Io odiavo andare a scuola. Non che non mi piacesse imparare, studiare e conoscere cose nuove, anzi. Niente del genere, ne facevo più che altro una questione di tempi e di modi. Per esempio quando ero alle elementari consideravo davvero ingiusto dover lasciare a metà una puntata delle Tartarughe Ninja per caricarmi sulle spalle lo zaino che pesava quintali e andare in un posto dove stare seduto cinque ore filate. E mi dava davvero noia pensare a quei compagni fortunati che con 37,2 di febbre potevano restare a casa a godersi tutti i programmi del mattino su Italia 1, dove oltre ai cartoni trasmettevano anche dei telefilm un po’ strani, tipo Chips, in cui due poliziotti con gli occhiali da sole in ogni puntata arrestavano talmente tanti criminali da farti venire il dubbio che nell’episodio successivo non sarebbe successo niente visto che tutti i delinquenti della città erano già in galera (invece poi qualcuno da ammanettare c’era sempre: grazie a Jon Baker e Frank Poncharello mi resi conto già in tenera età che la criminalità ha una capacità sorprendente di rigenerarsi e riorganizzarsi).
Il 30 gennaio del 1998 saltai scuola e per farlo non ci fu bisogno nemmeno di inventare una delle scuse che facevano parte del mio ampio repertorio e a cui mia madre fingeva di credere, tra cui voglio ricordare con affetto: sfregare fortissimamente il termometro al lenzuolo per far salire la febbre (un classico intramontabile), sporgermi per cinque minuti dalla finestra del bagno in modo da prendere molto freddo e impallidire per poi fingere un malore generico (questa purtroppo si poteva usare soltanto tra dicembre e febbraio), simulare fitte lancinanti allo stomaco dove aver bevuto il latte con il Nesquik a colazione, dire di aver appena vomitato nel water, dove però non era più visibile la prova provata dello mio stato di indisposizione perché, essendo un bambino educato, avevo subito tirato lo sciacquone.
Quel giorno, dicevo, era un sabato speciale perché mamma e papà mi avrebbero portato dalle parti di Desenzano in un centro sportivo dove l’Inter stava preparando la partita del giorno dopo contro il Brescia. Stato di agitazione-euforia-camminareaduemetridaterra di me novenne: massimo. La sera prima non riuscivo a dormire e per una volta la colpa non era degli zuccheri ingurgitati tra merendine Mulino Bianco e dolci di varia fattura, tutti rigorosamente al cioccolato. Ricordo con precisione anche com’ero vestito: pantaloni della tuta blu della Nike, scarpa blu con baffo bianco sempre Nike, giubbotto lungo rosso comprato in un negozio di articoli sportivi per l’astronomica cifra di 299mila lire. Li valeva tutti quei soldi perché teneva le coltellate, cioè per dirla bene ti riparava in maniera ermetica dai venti più impetuosi.
Partimmo al mattino presto. Era una bella giornata, fredda ma senza nebbia, il cielo era limpido e nelle poche nuvole che vedevo dal sedile posteriore della station wagon guidata da mio padre, mi sembrava di riconoscere nitidamente i dentoni di Ronaldo, i ricci di Moriero e le treccine di Taribo West. A un certo punto vidi due nuvolette sfilacciate, molto allungate: non potevano che essere le sopracciglia dello “Zio” Bergomi. Di quell’oretta scarsa sulla Opel Kadett blu che filava spedita verso la provincia di Brescia ricordo poco altro. Ad esempio: mio padre ascolta l’intera cassetta di “Destinazione paradiso” di Gianluca Grignani, mio padre che si gira dal sedile del passeggero per chiedermi se sono contento di andare a vedere i giocatori dell’Inter e incassa un po’ sconsolato il mio mutismo che era in tutto e per tutto simile a quello in cui cadono i grandi atleti pochi minuti prima di una gara importante. Ero concentrato e allo stesso tempo con la testa tra le nuvole. Dai poster della mia cameretta si sarebbero fatti carne, magari qualcuno avrei potuto vederlo da vicino, da pochi centimetri, addirittura toccarlo, chiedergli un autografo. Io nel dubbio un quaderno a quadretti ce l’avevo.
Non era la prima volta che andavo a vedere l’Inter, ero stato a San Siro per un paio di partite di campionato e una volta per la partita contro la Reggiana a Reggio Emilia ma allo stadio è diverso, i giocatori diventano omini piccoli piccoli perché tu spettatore sei lontano dal campo. Intendiamoci, quando nell’autunno di quell’anno ammirai dal vivo il gol di Ronaldo su punizione in Inter-Parma rimasi in stato di grazia per tre giorni e quella giornata resta una delle più memorabili dei miei primi 36 anni di vita, ma quel giorno sulla Kadett di mio padre avevo la sensazione che assistere ad un allenamento della squadra mi avrebbe aperto delle nuove porte per conoscere davvero i giocatori di cui ritagliavo le foto da “Inter squadra mia”, una rivista per giovani fan, una specie di “Cioè” per i maschietti in fissa per il pallone.
Appena arrivati al centro sportivo, dopo un’oretta di macchina, mi fiondai subito alla recinzione che separava il campo dalla zona dove erano assiepati centinaia di tifosi. Eravamo in perfetto orario, infatti passarono pochi minuti e davanti ai miei occhi sfilarono uno a uno i calciatori dell’Inter e l’allenatore Gigi Simoni, un signore con i capelli grigi e la faccia da buono: del resto non era mica della Juventus, pensai, e il suo sorriso accennato mi tranquillizzò da tutte le saette di emozioni che mi sfrecciavano in testa.
Il primo impatto fu abbastanza straniante e ci misi un po’ a convincermi che i ragazzi che si passavano la palla e correvano a destra e a sinistra fossero veramente gli stessi che guardavo in televisione ogni domenica. L’allenamento durò meno di un’ora credo ma quando i giocatori tornarono negli spogliatoi per fare la doccia mi sentii quasi truffato: ero stato talmente assorbito dalla visione degli esercizi, della partitella e dei giri di campo che nella mia testa non erano passati più di cinque minuti. I tifosi applaudirono, qualcuno vicino a me fece partire un coro, alcuni calciatori tra cui Moriero e il francese Djorkaeff salutarono verso di noi e all’improvviso calò il sipario su quella che fino a quel giorno era stata l’esperienza più elettrizzante della mia vita di bimbo. Finito l’allenamento tornai dai miei che erano seduti poco distanti, una ventina di metri più indietro rispetto allo spiazzo da dove avevo ammirato i giocatori.
Quasi tutti i tifosi lasciarono il parcheggio del centro sportivo ma mio padre decise di aspettare ancora qualche minuto: voleva chiedere un autografo a Sandro Mazzola, uno dei più grandi calciatori italiani della storia, divenuto in seguito dirigente dell’Inter. Non so su quali basi ma mio padre era convinto che avrebbe potuto almeno vederlo da vicino: la sua teoria era basata sul fatto che Mazzola non avrebbe avuto nulla da fare mentre i calciatori erano sotto la doccia e chissà magari una delle auto parcheggiate appena fuori dal cancello del centro sportivo era la sua. L’intuizione si rivelò giusta: Mazzola uscì dagli spogliatoi parlottando con un membro dello staff dell’Inter, si accorse di una decina di persone che lo salutavano dall’esterno, li raggiunse e firmò i foglietti che gli venivano allungati tra le sbarre del cancello. Papà, juventino, sottolineò che lui sì era stato un grande centrocampista, non quelli scarsi che erano all’Inter e per cui io mi scaldavo tanto.
Salutato Mazzola, eravamo pronti a tornare verso casa. Il quadernino che avevo nella tasca del giubbotto, quello su cui nelle mie intenzioni con un po’ di fortuna avrei potuto raccogliere i nomi dei giocatori, era rimasto bianco tranne che per il nome e il cognome di una vecchia gloria.
Avevamo quasi raggiunto l’auto quando si sentii un rumore metallico prolungato, preceduto da un breve suono, un bip secco. Ci girammo per capire da dove provenisse. Il cancello si era aperto, il pullman stava per ripartire, pensammo. A quel punto mio padre disse che avremmo potuto aspettare di vederlo passare. Io ovviamente accettai, avrei rivisto per qualche altro attimo i giocatori, seppur riparati dai finestrini del bus, un bestione nerazzurro con tanto di scritta “Inter” sulle due fiancate. Il motore però poco dopo venne spento e si aprirono i due portelloni laterali.
Noi e un’altra famiglia decidemmo di avvicinarci nuovamente all’ingresso del centro sportivo nella speranza di sbirciare all’interno per capire cosa stesse succedendo. Senza preavviso, con una spinta improvvisa, mio padre mi buttò dentro, oltre il cancello e mi disse di andare veloce, di provare a salire sul pullman. D’istinto mi rigirai verso mia madre e pure lei mi fece cenno di provarci, solo a gesti però in modo da non attirare l’attenzione dei tre o quattro uomini della sicurezza che avevano il compito di evitare l’intrusione nella zona degli spogliatoi. Rimasi imbambolato per qualche secondo fino a quando il bambino dell’altra famiglia, più o meno mio coetaneo, fu pure lui buttato oltre il cancello dal padre. Si mise a correre come un disperato verso l’autobus e allora mi sbloccai: lo rincorsi, lo superai sfruttando la falcata più lunga della sua (era un bimbo bassino e tracagnotto) e alla fine della corsa mi ritrovai sul primo gradino dei quattro che mi separava dai calciatori, addirittura intravedevo le treccine di West.
Alla fine, dopo qualche istante di esitazione, mi decisi a entrare, nonostante dietro di me uno degli energumeni della security mi stesse dicendo qualcosa, immagino di fermarmi, anche se il tono dimesso e quasi annoiato non mi spaventò. Ero in uno stato di trance.
Mi ritrovai davanti a Beppe Bergomi e accanto a lui era seduto Fabio Galante che mi sgridò e mi ordinò di andarmene. Non fece in tempo a finire la frase che il capitano lo azzittì in malo modo. Bergomi mi sorrise e mi chiese come mi chiamavano, io inebetito farfugliai Vincenzo e senza che lo chiedessi lui mi firmò un foglio del quadernino che intanto avevo tirato fuori dal giubbotto. Galante, scocciato, fece per prendere la biro ma in uno scatto d’orgoglio gli dissi che non volevo il suo autografo.
Nel frattempo anche l’altro bambino era salito sul pullman, stava parlando con Pagliuca. Mi guardai intorno fino a quando vidi la testa rasata di Ronaldo e mi fiondai verso il tavolino che condivideva con altri tre giocatori. Arrivai davanti al Fenomeno che ero sfinito, non tanto per lo scatto da centometrista che mi sembrava di aver fatto, quanto per la gioia troppo grande da sostenere: era lì di fronte a me, era reale, potevo quasi toccare la persona più importante del mondo. In quell’occasione capii il significato dell’espressione “rimanere con la bocca aperta”, fu lui a farmelo notare prima di chiedere al compagno che sedeva di fronte a lui di alzarsi per lasciare il posto a me. Nessuna parola usciva dalla mia bocca, fissavo le mani grandissime di Ronaldo, erano enormi. Lui sorrideva, aveva gli incisivi sporgenti proprio come nelle foto e le sopracciglia nerissime e folte come nei videogiochi.
Non ho memoria di cosa mi disse, ricordo soltanto che il mio unico pensiero era farmi fare l’autografo, subito, in fretta, forse perché inconsciamente volevo scappare il prima possibile da un’emozione troppo destabilizzante, che mi aveva scombussolato a tal punto da rendermi muto e incerto nei movimenti. Ronaldo fu gentilissimo, mi accompagnò dai suoi compagni, uno ad uno e da tutti mi fece autografare il quaderno. Camminavo come un automa mano nella mano con lo sportivo più famoso del mondo (sì ok, col senno di poi forse era Michael Jordan, avete ragione).
L’incantesimo fu rotto dall’arrivo sul pullman di Paulo Sousa, accolto dalle risate dei compagni che lo prendevano in giro: teneva molto al suo look, specie ai capelli e per asciugarli ci metteva una vita, da qui il ritardo con cui partii il bus. Ronaldo era il mio eroe, l’essere umano più veloce del pianeta ed era talmente potente da dover ammettere che senza controllo quella sua dote sarebbe servita a poco. Ci avevano fatto persino una pubblicità su questo suo problema/pregio e io all’epoca degli spot in tv mi fidavo parecchio. Un giorno Ronaldo se ne andò. Ci rimasi male soprattutto perché scappò di notte, mentre io dormivo. Il Mondiale del 2002 era terminato da poche settimane e lui aveva trascinato il Brasile fino alla Coppa più importante, era tornato indomabile dopo anni di infortuni, di ginocchia distrutte e notti trionfanti a San Siro, una Coppa Uefa parigina alzata indossando la maglia iconica a strisce orizzontali, il disastro del 5 maggio e tante altre cose.
Ronnie mi lasciò senza spiegazioni proprio come fa una fidanzata quando sei adolescente: un motivo vero magari non esiste neppure, va così e basta. Fa un male cane, piangi senza sapere con chi prendertela, ma tant’è. Per fortuna già avevo iniziato a fumare di nascosto. Pall Mall blu. Voltato l’angolo della via di casa me ne accesi una di piena rabbia e mi sentii adulto perché, ehi, stavo soffrendo. Ma sarei andato avanti, da vero uomo, fregandomene delle prese in giro dei compagni di classe juventini e milanisti. Quell’essere umano, comunque, mi aveva reso felice per molto tempo.
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