Josè Luis Borges credeva che il calcio fosse tanto popolare quanto stupido. Lo scrittore argentino si ostinava a pensare fosse una pratica barbara.
Calcio e cultura
Ai miei genitori dava capriccio pensarmi avvocato, che studiassi all’università, dove fossero in migliaia gli studenti a fare la fila per entrarci. Decidevano solamente il mio bene ma facevo fatica a immaginarmi in quel ruolo.
Non avevo particolari interessi tranne che per il calcio, una passione che si conciliava poco con la mia formazione accademica e il conseguente percorso di carriera. Mi era, quindi, balenata l’idea di studiare diritto sportivo, l’unica specializzazione la quale mi avrebbe permesso di non accantonare i miei interessi.
La proposta non dispiacque ai miei, che potevano, così, parlare delle mie aspirazioni senza per questo provare imbarazzo. Avevamo trovato un compromesso, la cosa che più si avvicinava a un lavoro vero e non al sogno di bambino di fare l’astronauta.
Sovvenne poi la solita retorica sul numero di legali in Lombardia pari a quello della cugina Francia. Non bastasse questo a scoraggiarmi, il settore era fin troppo acerbo per pensare di non arrangiarsi come avvocato laburista. Già confuso, con l’inizio del praticantato mi ero accorto che questo non avrebbe potuto rappresentare il mio futuro.
Borges e il pallone
Trovare la mia strada non è stato facile, d’altro canto mi sono scontrato col preconcetto che chi scriva di pallone abbia orizzonti limitati. Sebbene resti una passione o un passatempo, letterati e artisti erano e continuano a essere scettici riguardo a una qualche sua rilevanza sociale.
Lo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges ad esempio gli riservava una censura senza condizionale: “Il calcio è popolare perché è la stupidità a esserlo”. In pochi hanno avuto il piacere d’intervistarlo ma non sono mancate volte in cui autori contemporanei hanno fantasticato di discutere con l’Omero argentino.
È il caso del giornalista Angelo Carotenuto, firma autorevole del quotidiano capitolino Domani, oltre che curatore dei blog Il Puliciclone e Il Divano sul Cortile.
A questo riguardo, lo scrittore partenopeo ha immaginato d’intavolare una diatriba riguardo al Pibe de Oro: “Non si innalza per finta un labirinto in mezzo a una partita di calcio. Voglio dire che non c’è bisogno di inventarsene uno, perché l’universo già lo è. Se dunque Maradona uscì da un labirinto per fare quel gol, il labirinto doveva esserci”.
Il labirinto per Borges
Il gol del secolo, quello contro la nazionale dei Tre Leoni nei quarti di finale di Messico 1986. Il cronista Victor Hugo Morales ha scomodato l’Altissimo e, nell’euforica vertigine di un aquilone astrale, ha inneggiato un’ode all’anarchico Diez.
La gorga lo avvolge e disperde, trascinandolo fuori dal gioco, come il Minotauro de La casa di Astrione – ennesima storiella dello scrittore di Buenos Aires. Il Dieci è evaso dal dedalo. Il labirinto è una metafora ricorrente nella sua poetica, il filosofema ordito dagli uomini per ingannare l’Eterno:
“L’idea di un Dio, un essere onnisciente, onnipotente e che inoltre ci ama, è una delle più azzardate creazioni della letteratura fantastica. Se non c’è Dio, non c’è mano di Dio”.
A opinione di Borges questo gioco è “esteticamente brutto”. Nato sulle sponde del Canale della Manica, il football conquista tutti fuorché l’argentino. Uno strano gusto per le birre scure, lo scotch e i piovaschi a catinelle: “Uno dei più grandi crimini dell’Inghilterra”.
Calcio e sovranismo
Il porteño ha un’avversione per il sovranismo, come supremazia dogmatica della Corona: “Il nazionalismo permette solo affermazioni e ogni dottrina che scarta il dubbio, la negazione, è una forma di fanatismo e di stupidità”.
Ancora, in Il Catenaccio mi sta antipatico, Marco Ciriello immagina una discussione tra l’autore argentino e Marcelo Bielsa: “Il calcio è finzione se funziona, perché è inganno: dall’avversario quando funziona, del tifoso quando non funziona”.
Sono molte le invettive rivolte al calcio: “Lo detesto perché è un gioco brutale, che non richiede coraggio, nessuno si gioca la vita”. In Finzioni, lo scrittore muoveva una critica monitoria, simbolismo suggestivo che esortava a dubitare dell’artifizio della realtà.
Mistero e trasalimento, il suo lottare discende dal duende di Garcia Lorca, un lottare e non pensare che, come una voce nuova, trascende il misticismo latino.
Il calcio è morto
Borges e Adolfo Bioy Casares, sotto lo pseudonimo di Honorio Bustos Domecq, hanno, inoltre, pubblicato un’antologia di racconti fantasiosi. Come l’adagio coniato dall’empirista George Berkeley, la raccolta Esse est Principi riporta una cronaca cruda, nondimeno umoristica.
Alle prime luci dell’alba i cittadini di Buenos Aires scoprono che il Monumental è sparito nel nulla. Lo stadio era un vero e proprio luogo di culto per i tifosi del River, i quali supplicano il patron delle Riserve Juniores Tullio Savastano di partire alla ricerca del tempio de Los Millonarios:
“Non esiste punteggio, né formazioni, né partite, gli stadi cadono tutti a pezzi. Oggi le cose succedono solo alla televisione o alla radio; l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937. Da allora il calcio, come tutta una vasta gamma degli sport, fa parte del genere drammatico, orchestrato da un uomo solo in uno studio o interpretato da attori in divisa davanti alla videocamera”. Il pubblico segue “gare inesistenti in TV e alla radio senza porsi il minimo problema”.
Il pallone in America
Lo sport si muoveva di pari passo col declino dell’America capitalistica che, sprovvista di una qualche cultura, lo usava come propaganda politica dal dubbio significato morale.
L’elitarismo del partito Repubblicano ha permesso lo sviluppo di tutt’altro tipo di maieutica: “Sono questi gli avi, i padri del nostro nazionalismo? Su cosa possiamo fondare l’orgoglio della nostra storia?”. Il calcio è inestricabilmente legato al nazionalismo, ideologia ovvero ignoranza.
“Provate a spiegargli la retrocessione”, disse Federico Buffa ospite alla Milton Class della Scuola Holden ormai otto anni fa. L’Avvocato, intervistato per Il Giornale, ha raccontato:
“Lo sport è un veicolo facile perché, essendo l’Esperanto del mondo, risulta semplice portare indietro le lancette della storia, diventa un modo anche per approfondire cose che, fatalmente, oggi, non si approfondiscono più”.
Calcio e propaganda
“C’è un’idea di supremazia, di potere, nel calcio, che appare orribile ai miei occhi”, secondo Borges la cieca fede per la squadra del cuore somiglia al credo peronista. Per chi non fosse edotto, dopo la destituzione di Castelo Branco, merito del golpe organizzato dalle Forças Armadas Brasileiras, in parlamento si succedettero in tre: Artur da Costa e Silva (1967-1969), Emílio Garrastazu Médici (1969-1974) ed Ernesto Beckmann Geisel (1974-1979).
“Anche se il suo governo ha messo alle strette i dissidenti politici, ha anche prodotto un poster gigante di Pelé, accompagnato dallo slogan Ninguém mais segura este país: Nessuno può fermare questo Paese ora”, scrive Dave Zirin nel proprio libro, Brazil’s Dance with the Devil. Sfruttare l’appoggio dell’elettorato per ottenere il sostegno popolare, questo era il timone dell’autore.
Borges, così facendo, prende le distanze dal truce bigottismo della tifoseria. Il futbol è fenomeno endemico, anatema del fervore sciovinista, sublimato in autoaffermazione coercitiva. L’hooliganismo ovvero fanatismo appiattisce il confronto, riducendolo a una guerra tra galli cedroni.
Come in Deutsches Requiem, Otto Dietrich zur Linde è un acceso sostenitore della Germania nazista. “Ciò che conta davvero è aver sentito che il nostro piano, su cui più di una volta abbiamo ironizzato, esisteva davvero e segretamente ed era il mondo e noi stessi”, nel compendio de Il Congresso del mondo, come metafinzione narrativa, l’autore esaltava il totalitarismo weberiano.
Borges aborrisce la politica
Come ha scritto il direttore de The New Republic Franklyn Foer nel suo libro How Soccer Explains the World: “In ogni altra parte del mondo, la sociologia del calcio varia poco: è la provincia della classe operaia”.
C’è un tentativo di supremazia di potere, una qualsiasi religione. Come scrive il poeta e artista Dante Gabriel Rossetti: “Sono un fervente patriota e, spero, un buon cittadino, ma non sono assolutamente convinto della convinzione non canonica, ora espressa dalla stampa e dalla radio, della salvezza attraverso il calcio”.
D’altra parte, Olivier Guez era dell’avviso che il pallone fosse un fenomeno abominevole, anche se per sua stessa ammissione allo stadio si trovava proiettato in “una dimensione metafisica per novanta minuti”.
Il rito della domenica
In Fubbàll, Remo Rapino ha raccontato l’esercizio rituale della domenica sportiva: “Il calcio era quasi religione, solo che al posto della chiesa ci stava il campo, al posto del parroco ci stava l’allenatore, al posto del sacrestano ci stava il magazziniere, al posto dei fedeli ci stava il pubblico, al posto delle preghiere i cori e le bestemmie della domenica. E poi i giocatori, una specie di chierichetti a completare la sacra funzione dei novanta minuti domenicali, meglio di una messa cantata”.
Benché fosse cieco, e nonostante non avesse mai visto un incontro dal vivo, Borges era del parere che andare stadio fosse solamente un pretesto per fare casino. Invitato dall’amico Enrique Amorim al Monumental, ironia volle che a nessuno interessasse della gara, tant’è che all’intervallo se ne andarono convinti che il match fosse già finito.
Nemmeno in occasione del Campionato del Mondo del 1978 il poeta seppe appassionarsi alla Nazionale: “Finché dura, andrò ovunque non si parli di calcio. La Coppa del Mondo è una calamità che fortunatamente passerà”. Nella finale con l’Olanda mantenne la promessa e, in contemporanea con l’incontro, tenne una lezione sul concetto d’immortalità.
Borges e Menotti
Come riassume nel suo libro El Fútbol a sol y sombra, Eduardo Galeano si allineava col collega: “Il disprezzo di molti intellettuali conservatori si basa sulla certezza che l’idolatria del pallone sia la superstizione che il popolo merita”.
Menotti sentiva la colpa di avere appoggiato il regime di Videla, che graziò i prigionieri della palla in cuoio dalla condanna di morte. Malgrado l’idiosincrasia per il suo lavoro, l’allenatore e Borges se la intendevano parecchio: “Che strano, vero? Un uomo intelligente che si ostina a parlare sempre di calcio”.
In un vecchio articolo del The Washington Post, Brian Glanville descriveva la tragica scomparsa dei Desaparecidos. Borges avrebbe espresso il suo cordoglio, lamento funebre e improperio contro l’Hitler della Pampa: “Sono sicuro che non è in gioco il nostro onore nazionale”.
Egri del tutto, miseri mortali, la salma dei caduti avrebbe servito da monito per i visitatori. Il governo aveva spinto la sua pazienza al punto da perdere quell’armonioso binomio tra autorità e obbedienza.
Il calcio per me
Intorno a un azteca si arrotolano matasse di sentimenti; lo sport dev’essere un urlo di speranza. Quando George Orwell scrisse che lo sport è causa di malanimo non aveva poi tutti i torti. Ogni crescente interesse per il calcio è accompagnato da immaturità o puerizia.
Io che amo visceralmente questo sport, però, mi fermo sempre a guardare la partita al campetto. I pallini del campo in sintetico dentro agli scarpini, le escoriazioni sulle ginocchia sono come lividi della battaglia.
Ricordi proustiani di una fanciullezza che è sfuggita via. “Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio”. Forse Borges non era altro che un ultrà romantico e nostalgico.
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