Scriveva Giacomo Leopardi nel “Canto notturno del pastore errante dell’Asia”: “Forse s’avesse io l’ale / Da volar su le nubi, / E noverar le stelle ad una ad una”. E lo scorso 16 maggio, che il Giro d’Italia passava per Recanati, le sue parole risuonavano un po’ più forte del solito, riconfermando ancora una volta la sua unica capacità di descrivere la vita a tutto tondo, senza esitazioni e senza scuse, a cuore sempre aperto e sempre palpitante. Chissà cosa penserebbe se sapesse che i suoi versi oggi sono impiegati per raccontare una tappa del Giro d’Italia: magari inorridirebbe, a lui Recanati neanche piaceva; probabilmente, ne disapproverebbe l’uso. Ma sembrano parole perfette per raccontare l’accaduto, adatte per descrivere, senza giri di parole, il salto nel vuoto di Mirco Maestri, il volo alto nel cielo di Julian Alaphilippe e la dodicesima tappa del Giro d’Italia 2024, spesa in fuga in due.
Maestri e Alaphilippe, opposti a caccia di gloria al Giro d’Italia
Cos’hanno in comune un corridore dell’allora Polti Kometa (oggi Polti VisitMalta) soprannominato Paperino, alla sua settima partecipazione al Giro – con miglior piazzamento sessantesimo – e un due volte campione del mondo, che ha quasi sfiorato un Tour de France e ha vinto, tra le altre cose, una Strade Bianche e una Milano-Sanremo? Poco, forse, a parte l’età ravvicinata: sono nati solo a qualche mese di distanza, Maestri a ottobre del ’91 e Alaphilippe a giugno del ’92. Poco, quindi, a parte una comune capacità – che si potrebbe forse chiamare estro – di buttarsi, nella speranza di indovinare la fuga giusta; quella rara forma di coraggio che ha chi, a un certo punto, semplicemente scatta, sotto lo sguardo sconcertato del gruppo che osserva l’azione e non ne capisce il senso, perché attaccare troppo presto significa, quasi sempre, non avere uno straccio di possibilità nel finale, quando conta.
Mirco Maestri e Julian Alaphilippe, diciamocelo, condividono pure una certa propensione a inseguire sogni difficili, a tentare l’azzardo anche quando il finale sembra scritto. Spesso il tempismo non è dalla loro parte: le gambe cedono negli ultimi chilometri e il vincitore di giornata sfila via davanti ai loro occhi. Forse, però, quello che li accomuna davvero è la convinzione che la volta buona, prima o poi, arriva. E forse è stata proprio questa ostinazione a farli trovare insieme sulle strade marchigiane, il 16 maggio 2024.
Mirco Maestri è senz’altro un artista della fuga. Si muove con dedizione nelle corse ritenute minori, ma il Giro d’Italia è sempre stato il suo appuntamento fisso, fatta eccezione per un paio d’anni. Si può contare su di lui, insomma, per movimentare tutti i tipi di tappa, specialmente quelle come questa: da Martinsicuro a Fano, 193 chilometri e 2.100 metri di dislivello, per un totale di undici muri. Non è l’unico, però, che si è segnato proprio quest’arrivo sul calendario: questa tappa fa gola a tanti, perché lascia tiepidi gli uomini di classifica e, quindi, c’è spazio per tutti gli altri. E perché i muri, nel ciclismo, vogliono sempre dire battaglia, che siano nelle grandi classiche del Nord o nelle assolate colline italiane di metà maggio.
Eppure, a volere questa tappa con la stessa ostinazione di Maestri, c’è anche Julian Alaphilippe. E si sa perché è da quando è iniziato il Giro che continua ad attaccare: non è un gran momento per il pluricampione del mondo, che continua a essere al centro di polemiche e discussioni, anzitutto da parte del suo dirigente sportivo, Patrick Lefevere.
Se Maestri rincorre una vittoria, a costo di andare in fuga in tutte le tappe in cui è possibile farlo, Alaphilippe si porta sulle spalle il peso dell’ex campione che non riesce a vincere: sono passati 346 giorni dall’ultima volta e, se ti chiami Julian Alaphilippe e vuoi continuare a correre, qualcosa si deve sbloccare. Uno alla caccia di un grande risultato, quindi, che non cambia il corso di una carriera – a 33 anni, non succede –, ma che, magari, la corona, la ripaga, la riempie; l’altro alla ricerca di un nuovo capitolo, di una vittoria per una squadra, la Soudal Quick-Step, che è stata casa per tanti anni, ma è sempre meno accogliente nei suoi confronti.
La magia della fuga, tra amicizia e voglia di vincere
Mirco Maestri e Julian Alaphilippe, quindi, alla dodicesima tappa del Giro d’Italia 2024 scappano insieme e si danno i cambi, regolarmente, mentre dietro di loro gruppi di inseguitori si compongono e scompongono, si avvicinano e si allontanano in un’anarchica danza. Ma loro restano lì, impassibili e incrollabili, incantando il mondo del ciclismo con la loro azione che ha del folle, forse, di certo ha del meraviglioso. Alaphilippe incoraggia Maestri quando gli mancano le gambe, lo aspetta dopo ogni strappo, si carica il peso dell’azione quando l’altro fatica a reggere il ritmo. Certo, ha bisogno di lui per arrivare in fondo, perché è più probabile riuscire a vincere in due che da solo; forse – o, almeno, ci piace pensare così – anche perché in quella strada condivisa, da perfetti sconosciuti, si crea un’alleanza effimera, instabile, con un finale già scritto. Eppure, nel tempo sospeso della fuga, incredibilmente autentica.
Maestri tira, sempre. Non salta un cambio, anche se sa che restare con Alaphilippe significa quasi certamente non vincere. Continua ostinatamente a fare la sua parte, non cede, si alterna al compagno di avventura in questa bolla dello spazio e del tempo che li isola dal resto del gruppo. Tra i muri marchigiani e le stradine strette sembra che ci siano solo loro, coppia improbabile e stranamente assortita che nelle ore di corsa crea una strana magia sullo schermo: tifare per loro è facile, inevitabile e necessario, perché ci provano dall’inizio del Giro. Perché per due così non si può che tifare. Si spera che Alaphilippe torni alla vittoria, mettendo a tacere mesi di chiacchiere e critiche, ma si spera anche che accada il miracolo e che Maestri tagli il traguardo per primo, per onorare questa grande corsa nel modo che conosce meglio.
Ma ogni fuga, per quanto perfetta, prima o poi si scontra con la realtà della strada. Alla fine, però, arrivano all’ultimo muro, Monte Giove, e l’unica possibilità per Alaphilippe è scattare, se vuole vincere. Si gioca tutto su quel classico tipo di muro che conosce bene, con cui ha a che fare da quando, nel 2014, è passato professionista, ma che oggi è davvero duro anche per lui. Maestri lo osserva, le gambe non vanno, si stacca: verrà ripreso dai primi inseguitori e arriverà con loro al traguardo. Chissà se si sono detti qualcosa in quegli ultimi metri insieme o se non è stato necessario scomodare le parole per salutarsi. Loulou se ne va, ha ancora 10 chilometri da affrontare, con Jhonatan Narváez e Quinten Hermans alle spalle, che oscillano a una distanza tra i 35 e i 40 secondi e incalzano, minacciano quel successo tanto atteso e sperato.
I metri passano veloci, Alaphilippe danza sulla bici, spinge anche dove gli altri riposano. Scatta in discesa, rilancia in curva. Non pensa, è solo potenza e istinto. Non si sa cosa gli passi per la testa in quei momenti, è solo possibile immaginare che la tensione e l’adrenalina si tramutino in potenza, in cadenza della pedalata che non lascia possibilità al recupero degli inseguitori. Alla fine, in effetti, arriva da solo al traguardo e, negli ultimi 600 metri – quei sacri, benedetti metri – si sistema la maglia, raddrizza la schiena, si prende il momento. È la vittoria che aspettava. La vittoria che è la sua risposta.
Inseguito dalle telecamere e dallo staff, atteso nel solito rituale delle interviste e delle premiazioni, però, Alaphilippe, inseguito da telecamere e staff, si fa largo tra i compagni emozionati. Cerca Mirco Maestri per ringraziarlo. La diretta televisiva trasmette il loro abbraccio, c’è l’impaccio dell’attimo dopo, quando la corsa finisce e resta solo quella strana intimità che nasce dalla fatica condivisa. Si dicono due parole, non più di quello che serve. In quell’abbraccio, però, c’è tutta la poesia di questo sport, in cui un ex campione del mondo – anche se poi, probabilmente, campioni del mondo si resta, come raccontano quei bordini iridati delle maniche che indossa dal 2020 – e un corridore con una carriera spesa in fuga si ringraziano per l’aiuto reciproco.
Per aver fatto l’impresa insieme, fa niente se poi ha vinto uno solo: uno ringrazia per la vittoria, l’altro per aver corso accanto al proprio idolo. Lo dice Maestri, infatti, che Alaphilippe e Sagan sono stati i suoi punti di riferimento, i suoi modelli mentre imparava a correre sempre più forte, mentre inseguiva le prime vittorie da professionista. E alla fine, quasi meglio di vincere, c’è la bellezza di averci provato insieme.
Certo, c’è dell’amarezza, perché probabilmente anche lui ha sperato di avere quelle ali di cui scrive Leopardi, anche lui si era cerchiato sul calendario la tappa dei muri con l’arrivo a Fano e, mentre Alaphilippe si gode il meritato plauso, può solo provare a immaginare “cosa sarebbe successo se”. Eppure, c’è qualcosa di Maestri nella vittoria di Alaphilippe in quella tappa del Giro d’Italia, lo sa ora e lo saprà per sempre.
Ecco, allora, cosa accomuna due corridori così diversi, con storie così dissimili e destini paralleli: il sogno di avere quelle ali, di contare le stelle tra le nuvole e il cuore e le gambe per provarci. Non importa se ci si ferma a 10 chilometri dal traguardo o se si arriva prima: conta la strada fatta insieme. E conta quello che resta: l’ennesima lezione di vita di questo strano, accidentato, meraviglioso sport.
La fuga di Alaphilippe e Maestri e il successo nella dodicesima tappa del Giro d’Italia 2024