strano. Fuori dal comune. Irreale. Tutte parole che danzavano al ritmo sincopato delle percussioni vivevano nella sua mente, ovattando i suoni dall’esterno.
Strano era il calore del suo compagno, che lo aiutò ad alzarsi, mentre si guardava il ginocchio leggermente abraso. Era fuori dal comune il pensiero di poter respirare un’aria ebbra di gloria e non intossicata dalla polvere alzata tra le rovine. Per lui, sentirsi di nuovo vivo dopo un tempo immemore passato all’ombra dei suoi fantasmi era irreale.
La pioggia aumentò la propria intensità, pur non compromettendo il prosieguo della gara. Agli occhi del ragazzo tutto era di un colore acceso, brillante. Piccoli lampi di luce divina sferzavano le tenebre, mettendo in primo piano le sagome indistinte di compagni e avversari. Tutto scorreva rapido ai suoi occhi. Fin troppo rapido. La sfera sembrava lo evitasse, come se cambiasse il proprio tragitto a seconda di dove si trovasse il ragazzo. «Non è ancora il mio momento» disse a quella parte di sé stesso, che sperava potesse ancora rispondergli.
Sugli spalti sembrava che tutti i tifosi stessero vivendo il momento migliore della loro vita. Saltavano, gridavano, si abbracciavano. Nella confusione della gara i diversi suoni si legavano e mutavano insieme. Alle orecchie del ragazzo non arrivava altro che un’eco soffusa, un riverbero indefinito. Un suono che ricordava il crepitio del fuoco nella sua vecchia casa. Quando la sorella si riposava ancora nel ventre materno ed il padre non era ancora partito per quel viaggio, che sembrava stesse durando da un’eternità.
Alzò gli occhi al cielo. La luna sembrava talmente vivida da poterla quasi toccare. Pareva ingrandirsi col passare dei respiri, tanto da poter stampare un bacio sul suo fianco destro. Quello che non si vergognava di mostrare.
Era il momento.
L’arbitro fischiò la fine del primo tempo. Dal fischietto appeso al collo uscì un suono spettrale. Un lungo lamento, simile alla sirena dissonante di un’ambulanza, che trasportava un corpo angosciato. Un ululato penetrante, che permeò l’aria e annullò qualsiasi altro rumore. Un gemito acuto, che si ripeteva ciclicamente e si propagava per tutto lo stadio. La pioggia creò un muro invalicabile attorno al ragazzo. Fu lì che gli occhi riuscirono a vederci di nuovo.
Appena sopra al tunnel che si apriva all’interno dello stadio per condurre i calciatori negli spogliatoi, la folla di tifosi si era diradata. Uno spicchio di tribuna completamente spoglio, svuotato da ogni entità che dava un senso alla propria esistenza. In cima, nell’ultima fila, tre individui si ergevano all’ombra della solitudine che li inghiottiva. Si potevano distinguere nettamente un uomo e due donne. Gli occhi del ragazzo ora erano in grado di svolgere il proprio lavoro. Fu allora che li riconobbe.
Una ragazza avanzò di un passo. Indossava un vestito bianco, ornato d’oro. Un velo altrettanto candido ne copriva i capelli ed era collegato alle spalline da ricami preziosi. La pelle della ragazza era olivastra, gli occhi chiari, tanto grandi quanto familiari. Non fece a tempo a vedere la fine del vestito, che il corpo mutò i suoi lineamenti. Un velo nero copriva capelli e parte del viso, mentre la vestaglia che indossava copriva tutto il corpo, ma non poteva nascondere un rigonfiamento all’altezza del ventre. Una mano magra, elegante, ricamata da disegni geometrici più scuri, si posò sulla pancia. Nemmeno il tempo di battere le ciglia, che cambiò di nuovo. In testa non c’era più alcun velo, ma solo un ricciolo di capelli bianchi. La pelle olivastra non aveva perso la propria bellezza, ma era cosparsa da profonde rughe ricamate dal tempo. La postura era leggermente ingobbita, ma non pareva sofferente. Mosse lo sguardo verso il ragazzo. Piegò la testa di lato e sorrise, illuminata da una luce capitata per caso. Il ragazzo provò a parlare, ma la voce rimase intrappolata tra le corde vocali. L’afono movimento di labbra fu più che sufficiente: «Sorellina».
La vecchia signora teneva stretta sulla sua mano una bambina. I capelli erano racchiusi in due piccoli codini, che le dividevano il viso. Gli occhi vispi erano di un marrone scuro, che però infondeva calma attorno a sé. In bocca un ciuccio rosa, che assaporava con insistenza. Tolse la piccola manina dalla stretta della mano rugosa ed il suo aspetto mutò. I capelli erano lisci nei pressi della cute, mentre si rinchiudevano su loro stessi in eleganti e precisi boccoli, che adornavano un viso delicato. La pelle era poco più chiara di quella della donna alla sua sinistra. Indossava delle scarpe col tacco, che la alzavano di qualche centimetro. Due grossi occhiali neri completavano il ritratto del viso di una ragazza in salute, che non aspettava altro che coronare i propri sogni. Il ragazzo riuscì a scorgere una lacrima dividere il trucco della donna, che cambiava i connotati del viso al suo passaggio. Ora riconosceva. La mano era divenuta ossuta, il corpo sembrava essersi rinsecchito tutto d’un tratto. I capelli erano nascosti dietro un velo, che però non riusciva a contenere l’intera chioma, che fuoriusciva dai lati. Il viso era stanco, come se la donna avesse appena terminato un’estenuante giornata di lavoro. Gli occhi avevano perso la propria luce e guardavano fissi a terra, cercando nel terreno uno scampolo di luce, che evidentemente aveva perduto da anni. Come la donna affianco a lei alzò la testa. Guardò il ragazzo, portò la mano alle labbra e mandò un bacio. «Mamma», ma anche questa volta dalla bocca non uscì alcun suono.
L’unico uomo tra i tre teneva il braccio attorno al fianco della donna. I capelli neri erano cortissimi e gli anni stavano sfumando i lati di bianco. Gli occhi erano di un verde intenso e non si allontanavano dal viso della donna al suo fianco. La giacca era di un marrone chiaro, dello stesso colore dei pantaloni. Una camicia bianca, sotto ad una cravatta nera, completava l’abbigliamento di un uomo in carriera. La giacca era costellata di piastrine, medaglie e di spille raffiguranti anche quella che sembrava una bandiera. Il ragazzo lo fissò a lungo, ma il suo aspetto non cambiava di una virgola. Dopo qualche istante, l’uomo alzò un braccio e lo piegò, portando una mano tesa a contatto con la propria fronte. Fece un occhiolino e il ragazzo non ebbe alcun dubbio, quando urlò «Papà» a pieni polmoni.
Le gocce di pioggia iniziavano ad aumentare il ritmo con il quale cadevano, ricreando quel muro d’acqua che isolava il ragazzo dal resto della scena. Diede un’ulteriore occhiata alle tre figure sugli spalti, che pian piano ricominciavano a riempirsi. Chiuse gli occhi e sentì una presenza in mezzo ai piedi. Con un sussulto abbassò lo sguardo e notò un pallone tra gli scarpini. Attorno a lui tutti i suoi compagni erano schierati e non attendevano altro che una sua mossa. Guardò di nuovo la tribuna. L’uomo era ancora sempre lì, ma si era spostato di qualche metro sulla propria destra. A distanza la donna teneva in braccio un fagotto, stava cullando una bambina nata da poco. Tempo di un saluto amaro e di un battito di ciglia e tutti svanirono. I suoni cessarono. Il silenzio inghiottì lo stadio. Il ragazzo guardò la palla e la passò al compagno di fronte a lui. Il secondo tempo ebbe inizio, mentre il mondo iniziava a crollare.
Il campo era immenso. I calciatori di entrambe le squadre sembravano raccontare su prato le loro vite, mentre si sfidavano. Nessuno aveva ancora segnato, ma al pubblico sugli spalti sembrava importare poco. Il concerto di cori indistinti e urla inumane si espandeva in relazione all’aumentare o il diminuire della pioggia. Ormai il ragazzo non faceva nemmeno caso all’acqua che cadeva.
Il ragazzo ricevette palla sulla trequarti avversaria. Era il suo momento. Puntò il diretto avversario e lo superò, come aveva imparato per strada con i suoi amici. Ne superò altri due e si ritrovò a tu per tu col portiere. Sembrava un gigante. Il volto era indefinito, ma i due guantoni biancoazzurri erano più che nitidi. Il ragazzo si distrasse per pochi secondi e vide l’energumeno tra i pali lanciarsi e finire tra i suoi piedi. La sfera rimase tra le sue braccia, mentre lui cadde oltre quella massa di muscoli e rotolò sull’erba bagnata.
Rotolando, l’erba era divenuta una sottile polvere rossiccia, che sporcava la maglia del ragazzo, che una volta doveva essere più bianca della neve, ma ora era un caleidoscopio di colori. Il sole illuminava una strada strettissima, divisa a metà da una striscia di gesso bianco. Su ogni lato c’erano cinque ragazzi scalzi, tutti di età simili, accumunati dall’assenza di qualsiasi parvenza di barba sul viso e dallo stesso calore negli occhi alla vista del pallone. Il ragazzo se ne stava a terra, col ginocchio sbucciato e con quello che di lì a poche ore sarebbe diventato un bernoccolo. Alzò lo sguardo e vide una signora della stessa età di sua madre avvicinarsi ai ragazzi.
«Tu non dovresti startene qui, con quei cani. Torna subito a casa.» esclamò la signora mentre con un braccio strattonava quello che doveva essere suo figlio – o qualcuno che conosceva così bene da poter decidere cosa fosse meglio per lui – e con l’altra serrò uno schiaffo sul viso liscio.
Il ragazzo si dimenticò subito del dolore alla testa e, incredulo per quanto visto, provò ad alzarsi. In quell’istante arrivarono alcuni ragazzi che lo accerchiarono. L’età era simile alla sua, forse un paio d’anni superiore, vista l’ombra dei baffi sul viso di alcuni di loro. Si avvicinarono al ragazzo a terra e lo accolsero con un getto di saliva, che gli finì in pieno volto.
«Lo sai dove sta casa tua, brutto cane?» gli disse uno del branco.
«Si trova qua in fondo alla…».
«Intendo se sai dove si trova la tua vera casa» interrompendo con un calcio sul ventre la sua risposta.
«T…T…Te l’ho detto. In fondo alla via» disse il ragazzo cercando di ritrovare qualche residuo di ossigeno nei polmoni.
«Beh, non lo sarà ancora per molto. Prima ti abitui al sapore della terra in bocca e prima ti abituerai alla tua nuova casa. Quella che spetta di diritto a quelli come voi».
I calci divennero tanti, troppi da sopportare. Sangue e lacrime si mischiarono alla sabbia scaldata dal sole, che iniziò a cambiare colore. Ad ogni colpo il ragazzo perdeva un pezzo di sé. Voleva con tutte le sue forze svegliarsi da quel sogno. Da quel viaggio onirico, che stava iniziando a sprigionare i mostri contenuti nei meandri più reconditi del suo subconscio. Ricordi destinati a perire, ma che cercavano di riacquisire quel soffio vitale, che il ragazzo stesso aveva tolto loro. Memorie di un diario sepolto, come quella capsula del tempo che aveva dovuto costruire a scuola tanti anni prima e che, con grande probabilità, non riuscirà mai ad aprire. Pagine colme d’odio che il fuoco della sua rabbia non era riuscito a distruggere e che, improvvisamente, avevano iniziato a prendere vita davanti ai propri occhi.
Una mano si allungò sul ragazzo riverso a terra. Gli accarezzò le ferite e lo aiutò a rialzarsi. Per un attimo intravide il padre, ma capì subito che non era altri che uno dei suoi compagni di squadra. Una volta di nuovo in piedi, ricevette i complimenti di tutti per la bella azione, andata in fumo solo a causa della grande uscita del portiere avversario. Il ragazzo si guardò, ma non vide alcuna ferita su di sé. Non rimasero altro che flebili ricordi.
Dietro ad una delle due porte comparve un grande schermo. Era un enorme orologio, che segnava il tempo trascorso durante la partita. A caratteri cubitali, in bianco su nero, si leggeva 80:45. Mancavano meno di dieci minuti. Nemmeno il tempo di convincersi di poter vincere la partita, che sentì nuovamente quell’urlo dissonante uscire dal fischietto dell’arbitro. Il portiere era a terra e la palla era infondo alla rete: 1-0.
Il ragazzo non fece a tempo nemmeno a battere gli occhi, che sentì un’altra volta quel suono agghiacciante. Un ululato disperato, che si ripeteva ciclicamente, nonostante l’arbitro sembrasse soffiare debolmente sul fischietto. Un altro pallone aveva bucato le mani del portiere: 2-0.
Il tabellone recitava 89:30 e lui capì di avere solo pochi secondi per lasciare un segno nella gara. L’avversario davanti a lui partì palla al piede e il ragazzo lo seguì. Voleva a tutti i costi prendere la sfera. Attorno a sé non c’era più nessuno. Erano solo loro due. La pioggia sembrava essersi paralizzata a mezz’aria e riduceva pericolosamente la visibilità. Il ragazzo provò a strattonare l’uomo davanti a sé, che però aumentava le proprie dimensioni ad ogni passo. Provò addirittura ad aggrapparsi sulla maglia, ma questa si spezzò. Ed il ragazzo cadde. La faccia assaporò il gusto acre della terra, come gli aveva consigliato il ragazzo poco tempo prima. Si girò di scatto e vide in un lampo di luce i tre individui sugli spalti. La madre e il padre si abbracciavano e, insieme, baciarono con dolcezza la figlia. Il ragazzo poteva scommettere di averli visti piangere, ma presto avrebbe potuto chiederglielo di persona. Sarebbe bastato aprire gli occhi.
Dopo i primi due, anche il terzo pallone cadde in rete. Non c’era nessuno a difendere i pali. La sfera riuscì a bucare la porta e iniziò a viaggiare. Superò la cinta di mura e anche la strana struttura dorata. Il pallone volava e non aveva intenzione di fermarsi di fronte a nulla. Sorvolava case, palazzi e ammassi di pietre, che non erano altro che il ricordo di antiche abitazioni. La sfera bianca era luce pura, che vegliava sulle anime mortali e le giudicava, come fa un Dio iroso. Un tiepido tepore accompagnava il suo viaggio, illuminando strade e carcasse, monumenti e cadaveri. Il pallone non dava segni di volersi fermare, ma anche i sogni, certe volte, conoscono la parola “fine”.
Il pallone si fermò con violenza sul fianco di una casa. Il ragazzo, disteso a letto, non fece nemmeno a tempo a sentire la sfera colpire la sezione di muro appena al di sotto della propria finestra. Lui se ne stava comodo in quello spazio nel quale fantasia e realtà si connettono, riversandosi l’una nel corpo dell’altra. Il ragazzo stava vivendo in prima persona quella relazione intraducibile a parole, ma ben visibile proprio quando le palpebre si chiudono.
Ci fu un boato. E fu così che le braccia di Morfeo si strinsero sul ragazzo e non lo lasciarono andare mai più.