Arthur Friedenreich, l’uomo che ha segnato più gol di Pelé

Probabilmente Arthur Friedenreich è la risposta alla domanda: chi ha segnato più gol nella storia del calcio.

Chi è il calciatore che ha segnato più gol nella storia del calcio? Una domanda che ha aperto spesso dibattiti sulle modalità di conteggio delle reti realizzate, ma che nel tempo ha portato sempre in Brasile. Un Paese capace di nutrirsi di calcio e di vivere in funzione di esso, che ha dato i natali a calciatori talentuosi, longevi e imprevedibili, campioni che hanno fatto la storia e altri che hanno generato rimpianti. È il Paese che per primo ha conosciuto la gloria di O Milésimo, portando un proprio calciatore a quota mille gol, non senza recriminazioni e rivisitazioni al limite del complottismo.

Ma torniamo alla domanda iniziale: e se vi dicessimo che il nome più scontato, quello di Pelé, potrebbe non essere quello giusto? Partiamo da qua per raccontare la storia della prima grande star del calcio brasiliano, Arthur Friedenreich.

Arthur Friedenreich, più forte del razzismo

Quando Arthur Friedenreich nasce a San Paolo il 18 luglio 1892, il calcio in Brasile non è ancora un fatto sociale né culturale. Solo due anni dopo, un altro paulista – ma di origine britannica – cambierà per sempre le sorti del gioco nel Paese: Charles William Miller, che, dopo aver frequentato la Bannister Court School a Southampton, importerà palloni, regole e passione. Sarà proprio lui, tra l’altro, il primo maestro di calcio di Friedenreich. È probabile che a unirli inizialmente siano state le comuni radici europee, ma è il campo ad avvicinarli davvero. Miller gli insegna a tirare, a passare, a stare in campo.

Tra i due, tuttavia, c’è un solco profondo. La prima differenza è sociale: Miller è figlio di un ingegnere scozzese e di una donna brasiliana di origini inglesi; Friedenreich, invece, nasce da un padre tedesco, commerciante in cerca di fortuna, e da una madre afro-brasiliana, lavandaia. In un Brasile in cui il calcio è ancora un passatempo elitario, bianco e benestante, queste differenze pesano come macigni. E la seconda differenza, ancora più marcata, è razziale: Friedenreich è mulatto. E il colore della pelle, in quegli anni, basta a escluderti da qualsiasi sogno sportivo.

Dopo gli esordi nel São Paulo de Bexiga, Arthur tenta il salto in un club prestigioso: lo Sport Club Germânia, fondato da emigranti tedeschi e tra i pionieri del Campeonato Paulista. Ma le sue origini restano uno scoglio. Il talento non basta: è nero, e tanto basta a chiudergli le porte. Riparte quindi dall’Ypiranga, una squadra più modesta, con cui esordisce nel professionismo a 18 anni.

Emarginato dal calcio “ufficiale”, Friedenreich si afferma nel futebol de várzea, il calcio popolare, istintivo, viscerale, praticato sui campi improvvisati dei quartieri poveri. Un calcio non di censo ma di classe, che sarà l’anticamera del joga bonito e della rivoluzione estetica del fútbol brasileiro. E Arthur, lì dentro, è un alieno. All’Ypiranga incanta: segna, dribbla, diverte. Non ha un fisico imponente, ma supplisce con grinta, testa e determinazione. È per questo che viene soprannominato El Tigre.

Friedenreich cambierà il calcio brasiliano. A dirlo è Eduardo Galeano, che lo considera “l’uomo che ha creato il modo brasiliano di giocare a calcio, rompendo i rigidi schemi inglesi e portando sui campi l’irriverenza dei ragazzi neri che giocavano a piedi nudi con una palla di stracci.” Galeano scrive: “Da Friedenreich in poi, il calcio brasiliano non ha più avuto angoli retti.”

Talento e incanto bastano a far ricredere persino il Germânia. Il ragazzo non è bianco, ma è troppo forte per ignorarlo. Lo reintegrano. E da lì in avanti, Friedenreich inizierà a costruire la sua leggenda. Ma la sua figura sarà sempre una frontiera ambigua, divisa tra mondi che si respingono.

Il damerino che vive come un bianco

L’approdo al Germânia è un trionfo simbolico per tutti i ragazzi di futebol de várzea, per gli esclusi, per i poveri, per i neri. Friedenreich è uno di loro, ma una volta arrivato al vertice, non si guarda indietro. Non si fa portavoce di alcuna battaglia sociale. Ha conosciuto l’emarginazione, ma sembra non interessargli più. Vive per sé. E soprattutto, vive da bianco.

Nella letteratura sportiva è spesso definito un “dandy”: veste con eleganza, frequenta i teatri, fuma sigari, beve cognac. Ha assorbito il gusto e i riti borghesi degli ex compagni di squadra tedeschi. Ma non è solo questione di stile: tenta di rinnegare la propria identità afrodiscendente. Usa brillantina per appiattire i ricci e evita i colpi di testa per non rovinare l’acconciatura. Vuole essere riconosciuto per il suo lato europeo. Non solo: in occasione di una partita commemorativa tra bianchi e neri – organizzata per l’anniversario della Lei Áurea del 1888 (che abolì la schiavitù) – sceglie di giocare con i bianchi. Una scelta che scandalizza molti.

Ma il tempo non fa sconti. La realtà lo riporterà con violenza alla sua condizione: sarà trattato come un giocatore e un uomo di Serie B, nonostante tutto. Eppure, in quegli anni, si è ormai affermato. È diventato un protagonista del Campeonato Paulista e calcherà i principali campi brasiliani per oltre vent’anni. Con numeri talmente impressionanti da spingere storici e istituzioni a ridimensionarli. O forse solo a nasconderli.

Arthur Friedenreich ha segnato più di Pelé?

Torniamo alla questione centrale. Quanti gol ha segnato Friedenreich nella sua lunghissima carriera? È bene dire che aver giocato fino al 1935 – quando aveva 43 anni – ha favorito un aumento esponenziale delle segnature. Siamo in un’epoca in cui gli archivi calcistici sono frammentari, spesso incompleti o dispersi nel tempo, e i metodi di registrazione delle partite risultano rudimentali e non ufficiali.

Un grande amico di Arthur e suo ex compagno di squadra, Mário de Andrade (omonimo del celebre poeta modernista, ma personaggio distinto), diventa giornalista e decide di seguire pedissequamente ogni partita e ogni spostamento del fenomenale amico, annotando i suoi gol con l’intento di tramandarli ai posteri. Lo stesso fa anche il padre di Arthur, Oscar Friedenreich, altrettanto fiero del talento del figlio.

Friedenreich giocherà con la nazionale brasiliana – un tema che merita un approfondimento a parte – e per sette club principali: Ypiranga (in tre distinte occasioni), Germânia, Mackenzie, Paulistano (due volte), São Paulo da Floresta (che darà poi vita all’attuale São Paulo FC), Atlético Mineiro e Flamengo. Oltre a questi, disputa anche numerose partite non ufficiali con le maglie di Atlas, Paysandu, Tutu/Miranda, Consolaçao, Jacaré, Internacional de São Paulo, Atlético Santista, Santos e Dois de Julho. Una carriera nomade e stratificata, come spesso accadeva ai pionieri del calcio.

Alla fine di questa lunga e frammentata avventura calcistica, il numero di gol registrati dall’amico giornalista è a dir poco impressionante: 1.329 gol in circa 1.200 partite.

Numeri eccezionali anche per l’epoca, frutto di diversi fattori da non trascurare. Friedenreich è un campione di classe superiore che si confronta con un calcio prevalentemente regionale – il Brasileirão nasce solo nel 1959, prima di allora esistevano solo campionati statali e tornei locali – e meno ingabbiato tatticamente, dove i gol fioccano più liberamente. C’è poi un dettaglio a metà tra leggenda e ossessione: in 25 anni di carriera, Friedenreich non avrebbe sbagliato nemmeno un rigore.

Numeri prestigiosi. Forse troppo. E quel “troppo” ha più di una sfumatura. Perché quando Arthur Friedenreich muore nel 1969, l’amico Mario de Andrade trasmette alla federazione brasiliana le cifre e i tabellini raccolti nel tempo da lui e dal padre, affinché il primo grande campione nazionale non venga dimenticato.

Ma il tempismo è infelice. Siamo in piena “Pelé Era”, e in Brasile Pelé è venerato come una divinità civile. Nessuno può permettersi di oscurarlo, nemmeno postumo. Le cifre di Friedenreich finiscono inizialmente in un cassetto. E quando riemergono, vengono subito ridimensionate. Troppi gol per essere veri. Ma soprattutto: troppi per essere più di quelli di O Rei – soprannome che, con amara ironia, era stato per la prima volta coniato proprio per il bomber paulista di origini tedesche.

La prima versione ufficiale appare grottesca: “C’è un errore di battitura, non sono 1.329 ma 1.239.” Un numero comunque enorme, ma non casuale: il ridimensionamento permette a Pelé, con i suoi 1.281 gol conteggiati (inclusi match amichevoli, esibizioni e incontri semi-ufficiali), di mantenere il primato.

Non sarà l’ultimo intervento di “editing statistico”. Di lì a poco si procederà a un’ulteriore scrematura: dagli archivi ufficiali emergono solo 572 partite disputate da Friedenreich, e da queste risultano 547 gol. Una media comunque impressionante – 0,95 gol a partita – addirittura superiore a quella di Pelé. Una cifra che viene usata come contentino per non danneggiare nessuno: a Friedenreich la gloria, a Pelé il record, al Brasile il mito intoccabile.

Il tutto verrà ulteriormente istituzionalizzato con la nascita del Prêmio Arthur Friedenreich, assegnato ogni anno al miglior marcatore della stagione calcistica brasiliana. Un premio celebrativo, ma che non restituisce pienamente il debito storico.

Questa versione, tuttavia, convince ben poco gli storici del calcio. Anche perché, a prescindere dalle cifre ufficiali, è palese che Friedenreich abbia giocato molte più di 572 partite. I referti raccolti da Mario de Andrade – pur non ufficiali – vengono screditati dalla federazione stessa, applicando un metro di giudizio ben diverso rispetto a quello riservato a Pelé. Il cui conteggio finale, nel tempo, si è gonfiato grazie anche a reti segnate in amichevoli, tour esotici, partite d’esibizione e perfino in alcuni incontri definiti “match farsa”, organizzati con l’unico scopo di far salire il numero di gol di O Rei.

È l’ennesimo smacco della federazione a un campione che, per tutta la vita, ha dovuto combattere contro i “no” degli organi calcistici del proprio Paese. E che, da morto, ha visto il suo nome piegato ancora una volta a logiche di potere e di opportunità.

Ciò che sopravvive delle gesta di Arthur Friedenreich

Il turbolento rapporto con la Seleção

L’orologio del tempo ci riporta all’estate del 1914, quando una squadra inglese, l’Exeter City, decide di intraprendere una tournée in Brasile per diffondere il calcio nelle terre in cui Charles William Miller aveva già fatto proseliti per quello che era rapidamente diventato lo sport prediletto della nobiltà britannica trapiantata in Sudamerica. Nelle prime due uscite, l’Exeter batte senza difficoltà una selezione di calciatori inglesi impegnati nel Campeonato Carioca (3-0), poi supera per 5-3 la rappresentativa dello stato di Rio de Janeiro in un match più combattuto.

Per offrire un avversario più competitivo a una squadra che, pur militando nella terza divisione inglese, appartiene a un contesto calcistico più evoluto, la FBS (Federação Brazileira de Sports) decide di creare una selezione nazionale, pescando dai migliori talenti del Cariocão e del Paulistão, i due principali campionati statali. Con il classico 2-3-5 dell’epoca, la neonata selezione scende in campo il 21 luglio 1914 all’Estádio das Laranjeiras, casa della Fluminense. In porta c’è Marcos de Mendonça; la difesa è composta da Píndaro e Nery; a centrocampo agiscono Silvio Lagreca, Ruben Salles e Rolando de Lamare; l’attacco vede al centro Arthur Friedenreich, supportato da Abelardo de Lamare, Oswaldo Gomes, Osman Medeiros e Formiga. A guidare la squadra, in veste di player-manager, sono due dei centrocampisti: Lagreca e Salles.

Quello che ancora non si sa è che quel match verrà riconosciuto come il primo incontro ufficiale della nazionale brasiliana. E, a differenza delle uscite precedenti, l’Exeter soccombe. Sul 2-0 – con gol di Oswaldo Gomes e Osman Medeiros – gli inglesi iniziano a giocare duro. Fin troppo. Friedenreich, mai tipo da tirarsi indietro, riceve un cazzotto in pieno volto, esce con due denti rotti, eppure lascia il campo da protagonista.

Arthur Friedenreich è uno dei padri fondatori della Seleção, che all’epoca veste di bianco, non ancora verdeoro. Sembrerebbe l’inizio di una storia d’amore duratura, ma ben presto i conflitti superano gli entusiasmi. El Tigre è tra i primi convocati della nazionale, e nel 1916 prende parte alla prima edizione del Campeonato Sudamericano de Football, l’odierna Copa América: un girone all’italiana a quattro squadre (Brasile, Argentina, Cile e Uruguay), chiuso al terzo posto.

Per rivederlo in maglia verdeoro passeranno tre anni. Siamo ancora in un Paese che ha abolito la schiavitù da appena una generazione, e il fatto che il miglior calciatore brasiliano sia nero è un problema per i vertici federali e politici. Quando Friedenreich torna, l’impatto è deflagrante: di nuovo al das Laranjeiras, nella gara inaugurale del Sudamericano 1919, firma una tripletta contro il Cile.

Al termine del girone, Brasile e Uruguay sono appaiate a quota 5 punti (all’epoca la vittoria ne vale 2), avendo entrambe battuto Cile e Argentina e pareggiato tra loro. Serve uno spareggio per assegnare il titolo. La finale si gioca davanti a 35.000 spettatori, in uno stadio con una capienza di 20.000. Il match, durissimo, si chiude 0-0 nei 90 minuti.
Si va ai supplementari, ma serve qualcosa in più. Serve un campione.

E il campione è lui: Arthur Friedenreich. Al 122’, in quella che diventerà la partita più lunga della storia del calcio (150 minuti), firma il gol dell’1-0 che vale il primo trionfo del Brasile e il titolo di capocannoniere del torneo. Il Paese esplode di gioia, e il suo nome viene celebrato ovunque. Il suo scarpino, montato su una gamba di gesso, viene esposto in una gioielleria nel centro di Rio, in calle Ouvidor. Nasce così il soprannome che lo accompagnerà per sempre: Pé de Ouro.

Ma da lì in avanti, il rapporto con la nazionale prende una piega dolorosa. Proprio come tra il 1916 e il 1919, passano altri tre anni prima che venga richiamato. Nel Sudamericano del 1922, il Brasile vince di nuovo con uno spareggio, questa volta contro il Paraguay. Ma Friedenreich ha un ruolo marginale: gioca solo due partite e non scende in campo nella finale. Il motivo è inquietante e documentato: Epitácio Pessoa, presidente del Brasile e principale finanziatore della CBD, impone l’esclusione dei giocatori neri dalla finale.

Non è l’ultimo capitolo, ma quasi. Nel 1925, Friedenreich segna gli ultimi due gol in nazionale, nel Sudamericano concluso al secondo posto. Poi, nel 1930, arriva un addio amaro. A luglio si gioca la prima edizione dei Mondiali in Uruguay, e Arthur Friedenreich – che a 38 anni è ancora in forma – dovrebbe guidare l’attacco della Seleção. Ma la federazione brasiliana è lacerata: un dissidio tra la CBD di Rio e la federazione paulista porta all’esclusione dei giocatori di San Paolo. E Friedenreich è tra questi.

La sua ultima apparizione con la nazionale arriva il 1º agosto 1930, in un’amichevole contro la Francia. Chiude con 23 presenze e 10 gol in maglia brasiliana. Curiosamente, la stessa Francia a cui rifilò una tripletta con il suo Paulistano in tournée europea, guadagnandosi il soprannome di O Rei do Futebol.

A ben vedere, l’unico altro avversario non sudamericano della sua carriera in nazionale, oltre all’Exeter City. Una macchia nel percorso di un gigante, che come Alfredo Di Stéfano sarà ricordato tra i più grandi a non aver mai giocato un Mondiale, pur avendo una nazionale qualificata.

La zampata vincente nella finale-spareggio contro l’Uruguay del 1919

Gli anni finali e i record

Negli ultimi anni di carriera, Friedenreich si scontra apertamente con la federazione. Non solo per le tensioni vissute in nazionale, ma soprattutto per la sua opposizione alla professionalizzazione del calcio brasiliano, che avrebbe reso il gioco più regolamentato e meno spontaneo. Benché avesse toccato con mano i problemi legati al dilettantismo – e alle scelte dettate da logiche extra-sportive – riteneva che il calcio, così com’era, stesse per perdere quel sapore di bellezza e improvvisazione, quell’anima spettacolare da futebol de várzea di cui era stato uno dei principali interpreti.

Eppure, per amore del gioco, El Tigre continua a scendere in campo, rendendosi addirittura protagonista del primo gol nell’era del calcio professionistico in Brasile, con la maglia del São Paulo da Floresta nel 1933. Prosegue fino al 1935, alternando il pallone al lavoro in una fabbrica di liquori, per sostenersi economicamente. Col tempo, però, tutto crolla. La malattia lo consuma, così come il suo patrimonio. Dopo aver contratto l’Alzheimer, spende tutti i propri risparmi – e quelli dei suoi genitori, entrambi sopravvissutigli – per coprire le spese della casa di cura dove morirà, il 6 settembre 1969, a 77 anni.

Di lui restano i numeri: otto titoli di capocannoniere del Campeonato Paulista, uno nel Sudamericano, sette campionati vinti con il Paulistano e uno con il São Paulo da Floresta, oltre ai già citati successi in nazionale. Nel 2000, l’IFFHS lo ha inserito al tredicesimo posto nella classifica dei 100 migliori calciatori sudamericani del XX secolo, dietro solo a Pelé, Garrincha, Zico e Zizinho tra i brasiliani. Ma, più di tutto, restano i dubbi sui suoi numeri, su un record ancora oggi discusso.

E quella controversia non si è mai spenta. Non solo per lui. Oggi, gli unici quattro giocatori di cui si sia parlato in relazione a più di mille gol in carriera sono: Arthur Friedenreich, Pelé, Dadá Maravilha – l’uomo del regime di Emílio Garrastazu Médici, che costò il posto al CT João Saldanha e le cui cifre furono poi ridimensionate a 926 reti – e Romário.

Il prossimo a raggiungere questo traguardo potrebbe essere Cristiano Ronaldo, che – se ci riuscisse – sarebbe il primo non brasiliano della storia. E proprio Cristiano Ronaldo ha recentemente aggiunto benzina sul fuoco della disputa, dichiarando:

“A differenza degli altri, tutti i miei gol sono filmati. Ci sono le prove.”

Una frase che, più di tante statistiche, racconta quanto ancora la leggenda di Arthur Friedenreich resti avvolta nel mito. Un mito che nessun archivio, per quanto incompleto, potrà davvero cancellare.

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