La Emirates NBA Cup, o In-Season Tournament per i “nostalgici” (è stata istituita lo scorso anno), è un torneo inserito nel bel mezzo della Regular Season, con una prima fase a gironi e una seconda a eliminazione diretta, che inizia a novembre e si conclude a dicembre. Non si candida certo a diventare la panacea per tutti i mali della lunghissima stagione NBA, e non ha nemmeno questa ambizione. Si tratta più di un intermezzo colorato (parecchio colorato) per ciascuna squadra nel corso di una grigia e piatta traversata da 82 gare, alla quale seguono anche Play-In e Playoffs per le qualificate.
Gli incontri disputati, esclusa la finale, contano per il record della stagione regolare, perciò si parla di un vero e proprio ibrido che sulla carta dovrebbe avere ben poco di stimolante, fatta eccezione per un paio di fattori da non sottovalutare: un vantaggio economico ingente per chi arriva alle fasi finali; una, per quanto minima, iniezione di competitività.
Quanto alla prima questione, sono previsti premi in denaro molto appetibili – soprattutto per chi non è titolare di contratti gargantueschi: oltre $50mila a giocatore per chi esce ai quarti, il doppio per chi non supera la semifinale; quanto alla finale, $205mila ai perdenti e $515mila ai vincenti, sempre a testa.
Un bel bottino, che per forza di cose alimenta il punto due. Anche le squadre da tanking, soprattutto quelle che magari lasciano maggior spazio a rookie, sophomore e mestieranti vari che non hanno stipendioni, sono spinte a voler quantomeno raggiungere la fase finale per avere un bonus. In aggiunta, al di là di questo, del progetto che ha portato all’introduzione del torneo dovrebbe far parte anche lo spirito competitivo: basta vincere, non importa se, come e quando. Magari non è esattamente così per tutti, ma comunque si tratta di un buon banco di prova – soprattutto il formato a eliminazione diretta – per testare il livello competitivo del roster. E questa è la teoria. Ma nella pratica, cosa ci ha insegnato l’NBA Cup vinta dai Milwaukee Bucks?
NBA Cup: numeri e competitività
Mettendo da parte il colpo d’occhio, ci sono alcuni numeri interessanti riguardanti il rendimento delle squadre nel corso del torneo, figli probabilmente anche di un sample ridotto ma che meritano comunque di essere menzionati. Prendiamo l’offensive rating e il defensive rating, rispettivamente il rendimento di una squadra in attacco e in difesa proiettato su 100 possessi: l’offensive rating medio della Lega in regular season è di circa 112, il defensive rating di 113; quanto all’NBA Cup, le rispettive medie sono di 110.4 e 110.2. Le squadre dunque segnano e subiscono di meno. Possono sembrare differenze marginali, ma non è così.
Gli Atlanta Hawks, per esempio, sono usciti in semifinale con un offensive rating di 110.5 punti, valido per il 15esimo posto nella NBA Cup; con queste stesse cifre, sarebbero 24esimi in regular season. I Dallas Mavericks, anche loro usciti in semifinale, hanno chiuso la coppa con un defensive rating di 110.4, valido per il 16esimo posto; traslato sulla stagione regolare, sarebbero tranquillamente una difesa top-10. E questo a un livello generale.
Prendendo i campioni, i Milwaukee Bucks, lo switch è stato a dir poco impressionante sotto tutti i livelli: in stagione sono 11esimi in attacco e 13esimi in difesa, mentre in NBA Cup hanno chiuso 8° per rendimento offensivo e soprattutto 2° per rendimento difensivo. In finale hanno tenuto gli Oklahoma City Thunder, l’ottavo miglior attacco dell’intera Lega, a 81 punti segnati, nonostante in stagione non fossero mai scesi sotto i 99.
— . (@WowThatsUnreal) December 18, 2024
Vedere difese più intense e, di conseguenza, attacchi che vanno maggiormente in difficoltà non può che far bene al prodotto. In un periodo in cui si parla senza sosta, persino a sproposito, del calo dei rating televisivi della NBA negli Stati Uniti, le partite di Coppa hanno costituito in svariati casi un’eccezione. Le gare valide per i gironi, per esempio, hanno avuto il 7% in più di visualizzazioni su ESPN e TNT rispetto a quelle semplici di Regular Season, mentre un aumento chiave è il +6% nei broadcast locali.
Questo aspetto è importantissimo, dal momento che gli introiti della Lega non sono solo legati ai dati della tv generalista, anzi, a livello internazionale dipendono dai servizi streaming come il League Pass. L’accordo multi-miliardario firmato di recente prevede accordi anche con Apple TV e Amazon Prime, mentre le trasmissioni locali sono le più importanti in assoluto per le fanbase americane. Un prodotto appetibile, che stimola l’utenza a seguire le partite della propria squadra con più regolarità e maggior interesse, è un prodotto redditizio. Non è un caso che l’aumento dei rating coincida con l’aumento della qualità di gioco, e soprattutto che caricare una partita di un valore intrinseco che vada oltre la semplice vittoria o sconfitta su 82 gare inviti un pubblico più ampio a sintonizzarsi.
Una finale che “non conta” ma funziona
Particolarità della finale di NBA Cup è che, oltre a non essere calcolata nel record di squadra, non tiene conto delle statistiche individuali. Prima della finale, Giannis Antetokounmpo ha rilasciato queste dichiarazioni:
Dobbiamo portare a termine il lavoro. All’interno della squadra il sentimento è che non conta nulla, solo vincere. Le statistiche non contano, non aggiungono una vittoria o una sconfitta al nostro record. Non conta nulla. Quanti tiri, se fai 0-15, se fai 15-15, non importa. L’unica cosa che conta qui è vincere, e questo è il messaggio della nostra squadra in questo momento e tutti devono rimanere concentrati. Il lavoro non è finito”.
I vantaggi di una partita senza statistiche “valide”, ma necessaria per arrivare a un trofeo, è abbastanza evidente: non si ha nulla da perdere. I Thunder hanno messo a referto sole 5 triple, le stesse che di là ha segnato Damian Lillard da solo, su 32 tentativi, facemdo registrare il minimo stagionale di 81 punti. E nessuno comunque ne terrà conto, non avrebbe avuto valore nemmeno in caso di vittoria. In gioco c’è il puro spirito competitivo, la mente è vuota perché non importa la quantità di tiri sbagliati ma la qualità di quelli messi a referto, esattamente come ai Playoffs. Privare ogni conclusione di valore fa sì che ciascuna di esse sia importante.
Un formato da rivedere
Parlando di rendere competitiva l’atmosfera, forse una prima fase che si intrecci con la regular season non è abbastanza e lo stesso formato in sé non risulta troppo stimolante. La formazione randomica di 6 gruppi, con 2 wild card pescate per le fasi finali, non dà vita a una struttura troppo meritocratica e di conseguenza porta alla formazione di gironi meno competitivi di altri. Se l’intento generale è quello di aumentare il livello agonistico medio, perché non aumentare anche il valore di ogni singola partita?
Alla base del ragionamento c’è la premessa che le squadre NBA non vogliono aggiungere ulteriori gare alle 82 richieste nel corso della stagione, salvo eccezioni come la finale, dunque il torneo deve per forza di cose “ibridarsi” con la Regular Season. Quello che si potrebbe cambiare è il formato composto di gironi e fase a eliminazione diretta, creando un tabellone unico in pieno stile “March Madness” NCAA o, per i calciofili, simile alla Coppa Italia. Partendo da un primo periodo di svolgimento usuale della Regular Season, si prende la classifica generale e si crea un bracket di sfide a eliminazione diretta, con incroci basati sul record e senza tenere conto della Conference di appartenenza.
Visto che il numero di 30 squadre non si presta bene a un tabellone, la prima e la seconda “testa di serie” passano direttamente al round successivo. In termini di calendario, risulterebbe sicuramente problematico un incrocio tra Conference, ma si potrebbe benissimo inframezzare lo svolgimento della competizione a semplici gare stagionali, come si fa già adesso, per permettere alle squadre di spostarsi. In alternativa, lo stesso formato è comunque valido anche mantenendo la divisione del tabellone in due conference, con le due teste di serie sempre mandate direttamente al round successivo.
Questa è ovviamente solo una proposta, che tiene conto però della solita premessa: l’NBA ha un disperato bisogno di aumentare il livello della competizione in periodi morti di Regular Season, dove intere squadre viaggiano a velocità di crociera, passando sopra altre che hanno “interesse” addirittura a perdere per arrivare a scelte più alte al Draft l’anno seguente. Eliminare i gironi e creare una fase solo a eliminazione diretta basata sul record anziché su un ordine randomico ha inoltre una parvenza di meritocrazia e può aggiungere il fattore “upset”, che per esempio anima la NCAA e stimola ulteriormente i fan locali a seguire con attenzione ogni partita, dal momento che potrebbe essere l’ultima.
Abbasso Las Vegas
Un controcanto al celebre brano di Elvis Presley è assolutamente necessario. Immaginate i Bucks vincere un trofeo che già di per sé è bistrattato, giocare seriamente tutte le gare fino a dominarlo restando imbattuti, provare anche a celebrarlo e trovarsi immersi nel… silenzio.
Listen to that NBA Cup crowd pic.twitter.com/N5wOygf7wt
— New York Basketball (@NBA_NewYork) December 18, 2024
Inneggiare al tutto esaurito equivale a non riconoscere parte del problema, dal momento che l’assenza di “Big Market teams” ha portato i prezzi dei biglietti a crollare e di conseguenza ad attirare più gente. Anche evitando il cherry picking su alcune clip, è evidente come non ci sia nemmeno paragone rispetto a disputare partite a eliminazione diretta nei palazzetti locali, dove l’ambiente è tutto fuorché neutro.
Chi penserebbe di togliere Trae Young dal Madison Square Garden, privando il mondo di uno dei momenti più iconici non solo della competizione, ma di questa stagione finora? Chi penserebbe che sia meglio far giocare ai Thunder, che non hanno mai vinto un titolo nella loro storia, una finale lontano da Oklahoma City, nonostante il fattore campo? Il Paycom Center, l’arena casalinga di OKC, è soprannominata “Loud City” per un motivo, e tutti gli abbonati se la sono seguita da casa.
Far assaggiare pallacanestro a Vegas nell’ottica della creazione di una nuova squadra e di un’espansione ha senso, ma farlo con l’NBA Cup equivale a trasformare l’unica oasi di agonismo nel deserto della regular season a un prato artificiale nell’aridità del Mojave.
Il miglior duo della NBA Cup
Complimenti a Damian Lillard per le sue 5 triple e a Giannis Antetokounmpo per la tripla-doppia da 32 punti, 19 rimbalzi e 10 assist, oltre che per il premio di MVP. I loro 58.4 punti di media sommati ne fanno la miglior coppia della Lega in termini realizzativi, la terza migliore nella storia NBA, ma non sono loro il miglior duo consegnatoci dalla NBA Cup.
Darvin Ham e Taurean Prince sono i veri eroi della competizione, l’uno da allenatore (vice quest’anno) e l’altro da giocatore: due titoli vinti in due edizioni, l’uno partendo dalla conference occidentale (Los Angeles Lakers) l’altra da quella orientale, e soprattutto due run intere da imbattuti, per un record totale di 14-0. Un meme da citare necessariamente, che ha accompagnato la competizione per tutto l’arco del suo svolgimento, e che comunque nasconde un piccolo merito da attribuire a entrambi – ben 14 partite, tra cui sei gare a eliminazione diretta, non sono affatto poche, e nessuno dei due ha avuto un ruolo marginale.