10 cose che odio di te, NBA edition

Lebron James e Kyrie Irving sono tra i giocatori più odiati della NBA.

Ten things I hate about you (o 10 cose che odio di te, in italiano) è una romcom del 1999 diretta da Gil Junger. La trama consiste in intrighi amorosi adolescenziali della medio-alta borghesia nella Seattle degli anni 2000, procedendo sulla falsariga della commedia di William Shakespeare, “La bisbetica domata”, e rimandando al poeta inglese anche sotto forma di numerose citazioni, dei cognomi dei protagonisti – Patrick VERONA, Kat e Bianca STRATFORD (Upon-Avon) – e della riscrittura del sonetto 141 sul finale, scena apicale che ispira il titolo del film. Spoiler alert: la reinterpretazione si chiama, appunto, 10 cose che odio di te, una dichiarazione d’amore travestita da invettiva della “bisbetica” Kat per Patrick.

Senza concentrarsi troppo sull’evoluzione di una relazione che finisce per far ricadere nel più classico dei cliché amorosi una femminista intransigente e il “bad boy” libertino che si rivela avere un cuore d’oro, che c’entra questo con l’NBA? I fan della pallacanestro americana, in particolare quelli italiani, sono un po’ tutti bisbetici e acidi come Kat: detestano le infrazioni di passi, scherniscono le non-difese, non sopportano l’elevato numero di partite e soprattutto odiano chi ha tutte queste colpe nonostante i 7 “zeri” sullo stipendio. Eppure, alla fine ne emerge una contraddizione evidente, non troppo dissimile da quella di un’adolescente Kat Stratford, che merita il proprio sonetto shakespeariano.

 

Odio il modo in cui mi parli / E il modo in cui ti tagli i capelli

LeBron James ha parlato, e fino alla noia, di voler disputare una o più stagioni con il proprio figlio maggiore, da ben prima che “Bronny” (soprannome di LeBron James Jr.) potesse finire nel mirino degli scout NBA. Dichiarazione dopo dichiarazione, tweet dopo tweet, la questione ha assunto una piega tossica sin da principio: secondo molte speculazioni, chi avrebbe scelto Bronny si sarebbe assicurato anche i servigi di papà LeBron, portando così a proiezioni assurde di ESPN che parlavano di scelte top 10 al Draft nonostante il talento intravisto all’High School di Sierra Canyon fosse a malapena da secondo giro.

Ovviamente, questo delirante trambusto mediatico ha condotto a bollare a prescindere il figlio d’arte come un semplice raccomandato che senza il padre non sarebbe mai stato preso in considerazione dalla NBA, svuotando di significato anche eventuali prestazioni positive o flash di talento che altrimenti sarebbero stati presi in considerazione per altri prospetti. 

L’ulteriore strategia controversa seguita dal camp di James (padre e figlio) riguarda anche la dichiarazione di eleggibilità di Bronny per il Draft 2024 nonostante una stagione tronca con gli USC Trojans in NCAA Division I, giocata dopo un periodo di riabilitazione da un arresto cardiaco sofferto in allenamento. Nonostante queste circostanze e un livello di gioco individuale (comprensibilmente) insufficiente messo in mostra, si è optato comunque per una selezione immediata come da iniziale pronostico – ovviamente manipolata, nemmeno troppo velatamente, da Klutch Sports – l’agenzia rappresentativa dei James – in modo che Bronny finisse ai Lakers

Questi errori di gestione e di comunicazione, con un LeBron che ha eliminato tweet protettivi contro ESPN pur dissimulando un goffo “disinteresse” in conferenza stampa (“Lo tratterò come un compagno di squadra qualsiasi”), hanno portato a far rimbalzare l’usuale odio riversato sulle esperte spalle del padre fino alla testa del figlio, la cui sola colpa è quella di non essere semplicemente pronto per l’NBA. Magari con una stagione in più di college sarebbe stato diverso, magari lo sarà fra un anno o due dopo una formazione in G-League, ma nulla di questo ha più importanza ormai, perché sarà comunque “il figlio di…” e alimenterà lo scherno indipendentemente dal talento.

Quando, a pensarci bene, di tarde second-round pick che si sono schiantate contro il muro NBA, chiudendo la propria carriera nella Lega dopo un anno o due, ce ne sono a bizzeffe – a dire il vero, la maggior parte. Ma l’odio ingiustificato è sempre più forte della ragione, soprattutto quando si tratta di attaccare una personalità così polarizzante come LeBron James a seguito di una campagna comunicativa rivedibile.

Quanto al taglio di capelli, invece, non è chiaro se LeBron deciderà mai di rasarsi a zero, ma eventualmente sarà già abbastanza tardi.

 

Odio il modo in cui guidi la mia macchina

Sapevate che superstar come James Harden e Kevin Durant hanno due fra le collezioni di automobili più ricche dell’intera NBA? Nel caso del primo, si parla di circa un milione di dollari, mentre per il secondo di quasi quattro. Ad accomunare ciascuno dei due, oltre a qualche stagione come compagni ai Thunder e ai Nets, è anche la narrativa del “perdente viziato”, pronto a mettere in ginocchio la propria franchigia per spostarsi in un’altra realtà più congeniale.

Durant, quantomeno, ha vinto due anelli spostandosi in una già super-competitiva Golden State, dando però vita a un superteam grazie all’innalzamento del salary cap, una mossa ritenuta vile e che ha portato a un triennio di dominio assoluto, frenato solo dagli infortuni del 2019. Quello che più si imputa a KD, al netto di un talento spropositato, è il non aver lasciato il segno “da leader” in assenza di un contesto super favorevole. Lo era di sicuro quello Warriors, reduci nel 2017 da un titolo e due apparizioni consecutive alle Finals, nonché da una stagione da record con 73 vittorie. Da lì, solo la fallimentare e sfortunata esperienza ai Nets – proprio con Harden – e adesso tanti problemi in quel di Phoenix, nonostante i soliti numeri individuali da capogiro. Ulteriore legna da ardere per alimentare la tesi che descrive Durant come un ottimo leader tecnico, ma non emotivo.

Quanto ad Harden, non esiste nemmeno la tutela degli anelli, permettendo così di porre ulteriore enfasi sul suo “egoismo”: in campo, a causa di uno stile di gioco polarizzante, fatto di tantissima palla in mano e altalenante effort difensivo; e fuori, ricordando le sue apparizioni con Houston – svogliato e visibilmente sovrappeso, per farsi scambiare – oltre ai tanti cambi di fazione, sempre avvenuti tra le controversie – ricordate l’attacco a Daryl Morey direttamente dalla Cina? Tutti atteggiamenti che spingono molti spettatori a considerarlo niente di più che un voltagabbana con uno stile di vita smodato e lussurioso (non è un segreto che ami gli strip club), anziché un talento quasi rivoluzionario – come effettivamente è – offrendo margine anche per un pizzico di grassofobia.

 

Odio quando mi fissi

Se nessuno ha pensato a Dillon Brooks ascoltando questo verso, il problema è suo. Il rituale pre-partita dell’attuale giocatore dei Rockets è divenuto ormai virale e si tratta solo di uno dei gesti eclatanti che molti role player aggressivi e “cagnacci” tendono a mettere in mostra per innervosire gli avversari. Patrick Beverley è un altro artista di questa disciplina, e prima ancora si ricorda Lance Stephenson. Tra l’altro, perché c’è sempre di mezzo LeBron James?

La risposta è semplice: perché il ruolo di questi giocatori è esattamente quello di provare a suggestionare la superstar avversaria. Una ribellione contro il potere di titanica memoria che porta quasi a una parodia per la sua platealità e soprattutto perché messa in pratica da semplici mestieranti, che non hanno il talento per opporsi ai LeBron James del caso e che, di conseguenza, finiscono spesso per essere zittiti. Un ruolo da antagonista che a molti piace (a molti di più no), portando talvolta a un astio spropositato e a una narrativa sulla mancanza di sportività, legata all’eccessivo agonismo. Abbastanza per essere accomunati a esperti del mestiere come, per esempio, Draymond Green. Che di vere malefatte ne ha messe in mostra fin troppe nel corso della carriera (il piede sopra Domantas Sabonis, il pugno a Jordan Poole, la rissa con Rudy Gobert e via dicendo, fermandosi solo all’ultimo paio di anni).

 

Odio i tuoi grossi, stupidi stivali

Nel caso di Zion Williamson, lo stivale è uno solo, quello ortopedico che lo ha accompagnato dopo la frattura nella zona del quinto metatarso del piede destro patita nel corso dell’offseason 2021. Si tratta dell’infortunio più grave della carriera del giocatore – che ha compromesso l’intera stagione successiva a seguito di un intervento chirurgico – ma purtroppo non dell’unico. Zion ha giocato solo 191 gare in sei stagioni da professionista, tra problemi al ginocchio e ai tendini della gamba. Nella regular season in corso è sceso in campo solo 8 volte nelle prime 40 gare dei Pelicans. Troppe assenze da far passare a uno che ha firmato un quinquennale da quasi 200 milioni di dollari potenziali.

Quel “grossi” riferito agli stivali, però, non è casuale. Gli infortuni non sono la prima ragione di odio per Zion, anzi, vengono reputati la conseguenza inevitabile e un fattore ben meno influente del sovrappeso del giocatore, il quale tra l’altro ha inserite nel contratto alcune clausole riguardanti soglie specifiche di massa corporea da non superare. Foto virali di Williamson sono sempre spiattellate ovunque per schernire e per ricordare come, nella NBA di oggi, questi siano i personaggi strapagati per “poltrire e mangiare a sbafo”. Chi se ne frega del potenziale da Shaquille O’Neal contemporaneo intravisto nella sua stagione da sophomore: il pubblico ha ormai stabilito che si tratti di un bust e di un “ciccione” perennemente infortunato, non importa se ha solo 24 anni.

 

Ti odio così tanto che mi fa star male / E mi fai anche scrivere in rima

Più che di rima, bisognerebbe parlare di omonimia, dato che oggetto di questo verso sono i fratelli Ball: Lonzo, LaMelo e anche LiAngelo. I primi due sono assoluti talenti NBA, mentre il terzo ha preso una strada diversa (anche se probabilmente non avrebbe sfigurato come pro). Tutti e tre hanno la colpa di essere stati inseriti dal padre LaVar, personaggio peculiare, nello showbusiness. La serie tv Ball in the family, reality sulla famiglia in stile The Kardashians, ha reso i fratelli già arcinoti al pubblico da ben prima del loro arrivo in NBA, di modo che la percezione generale ancora prima di vederli nella lega fosse quella di avere a che fare con dei fenomeni da baraccone.

Invece, Lonzo è finito nei quintetti All-Rookie e si è costruito una carriera da titolare prima dei gravi infortuni alle ginocchia, mentre LaMelo sta girando a 29,9 punti e 7,3 assist di media, è stato All-Star nel 2022 ed è primo fra le guardie della Eastern Conference nelle votazioni di quest’anno. Nonostante ciò, i pregiudizi iniziali saranno difficili da rimuovere, soprattutto fino a che uno dei due non si troverà in un contesto davvero competitivo (Charlotte e Chicago, al momento, non aiutano).

 

Odio il fatto che hai sempre ragione

L’odio per Kyrie Irving è giustificato solo per i tifosi dei Boston Celtics, che si sono visti calpestare il logo dall’ex pupillo di casa con la nuova canotta dei Nets. Il resto ha a che fare con: la scelta di non vaccinarsi – un problema dovuto alle legislazioni di Brooklyn e non ai protocolli NBA, che nel 2021 gli hanno permesso di disputare solo le gare fuori casa – e di schierarsi contro l’obbligo di vaccinazione per i lavoratori, nonché la condivisione di materiale multimediale ritenuto antisemita da gran parte della critica ma preso comunque da un documentario pubblico e disponibile su Prime Video (con il titolo Hebrews to Negroes: Wake Up Black America).

Quello che ha dato fastidio non è tanto l’ideologia alla base di queste posizioni, ma il fatto stesso che Kyrie Irving, atleta multimilionario, abbia osato prendere una posizione che, tra l’altro, gli è costata l’accordo commerciale con Nike. Lo sviluppo del pensiero critico e il libero arbitrio non sono qualità che ci si aspetta da un atleta, a quanto pare.

Libero arbitrio come quello di Ja Morant, la cui colpa è aver passato una notte brava in uno strip club con l’accusa, poi decaduta per assenza di prove, di detenere illegalmente un’arma da fuoco. Con conseguente sospensione a marzo 2023. A giugno, poi, ecco ancora una pistola su una live Instagram, e un’altra sospensione, più pesante (25 gare), per condotta dannosa nei confronti della Lega. Nessun reato, con altre accuse (rissa con un minorenne e minacce) decadute – eppure, la severità della risposta NBA e i meme sulle pistole hanno fatto sì che Ja sia stato trasformato in una specie di bandito prestato alla pallacanestro. Ironico, tra l’altro, che la Lega abbia punito per danni d’immagine il giocatore più impattante della nuova generazione sui social media al momento.

 

Odio quando menti

Non serve un trattato di filosofia per spiegare le ragioni per cui gli italiani detestino Paolo Banchero. Le speranze sull’approdo in Nazionale – che probabilmente senza COVID-19 sarebbe avvenuto – si sono pian piano spente, lasciando spazio all’astio nei confronti dell’italo-americano. Ritenuto “italo” fino a che non ha deciso di giocare per gli USA, poi solo “americano”. Se l’afflato nazionalista già poteva instillare nel pubblico qualche dubbio, trattenuto solo dietro alla speranza di avere un giovane talento di questo calibro fra gli Azzurri, ogni inibizione è caduta dopo l’eliminazione nei quarti di finale della World Cup 2023 ad opera degli Stati Uniti dello stesso Banchero, con 37 punti di scarto. Una “bugia” che ha bruciato due volte.

 

Odio quando mi fai ridere / Ancora di più quando mi fai piangere

Questa è una definizione letterale del rapporto degli italiani con Rudy Gobert. Lo odiano quando finisce in qualche poster o sbaglia un tiro a 10 centimetri dal canestro, alimentando uno scherno tale che tutti gli vorrebbero ritirare i quattro premi di Defensive Player of the Year e il patentino di giocatore NBA. Viene odiato per una schiacciata con rotazione a 360° nei quarti di finale di Tokyo 2020, con la partita di fatto già conclusa a favore della Francia.

Non importa che faccia stare bene o stare male, tutti odiano Rudy Gobert. In primis, perché eccelle in un singolo aspetto, la protezione del ferro, qualità più impattante della pallacanestro nella metà campo difensiva – che non si limita alle stoppate, ma si estende a tempi di aiuto e alla deterrenza – ma forse meno pirotecnica di un tuffo o una rubata sul perimetro. In secondo luogo, perché lo pagano (tanto, quasi milioni di dollari quest’anno) per questa qualità in una sola metà campo, mentre è un minus nell’altra.

Poi, perché è piuttosto goffo e non ha doti tecniche particolari, e si sa che i comuni mortali non apprezzano i giocatori “solo alti” perché hanno ricevuto un dono riservato a pochi. Infine, e questo riguarda solo gli italiani, perché è francese: giustificazione banalissima e noiosa che qualunque hater di Gobert sarebbe pronto a tirare fuori come una carta trappola su Yu-Gi-Oh! una volta mostrata qualche clip o i numeri difensivi delle squadre in cui ha militato. 

 

Odio quando non ci sei / E il fatto che tu non abbia chiamato

Ci sono due aspetti per cui Ben Simmons viene preso di mira. Il primo, minore, è quello di non aver mai sviluppato un tiro credibile, aspetto che lo ha reso schiavo dei meme e delle clip estive sui suoi canestri da tre punti nel riscaldamento. Il secondo, la sua quasi scomparsa dal parquet dopo l’eliminazione dei 76ers dai Playoffs 2021 per mano degli Atlanta Hawks. Il suo passaggio sotto canestro nella decisiva Gara 7 è diventato virale (pur essendo stato un fattore meno rilevante di altri nella sconfitta) come manifesto dei suoi limiti come realizzatore, ma non è quello che va ricordato.

Subito dopo sono arrivate in conferenza stampa le frecciatine di coach Doc Rivers e Joel Embiid, fino all’esplosione mediatica in estate a causa della diserzione di Simmons, che non si è presentato al training camp (avvisando i propri compagni di non provare ad andare a trovarlo a Los Angeles) fino a ottobre – quando è arrivato con sommo stupore dei presenti, ma senza troppa partecipazione.

Le notizie più serie sulle sue problematiche di salute mentale e sul tentativo inappropriato di Phila di avere accesso ai suoi fascicoli sanitari sono state ovviamente soppiantate dai report sull’ammontare delle multe e su qualche foto degli allenamenti dove Simmons appare svogliato (o addirittura in possesso di un telefono). Dopo lo scambio con i Nets, i problemi cronici alla schiena hanno aggravato l’hating per la sua assenza – spostando il focus sullo stipendio da oltre 40 milioni di dollari e le zero gare giocate – mentre sul campo hanno impedito di vederne una versione anche solo simile a quella dei primi anni a Philadelphia.

È un vero peccato che qualche clip dove passa la palla invece di tirare stia gettando ombra su uno dei difensori e passatori migliori passati in NBA negli ultimi dieci anni. Chissà se verrà mai perdonato a Ben Simmons, almeno, di essersi ribellato a chi non consentiva nemmeno di riflettere razionalmente sulla gravità dei problemi alla schiena e mentali, già di per sé poco considerati

 

Ma più di tutto odio il fatto di non odiarti / Nemmeno un po’, nemmeno un pochino, proprio per niente

Nessun appassionato che vive con la sola intenzione di screditare il prodotto NBA lo ammetterà, ma è così. Non esisterebbe critica, se non fossero ossessivamente lì a spulciare highlights prima di entrare a scuola o a lavoro, o addirittura svegli di notte a seguire le partite in diretta. Magari pure abbonati a NBA League Pass, ma sempre pronti a lamentarsi degli stipendi troppo alti per questi debosciati che chiamano cestisti professionisti.

Di Mattia Tiezzi

Caporedattore per Around the Game, co-fondatore di STAZ. La mia esistenza si riflette nei fallimenti sportivi dei Minnesota Timberwolves ed è vincolata a un rapporto tossico con Karl-Anthony Towns.