Il giornalismo sportivo, il mondo della comunicazione, la Serie A. Non bisogna essere persone banali per poter discorrere placidamente di questi tre argomenti in due ore di confronto davanti a un’aula piena di studenti. Una classe di giovani ansiosi di uscire da lì con una conoscenza migliore del passato, uno sguardo lucido al presente, e una spinta verso il futuro. Ma Marco Bucciantini non è decisamente una persona banale.
In occasione dell’evento sul giornalismo sportivo organizzato all’università La Sapienza il 16 novembre dall’associazione studentesca Sapienza Futura, Puntero ha presenziato in qualità di media partner. Tale circostanza ci ha concesso di chiacchierare con il giornalista, scrittore e noto opinionista televisivo di Sky Sport. Ne è venuta fuori un’intervista in collaborazione con due studentesse della facoltà di Comunicazione dell’ateneo, Marta Zibellini e Flaminia Vali. Un’occasione per stimolare Bucciantini sia sul tema del giornalismo sportivo che su quello del calcio, lasciando poi che fosse lui a fare il resto.
Noi di Puntero ci siamo concentrati sull’attualità della nostra Serie A, ma ci sembra giusto riportare anche un paio di questioni sollevate da chi ha contribuito a realizzare con noi l’evento.
Guardando la trasmissione Sky Calcio Club è possibile notare come lei spesso faccia riferimenti filosofici e letterari collegandoli al mondo del calcio. Quanto è importante secondo lei elevare il livello del discorso, arricchendo anche il bagaglio culturale di chi la sta ascoltando?
”Sembra che me la sono fatta da solo questa domanda (ride, ndr). Da un certo punto di vista è “colpa” della formazione che ho avuto. Se uno cresce leggendo quello che ho letto io, come Clerici, Brera, Mura, Fossati, che erano veramente degli intellettuali e degli scrittori che scrivevano di sport, è chiaro che uno poi acquisisce una certa impostazione mentale. Se vedete in quella trasmissione ci sono un Campione del Mondo, che è Beppe Bergomi, poi un portiere dell’Italia al Mondiale, Luca Marchegiani, e Paolo Di Canio, che soprattutto qui a Roma tutti sanno chi è. L’altro è Fabio Caressa, che è un mito del giornalismo. Lui prosegue una tradizione di telecronisti storici che hanno cambiato il modo di fare telecronaca. Con Caressa inizia un nuovo modo, una telecronaca più partecipata, con un tono più alto, più competenza nel racconto, più enfasi. Insomma, io un posto nella trasmissione me lo dovevo trovare. Ma la mia non è una ricerca. Io penso di essere stato scelto proprio per la mia diversità. Io dò molta importanza allo sport. Vi consiglio un libricino, di sole 60 pagine, che si chiama ‘Lo sport e gli uomini’ di Roland Barthes dove, discorrendo tra vari sport e altrettanti Paesi, a un certo punto si dice che lo sport è importante perché realizza il contratto umano. Ed è vero. Pensate allo sport, a che arena particolare sia. Quello che puoi fare lì non lo puoi fare altrove. Come nel calcio, dove se spacchi la gamba a qualcuno vieni espulso e poi squalificato, mentre se lo fai fuori dal campo hai due anni di carcere. Ciò che accade in campo rimane in campo, questa è la clausola compromissoria del calcio.
Stesso discorso per i tifosi, per i quali è impensabile usare il linguaggio dello stadio nella vita di tutti i giorni. Anche se ho messo la luce su degli aspetti negativi, l’ho fatto solo per far capire che l’uomo nello sport mette in discussione un universo superiore a se stesso. Cerca nell’evento, e anche nella sua stessa partecipazione, qualcosa di diverso che la vita non offre. Lo sport mette in gioco, secondo me, delle componenti fondamentali dell’uomo, per questo dovrebbe essere raccontato in modo un po’ diverso da come siamo abituati a fare in questo Paese. Se sembro diverso è solo perché in Italia siamo stati bravi a vendere la polemica, a costruirla, e a educare un lettore, uno spettatore, un ascoltatore, alla polemica, alla notizia data in dicotomia, esasperata, alla contrapposizione. Ma anche a una polemica sterile, all’aspetto meno importante di quello sportivo. Se adesso andate su un sito sportivo vedete anche notizie che con lo sport non c’entrano niente, nel quale magari il protagonista è l’atleta in modo correlato, ma non il fatto sportivo. Secondo me ci siamo persi molto. Abbiamo educato un pubblico alla polemica e siamo convinti che non possa interessarsi ad altro. Siamo convinti di fare ascolto solo polemizzando. Lo sport è diverso, e offre delle possibilità eccezionali nel farlo, nel tifarlo e nel raccontarlo. Anzi, a volte penso che il giornalista sportivo abbia una fortuna che i cronisti politici e di cronaca nera non hanno, ovvero l’opportunità di usare un vocabolario più ricco. Può osare di più. Nello sport si può dover raccontare di un’esaltazione o una delusione tremenda, mentre altrove non puoi lasciarti andare, hai molte meno parole per raccontare i fatti. E per me avere più parole significa andare un po’ in giro. Significa appoggiarmi a un libro, a un film, a una canzone. Io poi penso che la musica sia la più straordinaria invenzione dell’uomo, quindi ogni volta che la cito e penso che qualcuno allora si metta ad ascoltare la canzone che ho nominato, penso di aver fatto un favore all’umanità, pensa come sono messo col mio narcisismo. Credo però che questa possibilità di un linguaggio superiore, che racconti delle passioni più ampie, non vada sprecato nella polemica”.
Walter Mazzarri è tornato sulla panchina del Napoli. Da buon toscano, hai capito cosa lega questa regione a questa città, dove sembra che solo i tuoi conterranei riescano ad allenare?
“Sarri, Spalletti e Mazzarri sono tre caratteri molto difficili, molto pronunciati, molto forti, e secondo me serve un carattere forte per sorbire il carattere più particolare che c’è nel calcio italiano, e cioè quello di Aurelio De Laurentiis. Un uomo per certi versi illuminato, che ha avuto una visione, che ha portato una squadra a questa competitività, e che per tanti anni ha portato dividendi agli azionisti perché faceva attivo mentre il Napoli cresceva di valore. Ho sempre pensato che in Toscana, e lo dico da osservatore e non da toscano, ci sia fertilità nel calcio. Anche Allegri viene da lì. Addirittura lo scorso anno a un certo punto della stagione c’erano ben otto toscani nelle 20 panchine di Serie A, una percentuale assurda. E questo perché la Toscana aveva un sistema in cui tante squadre, da cui sono passati anche questi allenatori che oscillano tra i 45 e i 60 anni, galleggiavano tra i campionati di Serie C1 e Serie C2, che adesso sono stati accorpati nella Lega Pro. Questi campionati permisero a tanti tecnici di fare scuola, come ad esempio Spalletti che cominciò con l’Empoli proprio in C1 fino a portarlo in Serie A. Tutte queste squadre che la Toscana proponeva hanno permesso di fare gavetta, di vincere campionati, di farsi vedere. La Lombardia ad esempio aveva tante squadre tra la Serie A e la Serie B, ma in questi campionati iniziano quelli che hanno smesso di giocare, senza per forza essere i più bravi, ma ereditando la panchina per il loro passato da calciatori e i loro rapporti. Un altro aspetto che aiuta la formazione di tecnici in Toscana è anche la presenza di Coverciano per poter fare corsi e prendere i primi patentini. Questi sono i due vantaggi competitivi che offre questa terra. Poi la Toscana discute e si mette in discussione e un toscano non vuole avere mai torto. Queste secondo me sono tutte componenti che hanno allevato questi allenatori. Se poi mi dici Mazzarri al Napoli… strano. Personalmente sono molto contento perché Mazzarri, del quale sono molto amico. Ci sono stato recentemente a cena e ho trovato in lui tutta la voglia di sfogare la passione di calcio che ha. Lui è un monotematico: sei ore si parla di calcio, e per sei ore parla solo lui. Un qualcosa che tra l’altro a me disturba perché mi piace parlare (ride, ndr)”.
Hai nominato Allegri. Volendo parlare di lui e della sua Juventus, che continua a volare basso anche a ridosso del big match con l’Inter, non credi che ci sia una discrasia proprio tra questo volersi guardare dalle inseguitrici senza puntare allo Scudetto e la storia del club? Senza parlare poi di un presente che la vede essere squadra col più alto monte ingaggi del campionato.
“La Juventus è la squadra più cara del campionato. Dico così perché qualcuno potrebbe dire anche quella con più valore, ma non è un valore spendibile in campo. Per esempio è cara perché paga un grande ingaggio a Pogba, e non c’è. Lo stesso Vlahovic adesso si è visto scavalcare da Kean nelle gerarchie. Attualmente sono infortunati anche Danilo e Alex Sandro, che sono il quarto e il quinto ingaggio della rosa. Come vedi è cara, ma non è corretto dire che è la più ricca. Diciamo che si sta arrangiando con altri giocatori. Io invece trovo quello che sta succedendo in queste settimane molto attinente con la storia della Juventus. Io sulla storia della Juventus ci ho scritto un libro, e per farlo sono andato oltre cortina, come si diceva una volta. Sono andato in un altro mondo, specie per chi come me tifa Fiorentina, ma non ho mai avuto tifo contro nella vita, e sono sempre stato affascinato dalla Juventus e dalla sua storia, perché l’ho sempre associata alla storia dell’Italia. La Juventus è l’unica squadra nazionalizzata. Questa fu una grande idea dell’avvocato Agnelli, ma anche una grande idea politica del Paese. Negli anni ’60 alla Fiat serviva molta manodopera per il lancio di nuovi modelli di automobili e la trovò al sud.
L’integrazione a Torino per questi operai fu un qualcosa di drammatico. Tra un dialetto che non parlavano e la povertà che gli impediva di avere vestiti migliori, queste persone erano escluse, creando un grande problema sociale in fabbrica. Il calciomercato offrì l’occasione di prendere un catanese, Pietro Anastasi, e Agnelli pensò che doveva fare qualcosa per questi operai, doveva farli sentire inclusi, e decise di includerli con la Juventus. In quel momento Inter e Milan erano le squadre più forti e più tifate d’Italia, anche perché in quel decennio avrebbero vinto quattro Coppe dei Campioni, mentre i bianconeri avrebbero dovuto aspettare il 1977 per il primo trofeo internazionale. Attraverso un accordo industriale con il presidente del Varese, Anastasi andò alla Juventus, diventando un volto della nazionalizzazione del club. Da lì in poi arrivarono Causio da Lecce, Cuccureddu dalla Sardegna, fino a Massimo Mauro dalla Calabria. Per 15 anni vengono acquistati giocatori dalle zone dove la Fiat aveva la manodopera, e questo li spinge a tifare Juventus, che diventa la squadra dei pugliesi, dei calabresi e dei siciliani. Un processo che si concretizzò con l’arrivo di Trapattoni, con il quale la Juventus ormai nazionalizzata divenne il primo club al mondo a vincere tutti i trofei internazionali: Coppa Uefa, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni. Quindi, quella di oggi, che mette anche sette italiani in campo come nell’ultima partita, ha non volente qualcosa di vero della storia della Juventus. Dico non volente perché ha speso tanto per non trovarsi qui ed essere più forte, ma poi, come dimostrano l’era di Lippi o quella di Conte, è quando ci sono stati tanti italiani che ha vinto. A me la Juventus di oggi piace. Non mi piace come gioca, dovrebbe fare qualcosa di più, ma la Juventus sbagliata è stata quella che ha voluto andare oltre a questa nazionalizzazione per aprirsi alla mondializzazione prendendo Cristiano Ronaldo che, per quanto abbia portato clamore, è stato la rovina del club in questi ultimi anni. Voleva mondializzarsi come gli altri marchi, ma così facendo si è snaturata, smettendo di sviluppare in campo per affidarsi a dei parametri zero, e non sviluppando nemmeno la società, che si è limitata a chiedere immissioni di denaro alla proprietà. Quella di oggi è una squadra che è propriamente dentro la storia della Juventus e a me, quando una squadra rispetta la sua storia e la sua cultura, mi dice qualcosa”.
Prima hai affrontato il tema dei social, dicendo come sia un luogo in cui affermare la propria opinione, l’unica giusta. In mezzo a questa arena ci è finito anche Stefano Pioli, diviso tra chi lo difende e chi lo attacca. Secondo te perché non si riesce a confrontarsi con chi ha opinioni difformi dalle nostre?
“I social hanno anche un altro problema, e cioè che non è tanto vero che non si riesce a comunicare bene, ma che essendo una comunicazione monodiretta sono disinteressati a convincere. Per questo ho paura di quel mondo, perché mi sembra una degenerazione della politica, dove ormai il messaggio è volto sempre a radunare e si è persa una parola bellissima che si chiama “sintesi”. La sintesi vorrebbe che se l’altro vince poi dovrà prendere dentro nel suo governo quanto di più possibile, di più vicino, alla mia idea, anche se si tratta di un’idea che arriva dalla minoranza. La capacità dunque di unire due o più mozioni che possono essere sollevate. Perché è impossibile essere così distanti. Perché, anche se abbiamo idee opposte, entrambi il mondo lo vogliamo migliore. Il bene è sempre la felicità di chi governi. E adesso questa sintesi si è persa. Ognuno pensa alla sua propaganda 365 giorni all’anno per radunare il suo consenso. Nonostante ciò, almeno in questa perversione del nuovo millennio, rimane sempre il patto del dover convincere chi non la pensa come me per poterlo portare dalla mia parte. I social distruggono anche questo minimo patto di verità in quello che si fa. Sui social anche chi insulta partecipa al mio traffico, mi fa ricco, io non lo devo convincere, posso anche solo farlo arrabbiare. Tu dici che non c’è posto per il dibattito, ma perché non si vuole posto per il dibattito, anzi. Per questo vincono i messaggi quanto più estremi possibili. Come capita con quei giornalisti, divenuti ormai delle ditte individuali, che lasciano sempre lì la frase cattiva o il riferimento a qualcun altro a sua volta pieno di follower. L’obiettivo non è altro che farlo rispondere per portare anche i suoi seguaci nella discussione. Ci prendono per il culo. Fanno i soldi in questo modo. Non interessa più convincere, interessa il totale, e in questo totale ci sta sia chi la pensa come e sia chi mi odia. Pioli invece, anche se non usa i social, è disperato. È disperato da questo mondo che lo esalta e lo contesta a seconda del risultato, un po’ come Oronzo Canà ne “L’allenatore nel pallone”. Questo lui lo detesta. E non basta nemmeno tirare fuori una prestazione meravigliosa in una partita evento come quella con il PSG che tre giorni dopo è già #PioliOut. Questa è la polarizzazione del messaggio. E se io sono uno che tiepidamente è a favore di Pioli lo difendo davanti al #PioliOut, e così facendo partecipo a quel numero.
Se c’è una cosa che voglio dire a tutti questi ragazzi che vogliono fare i giornalisti è che la cosa più importante, nella vita e non solo in questo mestiere, è la credibilità. E la si costruisce in due modi. Innanzitutto sapendone più degli altri, ma veramente, non informandosi cinque minuti prima su Google, perché poi ci si mette poco a diventare degli zimbelli nel proprio lavoro. E infine sapendo emozionare. Perché anche con i nostri genitori i momenti che ci ricordiamo sono quelli in cui c’è stato uno scambio di emozioni. Un altro consiglio che mi sento di dare è quello della passione. Crepet l’altro giorno parlava a un’aula di universitari, tra l’altro c’era più gente di oggi (ride, ndr), e ha raccontato lui stesso di aver chiesto ai ragazzi un motivo per svegliarsi un’ora prima. Nessuno ha risposto “per la passione di fare quello che faccio”. Se ci si sveglia solo perché suona il telefono non si fa niente nella vita, non funziona, non dura. Se invece ci si sveglia per fare qualcosa, vi renderete conto dopo tanti anni di aver fatto quello che volevate fare. Questa non me l’hai chiesta ma volevo dirla lo stesso (ride, ndr)”.
Spesso ci si dimentica di come il calcio lo giochino gli esseri umani, e si sottovaluta questo aspetto mentale ed emozionale. A tal proposito, non pensi che il finale della scorsa stagione dell’Inter li abbia fatti crescere come uomini al punto da poterne vederne adesso i benefici sul campo?
“Se c’è una cosa in cui sono cresciuti grazie al percorso dello scorso anno è sicuramente in un aspetto fondamentale dello sport, ovvero il consorzio tra uomini, l’associazione tra gli uomini, che poi è ciò che è una squadra. A volte ci vogliono convincere che il calcio è facile e ne è nata una guerra tra calcio facile e calcio difficile, che non è nemmeno il termine appropriato. Vogliamo spaventare dicendo che il calcio è difficile, e sono riusciti perfino a fare ciò in questa guerra ideologica, in questa ricerca della contrapposizione polemica che vende meglio. Il calcio non è facile, anzi, è bello quando sembra facile. Il problema è che per farlo sembrare facile devi essere molto bravo, devi lavorare tanto, devi riuscire a capire e a spiegare e a praticare una complessità notevole nell’associare 11 persone e farlo sembrare facile. Basta vedere il Napoli. Lo scorso anno sembrava un fiume da quanto andava veloce verso il mare, da quanto era limpido nel gioco e ineluttabile nel destino. Adesso è acqua stagna, non funziona più, e sono gli stessi. Se il calcio era facile il fiume continuava, non la fermi l’acqua. L’Inter la scorsa stagione è arrivata in finale eliminando il Barcellona che sarebbe diventato campione di Spagna, il Porto e il Benfica che erano rispettivamente campione uscenti e attuale detentore del campionato portoghese, e il Milan campione d’Italia. In più, è riuscita a contestare la finale fino al 96′ ai vincitori del campionato più competitivo, ovvero la Premier League. Da quella sconfitta ne è uscita un a squadra consapevole che l’associazione di uomini e di obiettivi, il fare le cose assieme, li ha elevati. Lo sport di squadra è questo. Se lo sport di squadra fosse una somma algebrica lo sapresti già prima chi vince. La possibilità che sia 1+1 che 2+2 possano fare 3 è il bello dello sport di squadra, altrimenti giocheremmo alla Playstation, dove ogni giocatore ha una valutazione”.
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