La saga di Rocky è facilmente annoverabile tra le migliori produzioni cinematografiche sportive questo primo secolo e mezzo di cinema. La storia del boxer più famoso di Philadelphia, della Pennsylvania e del mondo del grande schermo è ben nota al pubblico e non sarà certo il sottoscritto a lanciarsi nel riassunto dell’intera saga in queste righe, salvo consigliarvene, nel caso in cui non lo aveste già fatto, una visione quanto prima. Tuttavia, come accennato, sono certo che almeno ognuno di noi abbia visto almeno una volta uno spezzone, letto un articolo o sentito una citazione legata a questa serie. La straordinaria complessità umana di Apollo Creed, la fredda e sadica figura di Ivan Drago, metafora assai calzante dell’URSS nella visione americana negli anni della Guerra Fredda, lo stoicismo di Rocky anche davanti ai momenti più difficili della sua carriera e la fatale epopea esistenziale della sua Adriana, la “grande donna che sta sempre dietro un grande uomo”: tutte cose con cui, chi più chi meno, abbiamo familiarità.
Ma poco al di là del fascio di luce dove risplendono i grandi temi dell’agonismo sportivo ai massimi livelli e di un amore tragicamente segnato da un destino infausto, lì sta un cono d’ombra dove si scorge la silhouette di Paulie Pennino, il più classico degli antieroi redenti dal tempo e dalle circostanze. Un po’ come il protagonista della cattiva strada di De André: una figura che racchiude lo spettro del sentire dell’uomo, spesso tendente a un anticonformismo cupo e malinconico, capace però di instillare speranza proprio quando tutto sembra già segnato. Nel caso di Paulie non ci sono però regine sui viali dietro la stazione, diciottenni alcolizzati o processi per amore. C’è piuttosto una quotidianità ingiusta, quasi frustrante nel fargli riemergere continuamente rimorsi sulla propria vita e su ciò che a suo modo di vedere avrebbe potuto essere ma non è stato. È il fratello maggiore di Adriana, ha una personalità rude ma quanto mai fragile e sfoga il proprio senso di incompiutezza nel rapporto con la sorella, con il cognato o con chiunque gli capiti a tiro. Ciononostante, con l’incedere del tempo il suo personaggio si mostra sempre più umano, più aperto al dialogo e alla collaborazione con Rocky e, pur non arrivando mai a levigare del tutto certi aspetti del suo carattere, sempre più consapevole della condizione umana.
La dicotomia tra Paulie Pennino e Burt Young
Uno degli aspetti più rilevanti della parabola esistenziale di Paulie all’interno della saga è il suo rapporto con il mondo dello sport. È un ambito con cui si ritrova, volente o nolente, a doversi confrontare quando entra in contatto con un giovane Rocky Balboa, che con lui condivide la bassa estrazione sociale ma non certo lo zelo e la disciplina nel modus agendi. Nei vari episodi della saga, lo sport rappresenta la più autentica metafora della vita di Pennino e dell’evoluzione del rapporto che instaura con il protagonista, con cui arriverà a condividere emotivamente i vari incontri nel corso degli anni. Ma come già accennato, per lo scorbutico Paulie il mondo dello sport può essere vissuto solo attraverso Rocky, solo per vie traverse, non certo praticato in prima persona. Vuoi la non più florida età, vuoi le sue problematiche caratteriali, vuoi la sua riluttanza quasi totale verso attività di questo tipo: non esattamente il prototipo di atleta ideale. Tutte affermazioni che però, uscendo dal mondo del grande schermo, ci fanno scappare un sorriso.
Se per Paulie lo sport non è niente più che un mero mezzo come un altro per poter fare dollari e acquisire notorietà, lo stesso non si può dire per Burt Young, il suo alter ego reale fuori dalle cineprese, colui che prima di intraprendere la carriera cinematografica ha vissuto eccome la boxe, di cui è stato un fedele alfiere durante la militanza nei marines. Prima di diventare Paulie Pennino nella saga di Rocky e Joe in Once upon a time in America, Burt ha infatti vissuto una prima parte di esistenza terrena ben diversa dal ruolo dell’uomo scorbutico e rude o del boss mafioso in una New York di primo Novecento. Così come per tanti altri suoi coetanei e connazionali dell’epoca, anche per Burt Young il sangue sarà per sempre diviso a metà tra gli States e l’Italia, essendo Michele e Giuseppina, i suoi genitori, due giovani immigrati italiani.
Il piccolo Gerald Tommaso DeLouise nasce a New York nell’aprile del 1940 e fin dagli anni della sua adolescenza mostra un saggio di quello spirito avventuriero che lo caratterizzerà per tutta la vita: in un primo tempo riesce a racimolare qualcosa pulendo tappeti e svolgendo altre attività occasionali nei vicoli della Grande Mela, per poi, dopo una trascurabile esperienza liceale, entrare nei marines a metà anni ’50. Aspetto, quest’ultimo, particolarmente curioso se relazionato alla carta d’identità del giovane Burt, all’epoca non ancora sedicenne, capace di aggirare le norme di ingresso tra le fila della marina statunitense mentendo sulla propria età. Sta di fatto che nei marines ci entra eccome e sarà proprio questo il momento in cui la sua carriera sportiva inizierà a spiccare il volo. Viene spedito in Giappone, sull’isola di Okinawa, teatro di un sanguinoso scontro le forze nipponiche e quelle statunitensi a fine Seconda guerra mondiale e patria mondiale del karate. Qui Burt ha modo di confrontarsi con il mondo della ferrea disciplina delle forze armate americane ma anche di entrare a contatto con uno degli sport maggiormente in rampa di lancio in quegli anni, la boxe.
Ed è proprio tra i ranghi della Marina che il giovane yankee riesce ad assimilare e pian piano perfezionare i vari aspetti della boxe militare. La sua esplosività muscolare e l’alta frequenza di colpi ne fanno presto un vero e proprio mito all’interno delle basi militari degli Usa a Okinawa. La sua permanenza nei marines dura appena due anni, dal 1957 al 1959, durante i quali riesce però a inanellare un incredibile 32-2 a proprio favore nei 34 incontri che lo vedono fronteggiare compagni di reggimento o avversari di altre basi militari. Così, una volta uscito dalle forze armate, decide di dedicarsi al pugilato amatoriale e di affidarsi a Cus D’Amato, stella polare della boxe statunitense del secolo scorso.
Paulie ubriaco, in perfetta contrapposizione alla professionalità del cognato Rocky Balboa
Nelle mani di Cus D’Amato
Anch’egli figlio di genitori italo-americani, Cus era figlio di una coppia barese che si era stabilita nel Bronx nei primi anni del Novecento. Lascia ben presto l’attività agonistica per potersi dedicare allo scouting di giovani talenti da lanciare nel mondo del pugilato. Nei primi anni ’50 scopre e lancia uno dei talenti più cristallini della storia di questo sport, Floyd Patterson. Con D’Amato al suo fianco, il pugile originario della Carolina del Nord otterrà 55 vittorie, di cui 40 per ko, con sole 8 sconfitte. Diventa, inoltre, più volte campione mondiale dei pesi massimi: nel 1956 conquista il primo titolo nel 1956 come vincitore più giovane di sempre nella storia di questa categoria a soli 21 anni, salvo poi essere scavalcato, esattamente trent’anni dopo, dall’altro grande figlio sportivo di Cus, Mike Tyson. Su Iron Mike c’è poco da dire: fatta salva la non proprio illuminata recente trovata di tornare sul ring per sfidare lo streamer Logan Paul, parliamo di uno dei giganti della boxe e dello sport per potenza, esplosività globale del corpo, fame agonistica e palmarès.
È con Cus al proprio fianco che Burt Young inizia la propria avventura nel pugilato amatoriale. Il modus operandi di D’Amato nei confronti dei propri assistiti, se contestualizzato con l’universo sportivo di ormai settant’anni fa, risulta essere un fattore chiave nelle prestazioni degli atleti. Il pugile non viene semplicemente sottoposto a una rigida preparazione fisica, il preparatore ne va a modellare e a rinforzare l’attitudine mentale da avere sul ring. D’Amato sostiene fermamente la tesi che un’ampia fetta di possibilità di vittoria per un pugile dipenda dalla sua tenuta psicologica nei vari momenti dell’incontro, ancor prima che dalla sua resistenza fisica e atletica. Concepisce le gare come una guerra psicologica, una partita di scacchi piuttosto che una mera lotta bruta tra due omoni di decine e decine di chili da trascinare di qua e di là sul quadrato. Se riesci a non perdere la trebisonda e a bilanciare mente e corpo, hai ottime possibilità di vittoria.
In parallelo, Cus si focalizza sull’insegnamento di tecniche e mosse di grande impatto per il mondo della boxe dell’epoca, come il celebre peek-a-boo. Si tratta di una tecnica difensiva che consiste nel creare una sorta di barriera tra se ed il proprio avversario, utile soprattutto nei momenti in cui è richiesta una maggior resilienza sotto la pioggia di colpi dell’avversario. Le mani, chiuse a pugno, si posizionano davanti al viso ed i gomiti sono tenuti stretti per evitare colpi avversari all’addome o al petto. Attraverso un contemporaneo e costante movimento della testa e del corpo, è così possibile evitare numerosi attacchi avversari ed essere reattivi nel guadagnare decimi di secondo utili per il contrattacco. Questa tecnica, sublimata e nobilitata da Tyson nelle sue serate più ispirate, ha contraddistinto la carriera di D’Amato e ha fatto la fortuna di tanti suoi allievi brevilinei e rapidi come Iron Mike e Burt. Grazie ai metodi di Cus, Young ottiene ben presto il grado di pugile professionista e incontro dopo incontro diventa il nuovo fiore all’occhiello della scuderia di D’Amato. Disputa 17 match, non ne perde nemmeno uno e sembra dunque pronto a prendere l’ascensore per raggiungere i piani alti della storia del pugilato. Ma qualcosa si inceppa e quel salto Burt non lo farà mai.
Ritiro dal pugilato e cinema
Ha combattuto contro alcuni dei più grandi colleghi della sua epoca, è stato lo sparring partner del leggendario boxer canadese George Chuvalo, ha il miglior coach di pugilato al mondo al suo fianco: niente da fare, abbandona. Per alcuni si tratta di una questione mentale, una sorta di mancanza di fame di ulteriori successi dovuta anche e soprattutto alla sua attitudine verso la boxe, che rappresenta tanto nella sua vita, ma non è tutta la sua vita. Per altri, invece, questa decisione è riconducibile a fattori tecnici e fisici: negli ultimi tempi gli avversari hanno iniziato a prendergli le misure e nonostante la tecnica di base più che discreta e l’eclettismo sul ring, Young si rende conto che è arrivato il momento di appendere i guantoni al chiodo.
Una verità oggettiva sulla questione non ci è dato conoscerla, ma come spesso accade in occasioni di questo genere, c’è per Burt la possibilità di un’ultima grande esibizione. È un match di beneficenza e la sola presenza scenica degli sfidanti prevale su una carica agonistica ridotta all’osso. Ma la gara passa comunque alla storia perché, oltre a Burt, sul ring c’è il più grande di tutti, Cassius Marcellus Clay Jr., altrimenti noto come Muhammad Ali, uno dei personaggi più incredibili del XX secolo. I due stringeranno un legame d’amicizia anche al di fuori del mondo dello sport, probabilmente accomunati da quel senso di resilienza che, seppur applicato in ambiti differenti, li ha da sempre contraddistinti. Ma intanto Young ha già abbandonato il pugilato ed è pronto a dedicarsi all’altro grande amore della sua vita professionale: il cinema. Dopo aver frequentato l’Actors Studio ed aver identificato in Lee Strasberg il proprio Cus D’Amato della recitazione, viene ingaggiato per alcune pellicole nei primi anni ’70 e, oltre che per Rocky e Once upon a time in America, lo ricordiamo anche per il suo debutto a Broadway con Robert De Niro nel 1986 e per i ruoli interpretati in film più recenti come Excessive Force di Jon Hess e Transamerica di Duncan Tucker.
A poco più di un anno dalla sua scomparsa, vogliamo ricordarlo come un uomo realmente capace di vivere due vite e di immedesimarsi magistralmente in un alter ego agli antipodi rispetto alla propria persona degli anni precedenti, consegnandoci uno dei più affascinanti personaggi della storia del cinema sportivo.
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