Nel descrivere le emozioni successive ad un gol, Umberto Saba diceva romanticamente: “Pochi momenti come questi belli, a quanti l’odio consuma e l’amore, è dato, sotto il cielo, di vedere”. Il calcio è emozione, i singoli momenti racchiudono un contrasto di sentimenti in base a di chi sia il cuore che li sta vivendo: alla gioia per il gol replica l’amarezza di chi lo ha subito, per la concitazione di chi vive il trasporto della squadra che attacca c’è l’apprensione di chi deve difendersi, al tripudio dei vincitori fanno da contraltare le lacrime dei vinti.
Ma ci sono momenti, talvolta negativi, in cui si è tutti dalla stessa parte. Come può quel prato verde che tutti hanno sognato almeno una volta di calcare, collettore di sogni e di inspiegabili feticci come il profumo dell’erba o il suono dei tacchetti che vi affondano, diventare uno strumento in un atroce piano di morte? A Srebrenica, purtroppo, è accaduto. Quello che un tempo era un prato verde di periferia, su cui far rotolare un pallone e con lui le speranze del popolo, è divenuto teatro degli orrori, una fossa comune nelle mani dei boia che avevano soggiogato la popolazione locale e perpetrato il più rapido genocidio che la storia ricordi.
C’è voluto del tempo per ridare una parvenza di normalità ad un luogo divenuto tanto famoso da risultare quasi surrealisticamente sospeso nel tempo, dominato da una vasta distesa di lapidi bianche e dai ricordi di chi si è visto sporcare l’innocenza con sangue indelebile. Ed il calcio ha contribuito a lanciare un messaggio di rinascita ed eguaglianza, grazie al FK Guber Srebrenica, che quest’anno festeggia il centenario.
Breve storia del club
Dal 1924, i biancazzurri del Guber rappresentano Srebrenica, un piccolo paese di poco più di quindicimila anime nell’attuale Bosnia-Herzegovina. La nascita del Guber è una storia di unione e fratellanza, nello specifico quella tra due contadini. Uno di loro era ortodosso, l’altro bosgnacco, popolazione slava musulmana sannita che da sempre rappresenta una significativa fetta della popolazione locale e nazionale, tanto da essere riconosciuta come uno dei tre popoli costitutivi della Bosnia-Herzegovina. I due avevano due campi di patate contigui, che decisero di unire per farne non un seminativo ma un campo di calcio che raccogliesse la passione e la voglia di unione di un popolo la cui mancata integrazione – lo vedremo – avrebbe scatenato uno dei più truci ed efferati crimini di guerra nella storia europea.
Il Guber non è mai stato un grande club: dopo essersi chiamato Polet, Proleter e Rudar, ha assunto l’attuale e definitiva denominazione a partire dal 1973, operando esclusivamente in ambito regionale. Fino agli anni ’90 la Jugoslavia aveva un’unica federazione calcistica e le chance di risultare competitivi erano nettamente inferiori a quelle odierne: il massimo alloro ottenuto dal club è stato quello della vittoria della Tuzlanske Područne Lige, il campionato della regione di Tuzla, nella stagione 1974-75, con tanto di promozione nel campionato della Bosansko-sjeveroistočnu Zonu, ossia la zona nordest della Bosnia, quinto livello del calcio jugoslavo.
Non erano tanto le vittorie lo scopo perseguito dal Guber, quanto il tentativo di unire la gente del posto sotto una stessa bandiera, sotto le insegne della propria città, in un moto d’orgoglio campanilistico che ancora oggi è possibile riconoscere nel calcio dilettantistico in giro per il globo. Una popolazione, quella di Srebrenica, frammentata tra varie etnie e religioni, in un Paese che, si sarebbe scoperto in seguito, vedeva ardere sotto la cenere il fuoco del razzismo e della discordia, capaci di sfociare nella maniera più crudele possibile.
L’ingresso dello Stadion Guber
Miniera d’argento, notti d’oro
All’epoca dell’Impero Romano la zona era nota come Argentaria, nome ripreso anche in serbocroato, la lingua ufficiale del Paese, visto che Srebrenica significa “Miniera d’argento”. Come detto, il calcio non è mai stato esattamente il motore economico o turistico di una zona prevalentemente mineraria e siderurgica, con l’unica variazione sul tema data da un importante stabilimento termale. Eppure c’è stata un’estate in cui i cittadini di Srebrenica hanno potuto sognare sul rettangolo verde, nel 1989. Il cammino in Kup Maršala Tita, la coppa nazionale jugoslava, parte presto con le qualificazioni, rivolte esclusivamente a club bosniaci. Dopo aver eliminato Polet Kravica, Šemsudin Šišić, Bratstvo Bratunac e FK Drina, il Guber fronteggia una squadra di alto livello nel calcio jugoslavo, il Borac della città di Banja Luka. Un club estremamente prestigioso, che nel 1988 ha vinto la coppa nazionale. E che arriva in città con una certa presunzione.
L’allenatore del Borac, Stanko Poklepović, appena arrivato allo stadio dichiara di non aver mai giocato in una città con meno di cinque case. Un’affermazione che tende a minimizzare il Guber e che si fonda su un errore concettuale, generato dalla collocazione dello stadio proprio all’ingresso della città, rendendo impossibile vedere cosa ci sia dietro. Sta di fatto che il Borac passa in vantaggio ma viene raggiunto dai padroni di casa. Il match si spinge fino ai calci di rigore, dove, clamorosamente, è il Guber a trionfare. Davide ha sconfitto Golia, rimane un unico turno prima di accedere al tabellone principale di Kup Maršala Tita: in casa del Velež Nevesinje arriva un roboante 4-1, per la prima volta il Guber supera i confini bosniaci per la coppa nazionale.
Guber e Borac schierate prima del calcio d’inizio
Urlo strozzato
È il 2 agosto 1989, si giocano i sedicesimi di finale di Kup Maršala Tita e in Jugoslavia già spirano venti di guerra. Poco più di un mese prima, per i seicento anni dalla battaglia della Piana dei Merli, Slobodan Milošević ha tenuto il Discorso del Gazimestan, snodo cruciale per la situazione geopolitica dell’area. In quell’occasione, il tutt’altro che pacifico presidente serbo aveva subdolamente rivelato le proprie mire bellicose in difesa dell’identità nazionale.
Dopo sei secoli siamo di nuovo in battaglia e altre battaglie abbiamo di fronte. Non sono armate, ma non possiamo escludere che lo saranno.
Le varie realtà ed etnie erano in subbuglio, ognuno rivendicava il proprio diritto all’indipendenza ed era disposto a passare sopra il cadavere dei nemici affinché venisse riconosciuto. Innanzi al Guber c’è il Budućnost di Titograd, oggi divenuta Podgorica, squadra di Prva Liga ed unica rappresentante del Montenegro. Il match è sorprendentemente combattuto e termina 1-1. Si va ai rigori senza ricorrere ai supplementari ed è decisivo l’ultimo penalty. Da una parte un mestierante, il più anziano in campo, il portiere del Guber Yusuf Maladzić, dall’altra il più giovane, un futuro campione, Predrag Mijatović. Che calcia, facendosi parare il rigore. Il Guber vince, il popolo sogna e Maladzić ne è l’eroe.
Ma quei supplementari mancati sono un errore arbitrale, la FSJ (Fudbalski savez Jugoslavije), federazione calcistica jugoslava, annulla l’esito finale del match tra Guber e Budućnost. Anche la situazione politica lo imponeva, troppo pericoloso favorire un club che rappresentava i bosgnacchi, oggetto di atti discriminatori. Due settimane dopo si ritorna allo Stadion Guber e la squadra di Srebrenica, pur vendendo cara la pelle, cade per 2-1. Budućnost qualificato, per Srebrenica si interrompe un grande viaggio. Sta per iniziarne uno terribile.
La formazione del Guber scesa in campo nel match contro il Budućnost
Guerra dei Balcani e genocidio
L’attività sportiva del Guber si interrompe nel 1992, con l’inizio della Guerra dei Balcani. Srebrenica assume un ruolo di particolare rilievo, divenendo un’enclave all’interno della quale risiedono cittadini bosgnacchi, fermi nei loro intenti di far parte della Bosnia e insidiati dalla popolazione serbo-bosniaca che reclamava l’annessione alla Serbia. A presidio dell’area di sicurezza vi erano le truppe UNPROFOR, le forze militari al servizio delle Nazioni Unite, che avrebbero dovuto risultare un deterrente per i soldati della Repubblica Serba di Bosnia, gli Scorpioni del generale Ratko Mladić.
L’11 luglio 1995 rappresenta uno dei momenti di svolta del conflitto jugoslavo. In negativo. Le truppe UNPROFOR di stanza alle porte di Srebrenica sono rappresentate, in quel momento, dall’esercito olandese. Non è chiaro se perché vincolati dalla non belligeranza delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza o, come si narra, circuiti dalle truppe serbo-bosniache che spacciano l’operazione come una ricollocazione dei civili in un’altra enclave, sta di fatto che i Caschi Blu non intervengono e quella notte donne e uomini vengono divisi, senza alcun riguardo per l’età. Ufficialmente la divisione avviene per facilitare il flusso nella nuova area di sicurezza. Ma la realtà sarà ben diversa: le truppe serbo-bosniache iniziano un massacro senza precedenti, il più grande genocidio in Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
8.372 uomini e bambini vengono uccisi con un colpo alla nuca, altri 1.000 diventano prigionieri, oltre 35.000 persone vengono fatte evacuare e rimangono senza un posto in cui stare. Non tutti i corpi delle vittime saranno ritrovati, disseminati nelle famigerate fosse comuni che ancora oggi, a distanza di quasi tre decenni, finiscono ciclicamente per rivelare orrori e resti di vittime che le famiglie hanno pianto senza mai ritrovarne le spoglie. Una di quelle fosse comuni è lo Stadion Guber, da cui verranno disseppellite centinaia di cadaveri.
Questo piccolo paesino bosniaco, la cui popolazione è tutt’oggi inferiore alla metà di quella del 1995, non sarà più lo stesso. Alcuni torneranno con una ferita non rimarginabile nel cuore, altri preferiranno lasciarsi il dolore alle spalle. Le Madri di Srebrenica, associazione creata per permettere a mogli e madri delle vittime del genocidio di far sentire la propria voce, cercano ancora una giustizia che latita a quasi 30 anni dal massacro. Per quanto nessun risarcimento possa mai sanare un dolore del genere, nessun tribunale si pronuncia in tal senso: il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, una volta terminate le ostilità, processa numerosi criminali di guerra, tra cui Ratko Mladić ed il presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, senza che nessuno di loro sia realmente in grado di risarcire i danni.
Alcuni degli imputati non vedranno la fine del processo, come Slobodan Milošević, stroncato in cella da un infarto nel 2006, o Arkan, assassinato nel 2000, mentre i Paesi Bassi, dal canto loro, resistono in nome dell’immunità funzionale delle proprie truppe di stanza a Srebrenica. Un atteggiamento che ha esposto il TPI a forti critiche, quelle per aver ragionato in punta di diritto ma mai nell’interesse reale del popolo. E così i superstiti ed i familiari hanno dovuto rimboccarsi le maniche da soli, travolti dal dolore e senza più nulla, per ripartire e rilanciare Srebrenica.
Il memoriale di Potočari è una distesa di lapidi bianche, immagine forte che spiega la portata dell’evento
Reazioni nel calcio
Come abbiamo potuto vedere anche in tempi recenti, i temi politici e razziali creano discordia ed episodi deplorevoli all’interno degli stadi. Le tifoserie di alcuni club bosniaci, come Željezničar e FK Sarajevo, sono in prima linea nel ricordo delle vittime del genocidio e nelle celebrazioni dell’11 luglio, talvolta subendo multe o indagini quantomeno esecrabili a fronte di semplici messaggi di solidarietà nei confronti delle vittime. Radicalmente opposto è l’atteggiamento degli ultras serbi, spesso governati da fazioni nazionaliste: nel 2017, dagli spalti dello stadio della Stella Rossa si sono levati inni e celebrazioni in favore di Ratko Mladić, non a caso soprannominato “il macellaio della Bosnia”.
Anche in paesi teoricamente esterni al conflitto dei Balcani si sono viste vergognose prese di posizione su Srebrenica: durante il match di qualificazione ai Mondiali del 2018 tra Grecia e Bosnia, una frangia nazionalista greca ha esposto lo striscione “Nož, žica, Srebrenica”, un motto del movimento nazionalista serbo traducibile come “coltello, filo spinato, Srebrenica”.
L’evento più eclatante si è verificato durante il match disputato il 26 luglio 2012 tra FK Sarajevo e Levski Sofia, valido per il ritorno del secondo turno di Europa League. Dopo il successo dei bulgari per 1-0 nel match di andata, i tifosi ospiti si sono presentati a Sarajevo dapprima con proclami che hanno indotto il governo a predisporre un cordone di sicurezza, quindi con uno striscione esposto in favore di Mladić, Arkan e dei criminali di guerra serbi. Alla fine, l’FK Sarajevo ha vinto 3-1 e si è qualificato. Il momento più significativo è stato quello del secondo gol firmato da Asmir Suljić, centrocampista bosgnacco nato a Srebrenica nel 1991, la cui esultanza incontenibile verso i propri tifosi è stata frenata solo dalle forze di polizia.
I gol di Sarajevo-Levski nel 2012. Il 2-0 è firmato da Suljić
Ritorno a casa, tra rinascita e integrazione
Terminata la guerra e perpetrato l’orribile genocidio, i bosgnacchi erano stati depredati di tutti i loro averi e delle loro case, costretti a vagare per la Bosnia senza fissa dimora mentre Srebrenica veniva abitata da soli serbi ortodossi. Non per costrizioni o imposizioni belliche, ma per scelta: tornare a casa faceva troppo male e ne ha fatto per diversi anni, fin quando alcuni ex cittadini della “Miniera d’argento” hanno deciso che era l’ora di provare a ricercare la normalità. Tra i bosgnacchi tornati a Srebrenica nel 2002 c’era anche un uomo coi capelli di un bianco che più nero non si può, non per età ma per il dolore che l’ha invecchiato rapidamente, quello di chi ha perso fratelli e figli. È Yusuf Maladzić, l’eroe nella notte più scintillante del Guber, il portiere che ha ipnotizzato Mijatović prima che la FSJ cancellasse tutto.
Ha deciso di tornare e anche di insegnare calcio ai bambini per provare a riportare un po’ di serenità tra la sua gente. Ma la normalità era lontana e la convivenza tra serbi ortodossi e musulmani ancora molto complicata. Troppo fresca la ferita. Il vecchio stadio Vidikovać, divenuto nel tempo Stadion Guber, era stato ripulito dall’orrore che celava nelle sue viscere ma la linea di centrocampo rappresentava ancora una demarcazione netta: le due fazioni religiose si allenavano nelle due distinte metà campo, per l’integrazione occorreva fare qualcosa in più.
Non è bastato il solo Maladzić a cambiare le cose ma la sua spinta è stata fondamentale. Un superstite tornato a casa per riportare il calcio a Srebrenica: l’iniziativa ha fatto breccia nel cuore della gente e l’ex compagno di squadra Nermin Pašalić, altro superstite e figlio di una delle vittime, ha deciso di cavalcare l’onda e, aiutato da un amico serbo, ha chiamato a raccolta volontari per ricostruire l’FK Guber. Un bosniaco e un serbo insieme, il primo messaggio di speranza e di riappacificazione che ha trovato sponsor insperati: oltre ai volontari e ad alcune ONG, si sono spesi anche il governo bosniaco e persino quello olandese, in un raffazzonato tentativo di ripulirsi la coscienza.
E nel 2004 l’FK Guber ha ripreso vita, con un diktat autoimposto: mai più divisioni tra culture ed etnie diverse, in campo come in società. Da quel giorno a Srebrenica è tornata ed esistere una realtà che permettesse a quelle culture che l’avevano distrutta di ripartire unite e condividere qualcosa: l’amore per il calcio. L’esordio è avvenuto il 4 settembre 2005 in un match della Seconda Divisione della Repubblica Srpska, terzo livello del campionato bosniaco: un roboante 8-1 ai danni del Derventa con le triplette di Ajet Muhamedbegović e Zoran Milinković e la doppietta di Luka Petrović. Nonostante qualche retrocessione, il club presieduto da Zijad Salimović milita ancora oggi nella 2.Liga RS – Istok, ossia il girone est della competizione. Non ha ancora mai avuto occasione di accedere al professionismo eppure, in questi 100 anni di storia, ha ottenuto risultati più onorevoli di qualsiasi vittoria sul rettangolo verde.
Un abbraccio a fine partita, segnali di normalità
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