C’è un suono che appartiene alla nostra memoria collettiva. Non è il ruggito di uno stadio e nemmeno il rimbalzo di un pallone sul prato. Non è il fischio di un arbitro. È una voce. Calda, profonda, con quella pacatezza che sa di trattoria friulana, di vino rosso e di radioline accese nelle domeniche d’inverno. È la voce di Bruno Pizzul.
Era un suono che non cercava di sedurre o di impressionare. Era un suono che accompagnava. Un’intonazione mai sopra le righe, un lessico preciso, un ritmo che lasciava spazio al silenzio quando serviva. Pizzul non era un venditore di emozioni, ma un custode. Lo zio che ci faceva sentire a casa anche quando la Nazionale giocava a Tokyo, a Pasadena, a Rotterdam. Nell’epoca della frenesia mediatica, dove tutto è iperbole e clamore, dove ogni passaggio laterale viene raccontato come una scelta geniale e ogni fallo come un dramma, la voce di Pizzul è un balsamo antico. Era l’eco di un tempo in cui il calcio si ascoltava più che si guardava, in cui la telecronaca era una compagnia discreta e non uno show. Chi lo ha ascoltato accompagnare le serpentine di Baggio con le ginocchia martoriate o il pallone che Pagliuca cicca prima che il palo glielo restituisca sa di cosa parliamo.
Bruno Pizzul e l’arte della sottrazione
Oggi siamo abituati alle telecronache sovraccariche, ai commentatori che sovrappongono dettagli su dettagli, agli urli che accompagnano ogni gol come se fosse l’ultimo della storia. Pizzul, invece, era misura. Una misura che oggi sembra persa. Quando Roberto Baggio sbagliò il rigore nella finale di USA ‘94, il commento di Pizzul fu quasi sospirato: “Ha sbagliato Baggio…”. Cinque parole, nessuna esagerazione, nessuna drammaticità costruita. Solo un dato di fatto. Ma dentro quelle cinque parole c’era tutta l’Italia davanti alla tv, c’era il peso di un paese che si sentiva vicino alla Coppa del Mondo e che invece la vedeva svanire. Bruno Pizzul non aveva bisogno di gridare per trasmettere emozioni. Il suo era un talento raro: scegliere le parole giuste al momento giusto. Non era minimalismo fine a se stesso, non era freddezza, ma consapevolezza.
Le sue telecronache erano essenziali, ma non asciutte. Sapevano respirare. Ogni tanto, tra un’azione e l’altra, inseriva piccoli dettagli, osservazioni che davano profondità al racconto: “Il pallone danza sul terreno di gioco”, “C’è grande compostezza nella manovra della Germania”, “Si tratta di un’azione piuttosto velleitaria.” Frasi semplici, ma cariche di senso. Come se invece di descrivere il calcio, lo stesse suggerendo.
La voce di una generazione
Non è un caso che chiunque sia cresciuto tra gli anni ‘80 e i primi 2000 abbia ancora impresso quel timbro nella memoria. Pizzul ha raccontato un’epoca, ha cucito una narrazione sportiva che ci ha accompagnato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, nei pomeriggi con la Coppa Italia e nelle estati di Mondiali ed Europei. Negli anni in cui il calcio italiano dominava la scena internazionale, tra il Milan di Sacchi e la Juventus di Lippi, tra il Parma di Tanzi e la Lazio di Cragnotti, la sua voce era un punto di riferimento. Anche quando il risultato era già scritto, anche quando il match si trascinava senza emozioni, c’era una sorta di dignità nel modo in cui raccontava l’ordinario. Non c’era bisogno di vendere lo spettacolo. Bastava il calcio.
Il suo stile lo ha reso iconico, ma anche anacronistico. Negli anni 2000, con l’avvento delle pay-tv e delle trasmissioni costruite per creare dibattito e clamore, la sua voce ha iniziato a suonare come un’eco di un tempo passato. Pizzul stesso non si è mai adattato a quel nuovo linguaggio. Non si è mai reinventato opinionista da salotto, non ha mai cercato polemiche facili o prese di posizione nette. Ha mantenuto una distanza elegante dal circo mediatico, continuando a raccontare il calcio a modo suo, nei rari interventi televisivi o nei documentari.
La Nazionale e le sue sconfitte
Se dovessimo associare Pizzul a un sentimento, probabilmente sarebbe la malinconia. Perché la sua voce ha accompagnato più sconfitte che trionfi. È stato la colonna sonora di un’Italia calcistica che spesso ci ha lasciato con l’amaro in bocca. Ha raccontato il rigore sbagliato da Baggio nel ‘94, la beffa di Euro 2000, la semifinale persa con l’Argentina nel ‘90, la disfatta con la Corea nel 2002. Ha vissuto più illusioni che gioie, più sogni infranti che celebrazioni. Non ha mai potuto dire “Campioni del Mondo!” come Nando Martellini nell’82 o Fabio Caressa nel 2006. Diceva che era un suo cruccio, ma nulla che gli facesse perdere il sonno. Perché il calcio, nella sua visione, era anche questo: vittorie e sconfitte, emozioni e delusioni. E il suo stile non cambiava, che si trattasse di un trionfo o di una disfatta.
“E questa è veramente una grande beffa…”, disse quando Wiltord segnò il pareggio al 94’ nella finale di Euro 2000. Un commento semplice, amaro, perfetto. “Ci sarà molto da riflettere”, dopo l’eliminazione con la Corea nel 2002, senza urlare al complotto, senza isterismi. Pizzul non si faceva trascinare dalle emozioni più del dovuto. Sapeva che il calcio è anche attesa, dolore, ingiustizia. E lo raccontava con la stessa eleganza con cui avrebbe raccontato una vittoria.
Friulano doc
Nato a Cormòns nel 1938, in una terra di confine, Pizzul si è sempre portato dietro quell’aura di sobrietà tipica che tendiamo ad associare al Friuli. Alcuni dei più grandi uomini di calcio italiani sono nati in quella regione: da Enzo Bearzot a Dino Zoff, fino a Pizzul. Tutti accomunati da una certa eleganza mai ostentata, da una capacità di stare nel proprio ruolo senza prevaricare.
Pizzul parlava spesso della sua terra, senza retorica. Quando la Nazionale giocava a Udine, si percepiva un orgoglio discreto nelle sue parole, come se fosse una piccola vittoria personale. Ed è significativo che, dopo una carriera passata nei grandi studi della Rai, sia tornato a vivere nella sua Cormòns, lontano dal rumore e dalle luci della ribalta. In un’intervista raccontò di come, da bambino, ascoltava le partite alla radio con suo padre e di come il calcio fosse un linguaggio universale in quella terra fatta di dialetti e contaminazioni. Forse è per questo che la sua voce è stata così naturale, così familiare: perché parlava come si parla nelle osterie, nei campi di provincia, nelle case dove il calcio è una tradizione tramandata e nobilitata.
Pizzul calciatore
Prima di essere la voce del calcio italiano, Pizzul era stato un calciatore promettente. Giocava a centrocampo, aveva una buona visione di gioco e un tocco raffinato. Venne notato dall’Udinese, che lo portò in Serie A nel 1957, quando aveva solo 19 anni. La sua carriera, però, si interruppe quasi prima di cominciare. Un brutto infortunio al ginocchio lo costrinse a fermarsi, a rivedere i suoi piani. A quei tempi, gli infortuni erano sentenze definitive per molti calciatori, e la medicina sportiva non aveva le soluzioni di oggi. Così, Bruno abbandonò il sogno di diventare un grande giocatore e si dedicò all’università. Studiò Giurisprudenza, poi Lettere, e iniziò a insegnare.
Il calcio, però, non lo aveva mai lasciato del tutto. Il passaggio alla telecronaca fu quasi naturale. Iniziò con la radio, raccontando le partite con quello stile pacato e analitico che lo avrebbe reso celebre. Poi il grande salto in televisione, fino a diventare la voce della Nazionale. La sua esperienza da calciatore gli diede un vantaggio non da poco: conosceva il campo, sapeva leggere le situazioni, capiva i ritmi del gioco. Ma, soprattutto, conosceva il dolore di chi il calcio lo aveva dovuto lasciare troppo presto. Anche per questo il suo racconto non era mai sensazionalistico. Capiva cosa significava sbagliare un rigore, perdere una finale, vivere un infortunio. Raccontava con empatia, non con giudizio.
L’ultima telecronaca
Il 21 agosto 2002, allo stadio Nereo Rocco di Trieste, si disputò l’amichevole tra Italia e Slovenia. Quella partita segnò l’ultima telecronaca di Bruno Pizzul per la Nazionale italiana. La scelta di Trieste come sede dell’incontro sollevò preoccupazioni, data la vicinanza al confine sloveno e le tensioni storiche della regione. Pizzul stesso aveva avvertito dei possibili rischi: “Quasi scoppiava la terza guerra mondiale sugli spalti. Li avevo avvertiti di non giocarla lì quella partita, ma non mi hanno ascoltato”.
Durante la partita, l’atmosfera era tesa. Fischi agli inni nazionali, sei ammonizioni e lanci di razzi in campo caratterizzarono l’incontro, culminato con la sconfitta dell’Italia per 1-0, gol di Cimirotic. Nonostante le difficoltà, Pizzul mantenne la sua consueta professionalità, congedandosi con eleganza in una serata che rifletteva le complessità del calcio e delle sue implicazioni socio-politiche.
Nessun erede
Dopo l’addio di Pizzul, il giornalismo sportivo italiano ha subito una trasformazione radicale. Il modello di telecronaca misurata e minimale è stato gradualmente sostituito da uno stile più enfatico, più narrativo, più coinvolgente. Fabio Caressa e Giuseppe Bergomi, con il loro celebre “Andiamo a Berlino!” del 2006, hanno incarnato il nuovo corso. Un racconto che non si limita a descrivere, ma che partecipa attivamente alle emozioni del pubblico. Un cambio di paradigma inevitabile, figlio dei tempi, delle nuove esigenze televisive, del diverso modo di consumare il calcio.
Ma se da un lato il giornalismo sportivo ha guadagnato in spettacolarizzazione, dall’altro ha perso quella compostezza che Pizzul rappresentava in maniera plastica. Pizzul stesso, pur senza mai criticare apertamente il nuovo stile, ha sempre mantenuto una certa distanza. In un’intervista dichiarò: “Oggi si cerca di rendere ogni partita un evento, ma a volte una partita è solo una partita”. Amen.