“Questa che chiamiamo fortuna è una donna ubriaca e capricciosa, ma soprattutto cieca, e così non vede ciò che fa, né sa chi getta nella polvere né chi invece porta sugli altari”
La penna che ha dato vita a queste parole non è appartenuta ad uno scrittore qualsiasi ma ad un mostro sacro come Miguel de Cervantes, illustre poeta del ‘500 che a Valencia conoscono discretamente bene. È forse ciò che ha pensato Héctor Cúper, soprannominato Hombre Vertical per la sua compostezza e la schiena drittissima, nel momento in cui il fortissimo Oliver Kahn, portiere tedesco del Bayern Monaco, ha neutralizzato il rigore di Mauricio Pellegrino, consegnando la Champions League alla squadra tedesca.
Come altro spiegarsi, se non appellandosi alla sfortuna, la sconfitta in due finali consecutive della competizione per club più importante d’Europa? Un pensiero che sarà passato anche per la testa di Ruben Baraja e Gaizka Mendieta, leader tecnici ed emotivi di quel Valencia e della nazionale spagnola. Un destino che i due colleghi hanno vissuto anche indossando la maglia della roja, assurgendo loro malgrado a simboli di una selezione di grande talento ma incapace di arrivare in fondo ad alcuna manifestazione.
Lo haria, pero no puedo. O forse sì
Il Valencia di Cúper viene ricordato come la squadra del fallimento, dell’insuccesso, del “vorrei ma non ci riesco”. Come se una maledizione o una punizione divina si fossero abbattute con una violenza tale da cancellare un percorso memorabile, che nella metropoli castigliana hanno sempre sognato. Ma è davvero fallimento il termine adatto a descrivere questo memorabile team?
“È nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora” scrisse Albert Einstein, nel momento in cui riuscì a dimostrare la fondatezza della teoria della relatività, che avrebbe sconvolto il sapere umano e l’impressione che ognuno di noi ha del mondo. Già, perchè è proprio dall’insuccesso che origina il successo. Dalle ceneri di una squadra affranta dalle delusioni europee partirà un percorso inimitabile, con al timone Rafa Benitez, che porterà il Valencia alla conquista di due campionati in tre anni ed all’agognato trionfo europeo in Coppa Uefa.
La rivincita di Baraja, di Canizares, leggenda autentica del club troppo spesso bistrattata nel dualismo con Casillas, del “Payaso” Pablo Aimar, trequartista raffinato dotato di una tecnica superiore, su cui persino Diego Armando Maradona si era sbilanciato definendolo il proprio erede. Il riscatto di un popolo che tanto aveva sofferto, costretto a soccombere sistematicamente alla forza delle grandi di Spagna, Real Madrid e Barcellona, incapace di costruirsi una propria dimensione in ambito nazionale ed europeo.
Tutto ciò non sarebbe mai stato possibile se il ciclo di Héctor Cúper non avesse plasmato nei valenciani la convinzione che, finalmente, il momento di elevarsi, di duellare, di non rimanere nelle retrovie ma di godersi una prima fila, era arrivato. Se si analizzano le due campagne europee del Valencia, si nota un progressivo e netto miglioramento, un costante rifornimento di autostima che cresce partita dopo partita. Un superpotere autoindotto, che porterà i castigliani a non presentarsi da sfavoriti nella finale col Bayern Monaco.
Contro il Bayern Monaco il Valencia pensava davvero di potercela fare
Un calcio nuovo
Il 3 a 0 con cui il Real Madrid demolisce il Valencia nella finale di Champions League 1999-00 non dice probabilmente la verità, se preso come risultato esempio di un divario tecnico più che ampio tra due squadre. Certamente, però, ne certifica la diversa attitudine ed abitudine nel giocare certe partite: un terreno che i blancos hanno già esplorato in lungo e in largo e nel quale si muovono con superba maestria. Diverso è il caso della finale dell’anno successivo.
Il Valencia approccia la partita col piglio della squadra matura, capace di reggere le pressioni, talmente convinta che mette in costante difficoltà i bavaresi per gran parte del match. In un calcio di forte impronta sacchiana, ancorato al 4-4-2 ed incapace di distaccarsi da quella matrice, i murcielagos di Cúper rappresentano un’eccezione. Non sono poche le novità tattiche che il mister argentino mostrerà al mondo e che poi saranno studiate e replicate dai suoi colleghi in futuro. Il controllo del possesso di palla, il terzino che si inserisce centralmente a creare superiorità numerica, le due punte che lavorano in parallelo attaccando gli spazi in verticale. Architravi moderne di una struttura ariosa e abbacinante, innovazioni geniali di non immediata comprensione per il pubblico dell’epoca.
Una squadra che sulle maglie, semplici nel loro bianco ma bellissime per stile, avevano scritto lo sponsor ideato per promuovere la loro terra, ma che sarebbe stato perfetto anche per descrivere l’aura di leggenda che avrebbe presto ammantato quel biennio: Terra Mitica.
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Profeta in patria, disastro altrove: Gaizka Mendieta
L’uomo che meglio di ogni altro incarna il nuovo spirito castigliano è certamente il capitano, Gaizka Mendieta. Per rendere l’idea di ciò che ha rappresentato questo giocatore per la comunità valenciana, è necessario citare le parole del presidente Cortès: “Es el murcìelago del escudo del Valencia“. Tradotto: è il pipistrello dello stemma del Valencia. Un apprezzamento non da poco, che ne racchiude la straordinaria importanza tecnica e tattica ma soprattutto il grande carisma e la spiccata personalità, da leader nato.
Una carriera, quella di Mendieta, che vale la pena approfondire: in essa è probabilmente racchiusa tutta l’essenza di quell’epopea valenciana. Le straordinarie prestazioni di quell’asso dal caschetto biondo gli valsero il trasferimento alla Lazio per 89 miliardi, cifra che lo rese il secondo acquisto più costoso della storia biancoceleste dopo Hernan Crespo. Il passaggio meteorico di Mendieta in Italia, nell’allora campionato più bello del mondo, si risolse in un flop totale e senza appello. Un equivoco tattico mai risolto, ricordato ancora oggi dai tifosi biancocelesti con scherno come il peggior acquisto della storia della loro amata squadra.
A Roma restò solo un anno, per poi passare dal Barcellona e finire i suoi giorni da calciatore al vento del North Yorkshire, dove ha indossato la maglia del Middlesbrough. Mai più riuscì a ripetere le gloriose annate valenciane dove, sia che giocasse da esterno di centrocampo che da centrale, con la sua classe illuminava il gioco della squadra di Cúper, che dipendeva in maniera pressoché totale dal suo capitano.
Il figliol poco prodigo
Un altro nome degno di citazione e valido come esempio dell’irripetibilità, per alcuni uomini, di quelle annate con Héctor Cúper, è senza dubbio quello di Gerard Lopez. Talentuosissimo centrocampista incursore, nella prima stagione sotto la guida del tecnico argentino fungeva da apriscatole delle difese avversarie con i suoi continui inserimenti mortiferi.
Catalano di Granollers e cresciuto nelle giovanili del Barcellona, i blaugrana lo avevano attirato nella loro cantera come una potente calamita fa con uno spillo, salvo lasciarlo partire verso la Castiglia dopo una stagione più che positiva con la seconda squadra del Barça. Al termine di un 99/2000 da urlo, i catalani si convinsero ad esercitare il diritto di recompra che ancora vantavano su Lopez, investendo 48 miliardi per farlo tornare all’ovile. Ça va sans dire, sarà un mezzo disastro.
Quella al Valencia fu l’esperienza con i picchi più alti mai raggiunti da Gerard Lopez, che finirà presto nel dimenticatoio con un’apparizione fugace nel Monaco prima di tornare in Spagna, vestendo le maglie di Recreativo Huelva e Girona.
La tripletta con cui Gerard Lopez demolì la Lazio, diventando uno dei re di Valencia
L’incantesimo al contrario
C’è un filo conduttore che lega tutti gli interpreti di quelle due stagioni memorabili: nessuno è più riuscito a ripetersi a quei livelli fuori da quel contesto cuperiano. Persino l’hombre vertical cadrà vittima di questa spirale di insuccessi e delusioni. Assumerà la guida dell’Inter nella stagione successiva alla finale tra Valencia e Bayern Monaco. Difficilmente un nome proprio di persona si lega ad una precisa data, nel mondo dello sport, con un nodo più di stretto di quello con cui Héctor Cúper salda il suo al 5 maggio.
È il giorno del dolore per tutti i tifosi nerazzurri, che si vedono soffiare lo scudetto in modo rocambolesco dopo un dominio durato 37 giornate, perdipiù con la beffa sadica di veder festeggiare al posto loro i rivali di sempre, quelli vestiti in bianco e nero. Le immagini dell’entrenador argentino che aspetta tutti i suoi giocatori nel tunnel, battendo loro la mano sul petto come a volergli indicare da dove dovessero estrarre la forza per compiere l’ultimo passo verso la gloria, resterà un’immagine scolpita per sempre negli occhi degli appassionati come uno dei gesti di incoraggiamento meno riusciti della storia.
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Quando perdere aiuta a vincere
La magia che permeò Héctor Cúper e quel Valencia è, ancora oggi, uno dei misteri più insondabili del calcio contemporaneo. Probabilmente l’alchimia che si era creata nel gruppo e l’entusiasmo dello spogliatoio per poter recitare sui palchi d’Europa uno spettacolo fatto di idee nuove resero speciali dei giocatori tutto sommato poco più che normali, che per due anni giocarono ad un livello che nemmeno loro avrebbero immaginato di poter raggiungere.
Diceva Paul Bryant: “La chiave non è la volontà di vincere, tutti ce l’hanno. È la volontà di prepararsi a vincere che è importante”. Possiamo appellarci allora al risultato come unico metro di determinazione di successo e fallimento? O forse dovremmo maggiormente evidenziare quanto il percorso, spesso costellato da ostacoli inattesi e cadute rovinose, sia l’anticamera del successo? In un mondo calcistico come quello odierno, spaccato visceralmente tra la ricerca di un percorso virtuoso ed il risultato ad ogni costo, ricordare quei due anni magici del Valencia può insegnarci tanto. L’eterna incompiuta, il Valencia dei rimpianti e dei fallimenti, forse è stata molto più vincente di quanto immaginiamo.
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