Il Brasile del ’70 era suo, ma João Saldanha lo guardò in tv

João Saldanha ha avuto una vita molto intensa che lo avrebbe potuto portare a vincere i Mondiali del 1970 con il Brasile.

Sembra impossibile in un’epoca storica come la nostra, nella quale il dibattito sportivo vede due schieramenti – allenatori contro giornalisti e opinionisti – sempre pronti a fronteggiarsi e stuzzicarsi su posizioni ideologiche e quasi filosofiche con toni spesso crudi. Eppure c’è stato un momento in cui non solo la divisione non era così netta ma era possibile trovare delle commistioni, tanto che un giornalista ha rischiato addirittura di diventare campione del mondo. È la curiosa storia, non solo calcistica, con protagonista il brasiliano João Saldanha.

 

João Saldanha, dal calcio allo studio passando per la politica

João Saldanha nasce il 3 luglio 1917 ad Alegrete, una cittadina dello stato del Rio Grande do Sul. Inquadrare Saldanha in un ruolo definito è un esercizio di stile piuttosto inutile, perché parliamo di un personaggio poliedrico e dalle mille sfaccettature. Già dall’infanzia si trova costretto a fronteggiare evidenti difficoltà sociali ma, a differenza di altri personaggi di spicco dello sport brasiliano, ciò non è causato dalla profonda povertà della sua famiglia. Anzi, tutt’altro: il padre Gaspar è un ricco esponente dei Maragatos, fazione impegnata nella rivoluzione del Rio Grande do Sul. E per questo, ad appena sei anni, il suo profilo insospettabile viene sfruttato dal padre per rifornire le gang locali di armi, nascoste sotto gli abiti per far sì che non fossero visibili ai controlli. Un compito svolto talmente bene che il padre se ne sarebbe nuovamente servito per altri traffici illeciti con il confinante Uruguay.

Uno scenario che ovviamente non può essere sufficiente per le ambizioni e le possibilità del ragazzo. Come detto, viene da una famiglia benestante e lui stesso non ha certo intenzione di essere da meno, vuole costruirsi un domani e trovare la propria strada. Che più che una strada è un incrocio, perché le vie che Saldanha decide di percorrere sono molteplici e tutte radicalmente diverse tra di loro già da quando appena 14enne, si trasferisce a Rio de Janeiro. Una città dalle mille distrazioni che, per un ragazzo ambizioso e intelligente come il giovane João, si trasformano rapidamente in opportunità. E così il ragazzo studia ma si diletta sulle spiagge e sui campetti grazie a un pallone.

Che tipo di pallone e quale parte del corpo usare per addomesticarlo è indifferente, perché il ragazzo ha talento sia nel basket, che nel calcio. Una voglia di emergere che gli vale il soprannome di João sem medo (João senza paura). Alla fine a spuntarla è il calcio, grazie al quale questo giovane ragazzo volenteroso riesce a strappare una chiamata dalle giovanili del Botafogo.

Per intenderci, il nostro racconto finirebbe piuttosto presto se si limitasse alla carriera da calciatore di Saldanha: poca gloria con il Fogão, limitandosi quasi solo alle giovanili. Ma anche una conoscenza enciclopedica del calcio – sia a livello tattico che di almanacchi ed episodi storici – e una tendenza innata alle relazioni sociali, frutto di una spiccata dialettica che si pensa possa diventare, in quell’incrocio di cui abbiamo parlato, la strada giusta per il suo avvenire. In parte aiuta anche nel calcio, perché grazie alla sua conoscenza di vecchi compagni e dirigenti del Botafogo riesce a fare da intermediario per la chiusura di qualche acquisto, come quello del suo ex compagno e cavallo di ritorno Heleno de Freitas reduce dall’avventura nelle giovanili del Fluminense.

Ma, soprattutto, viene sfruttata al di fuori del mondo del pallone. Perché João studia da avvocato e la sua assertività gli apre numerose porte anche in politica: il ragazzo non fa mistero delle sue idee, che vanno ben oltre la simpatia per il comunismo, cosicché diventa leader studentesco del Partito Comunista brasiliano, in cui sarà militante per tutta la vita. Sembra tutto pronto, ma ecco un’altra deviazione: bravo con le parole e ragazzo di cultura fuori dalla norma, negli anni ’40 decide di lasciare il Brasile e prendere un aereo per il Vecchio Continente per cimentarsi nel giornalismo.

 

Un giornalista in panchina

L’avventura in Europa di Saldanha è perfetta per descrivere un personaggio un po’ naif, perché si inserisce in un’epoca in cui prove e archivi scarseggiano e la mitologia del racconto si intreccia con un po’ di sana mitomania. D’altronde gli anni ’40 in Europa sono, per tristi motivi di facile deduzione, piuttosto pieni di contenuti che permettano a un giovane giornalista di farsi le ossa.

E così Saldanha dirà di aver fatto esperienza raccontando eventi cardine della Seconda guerra mondiale, tanto da aver partecipato come cronista e corrispondente allo Sbarco in Normandia e all’inizio della guerra di Corea, nonché – ma queste sono circostanze che appaiono poco credibili per questioni temporali – alla Lunga Marcia dell’Armata Rossa di Mao Tse-tung e ai Mondiali di calcio del 1938, due eventi arrivati prima della sua partenza per l’Europa e in un’età in cui il ragazzo era ancora troppo giovane (si pensi che la Lunga Marcia iniziò nel 1934, quando Saldanha era appena 17enne).

Una strada, quella da giornalista, che si affianca con le altre mille sfaccettature del pensiero e della professionalità di un uomo che trova il tempo, tra le altre cose, di iniziare il proprio praticantato presso uno studio notarile di Rio per far fruttare la laurea conseguita al termine di un cammino accademico di prim’ordine. L’attività professionale si unisce, come ai tempi dell’università, a quella da politico in erba, tanto che il PCB (il Partito Comunista Brasiliano) individua João come l’uomo giusto per provare a negoziare le posizioni tra i contadini del Paranà e i temibili jaguncos – mercenari al soldo dei proprietari terrieri – nella cittadina di Porecatu.

Un attivismo politico che lo spinge sempre più a considerare di tornare a prendere fissa dimora, anche lavorativamente, nel suo Brasile. E l’occasione si sposa perfettamente con il momento storico e le caratteristiche individuali di Saldanha: nel 1950 lo Stato sudamericano è destinato a diventare l’ombelico del mondo grazie al calcio. Il 1950 infatti è l’anno dei Mondiali organizzati dal Brasile e quella conoscenza enciclopedica dello sport spinge João sem medo a concentrare le sue forze sulla cronaca sportiva. È l’inizio della controversa storia tra Saldanha e i Mondiali, che affonda le radici in uno degli eventi più noti del panorama calcistico dell’epoca, il Maracanazo: il cronista è allo stadio per raccontare un evento tragico, sportivamente e non solo, stante l’elevato numero di decessi fatti registrare sul posto e in tutto il Paese, così abbattuto da rasentare il lutto. A dramma consumato Saldanha prende posizione contro allenatore e calciatori.

Lo fa con critiche dure ma non fini a se stesse. Sono invettive circostanziate, che denotano la grande preparazione, ben al di sopra degli standard della categoria, e saranno il suo marchio di fabbrica e al tempo stesso il pass per una nuova carriera. Perché, come detto, in casa Botafogo sono in molti a ricordarsi di lui come calciatore e uomo e ad aver usufruito dei suoi buoni uffici in borghese. Tant’è che Carlito Rocha, in passato presidente del Fogão e ancora uomo stimato in società, fa il suo nome. E nel 1957, João Saldanha imbocca un’altra via e diventa il nuovo allenatore del Botafogo.

Un’esperienza breve ma piena di soddisfazioni. Perché O Glorioso sta vivendo un’epoca buia, a dispetto del suo soprannome, con appena un successo nel Campeonato Carioca negli ultimi 22 anni. Un digiuno che mal si rapporta con la qualità di una rosa assolutamente di prim’ordine, trascinata dal talento di Nílton Santos, Quarentinha, Paulo Valentim, Didi e soprattutto Garrincha. E al primo anno sotto la guida di Saldanha arriva subito il bersaglio grosso, con la Estrela Solitária che si assicura per la decima volta nella sua storia il Campeonato Carioca. Un successo di grande risonanza per l’epoca, dato che il Brasileirão non esisteva ancora – la prima edizione è del 1959 – e il titolo regionale era il massimo alloro possibile per un club brasiliano.

A dare ulteriore risalto al successo arriva anche il Mondiale del 1958, primo storico successo della Seleçao per riscattare l’onta di otto anni prima e con tre giocatori del Botafogo nel motore (i già citati Nílton Santos, Didi e Garrincha). Ma all’epoca dei fatti, l’esperienza di Saldanha come tecnico del club sta già volgendo al brutto: come da giornalista, anche da allenatore João si rivela senza alcuna paura, soprattutto nel dire ciò che pensa. Una circostanza che mal si sposa con la diplomazia richiesta nei rapporti con squadra e dirigenza, che piano piano si deteriorano fin quando, nel 1959, è lo stesso tecnico a dimettersi a causa della cessione di Paulo Valentim e di Didi, ritenuti pezzi essenziali del puzzle della sua squadra.

E così nel 1959 termina l’esperienza da allenatore di João Saldanha, che torna a occuparsi di cronaca sportiva. Ma non smette di essere protagonista delle vicende che riguardano il Botafogo, come nel caso di un curioso aneddoto che riguarda una sfida, da lui commentata, tra O Glorioso e il Bangu, decisiva per il campionato carioca. È il 1967 e il favorito ex club di Saldanha si impone per 2-1 ma qualcosa non va giù a João sem medo, che in diretta accusa il portiere neo-campione Manga, a suo dire reo di aver accettato mazzette da “quel mafioso di Castor de Andrade”, presidente del Bangu e molto chiacchierato per le ingerenze malavitose. Il presidente avversario fa immediatamente irruzione in sala stampa in diretta assieme ad alcuni suoi uomini, costringendo all’interruzione delle riprese in quanto lo stesso Saldanha inizia a lanciare oggetti e microfoni agli avventori per difendersi da eventuali assalti.

A fine partita Manga replica alle accuse, stuzzicando il cronista e invitandolo alla festa per il titolo, che si sarebbe tenuta l’indomani, per vedere se avrebbe avuto il coraggio di ripetere le accuse millantate in diretta. Invito che Saldanha prende alla lettera e il giorno seguente, alla festa del Botafogo, si presenta innanzi a Manga con una pistola, dapprima minacciando il portiere di “sistemare le cose”, quindi facendo partire un colpo, che non finisce per ferire il portiere solo grazie all’intervento di un altro tesserato del Botafogo. Tra un giudizio caustico e una bislacca disavventura, la carriera da cronista di João Saldanha sembra destinata a non subire altri scossoni. Finché un giorno non piove dal cielo una chance inattesa.

Saldanha racconta l’aneddoto con Manga

 

L’intuizione di Havelange

Descrivere João Havelange richiederebbe uno sforzo e un articolo a parte, trattandosi di un pioniere dello sport e uno dei volti principali dell’establishment sportivo del ventesimo secolo. Figlio di un cittadino belga tra i fondatori dello Standard Liegi, nonché commerciante d’armi una volta trasferitosi in Brasile, Jean-Marie Faustin Goedefroid de Havelange non solo ha vinto un campionato carioca giovanile con il Fluminense, ma ha partecipato alle Olimpiadi in due sport differenti e con molti anni di distanza: come nuotatore a Berlino nel 1936 e come pallanuotista a Helsinki nel 1952.

Terminata la sua avventura agonistica, è divenuto dapprima vicepresidente della CBD (Confederação Brasileira de Desportos), quindi, nel 1958, presidente della CBF (Confederação Brasileira de Futebol), ossia la federcalcio brasiliana. Un ruolo che ha rivestito sino al 1975, quando è divenuto presidente della FIFA fino al 1998. Il suo regno da presidente federale è estremamente proficuo, con due Mondiali consecutivi vinti nel 1958 e 1962, senza dimenticare l’affermazione di una stella di portata mondiale come Pelé.

Ma nel calcio, si sa, la gratitudine è merce rara e così la Seleçao e Havelange finiscono rapidamente nell’occhio del ciclone. Il motivo è la fallimentare spedizione mondiale del 1966, nella quale i verdeoro, dopo l’esordio vincente contro la Bulgaria, vengono sconfitti dall’Ungheria e dal Portogallo, ottenendo una precoce e inattesa eliminazione ai gironi. La scelta contestata al presidente federale è quella di aver rimpiazzato il ct campione del mondo del 1962 Aymoré Moreira con Vicente Feola, cavallo di ritorno in quanto a sua volta campione iridato nel 1958. Una scelta dettata, appunto, dalla gratitudine e che non ha pagato, cosicché Feola viene bersagliato dalle critiche, così come il suo successore designato, l’allenatore dell’Atlético Mineiro Dorival Knipel, meglio noto come Yustrich.

Per questo motivo, Havelange decide di cercare un nuovo ct per la Nazionale al fine di preparare al meglio il Mondiale messicano del 1970. Ed è costretto a farlo in prima persona, dal momento che lo storico capo delegazione della Seleçao Paulo Machado de Carvalho, soprannominato Marechal da Vitória (“il maresciallo della vittoria”) per aver tirato i fili della selezione nei due Mondiali vinti, nel 1968 decide di chiamarsi fuori, stanco delle intromissioni politiche e governative di cui si parlerà anche in seguito.

La data scelta per l’annuncio è quella del 4 febbraio 1969, presso la sede della CBD. Una data cerchiata in rosso dalla stampa nazionale, che da tempo bersaglia il lavoro della federazione. I giornalisti sono pronti a gettarsi come leoni affamati sul malcapitato nuovo ct. Tra le testate presenti non manca l’accredito per Ultima Hora, una rivista brasiliana che invia due dipendenti: un fotografo e João Saldanha, in qualità di cronista. Si dice che all’ingresso, non è chiaro se in maniera beffarda o per reale curiosità, Saldanha avesse chiesto al fotografo se sapesse già il nome del nuovo ct, ricevendo una risposta negativa. Quando Havelange prende la parola, l’annuncio sorprende tutti: ad allenare la Seleçao sarà João Saldanha.

Non è chiaro se il neo-ct fosse già a conoscenza dell’annuncio, cosa piuttosto probabile visto lo svolgersi degli eventi. Sta di fatto che, appena sentito il proprio nome, Saldanha lascia la platea occupata dai colleghi e si posiziona dietro il banco federale. Si siede e, preso un foglietto dalla tasca, lo apre e pronuncia le seguenti parole:

Gli undici titolari saranno i seguenti: Félix, Carlos Alberto, Brito, Djalma Dias, Rildo; Piazza, Dirceu Lopes, Gérson; Jairzinho, Pelè, Tostão.

Una stranezza, considerando che manca ancora un anno e mezzo al Mondiale. Non pago, Saldanha snocciola le undici riserve per completare la lista dei 22, quindi con il suo consueto fascino comunicativo inizia ad arringare squadra e ambiente, rintuzzando con disinvoltura le domande di quelli che fino a cinque minuti prima erano i suoi colleghi:

Questa è la lista, chi non è d’accordo resti pure a casa. Voglio vedere una squadra grintosa, voglio undici bestie. Devono essere più di undici leoni, ormai Walt Disney ha distorto l’immagine dei leoni. […] Scegliere Pelé o Tostão? E perché mai? Qual è il problema? Sono forti, giocheranno insieme.

La scelta di Havelange è motivata dal fatto che, dopo un biennio di aspre critiche, i giornalisti avrebbero potuto mostrare maggior clemenza se il ct fosse stato uno di loro. Un’idea folle ma geniale, un coup de théâtre che dà il via al regno di João Saldanha quale allenatore della Nazionale brasiliana.

 

Il cammino del Brasile di Saldanha

L’avventura del neotecnico inizia ad aprile, con due amichevoli a distanza di due giorni contro il Perù. Le onze feras – undici bestie, come verranno soprannominati i suoi giocatori facendo tesoro della frase nella conferenza stampa di presentazione – si dimostrano subito tali quando Gérson, giocatore notoriamente avvezzo al fioretto, decide di tirare fuori la clava e in un contrasto causa un grave infortunio a Orlando de la Torre. Alla frattura della tibia del peruviano segue una maxirissa, sedata dall’intervento di Havelange, che porta a una lunga sospensione dell’incontro. Per gli almanacchi, le due sfide si concludono con due successi dei verdeoro. Di tutt’altro prestigio la terza amichevole, disputata a Rio contro l’Inghilterra: sotto di un gol e con un errore di Carlos Alberto dal dischetto da dover riscattare, la Seleçao riesce nel finale a trovare i due gol decisivi per la rimonta grazie a Tostão e Jairzinho.

Ma è soprattutto il cammino nelle qualificazioni mondiali a impressionare, non solo per i risultati ma per la qualità: nel girone con Colombia, Venezuela e Paraguay, il Brasile ottiene 6 vittorie in 6 partite, con 23 gol fatti e solo 2 subiti. Il tutto con una manovra a dir poco spettacolare grazie ai cosiddetti cinco dez (i “cinque dieci”), ossia i cinque fuoriclasse Pelé, Tostão, Jairzinho, Dirceu Lopes e Gérson, che nei rispettivi club indossano tutti la prestigiosa numero 10. E i risultati si vedono: i dubbi sulla coesistenza tra Pelé e Tostão vengono prontamente spazzati via, dal momento che O Rei chiude il girone di qualificazione con 6 gol all’attivo e Tostão addirittura con 10.

E se è vero che dopo le qualificazioni la Seleçao conosce la prima sconfitta in amichevole contro l’Argentina, prontamente riscattata due giorni dopo, è altrettanto vero che nel cielo sopra Rio non paiono scorgersi nubi in vista del Mondiale del 1970. La squadra gira e i suoi componenti amano il loro nuovo tecnico, così schietto ma al tempo stesso saggio. A differenza del periodo al Botafogo, non ci sono contrasti, tutto sembra procedere per il meglio. Eppure l’idillio con Saldanha sarà spezzato da ingerenze esterne.

 

I contrasti con il presidente Médici

Dadà Maravilha è un attaccante classe 1943. È la classica punta da area di rigore, potente ma poco mobile, che compensa con il fisico e una certa dote di opportunismo e fiuto del gol i limiti atletici. Di lui si dice che abbia segnato quasi 1000 gol in carriera, una cifra superata solo da tre calciatori nella storia del Brasile: Romário, Pelé e Arthur Freidenreich. Quest’ultimo ha fatto vacillare la credibilità delle fonti dell’epoca, con numeri che parlano di oltre 1.300 gol in carriera. Anche per Dadà Maravilha – come per Pelé, d’altronde – il dubbio permane, sebbene sia indiscutibile che fosse un bomber di razza.

Ma perché ne parliamo? Dadà Maravilha non fa parte della Nazionale brasiliana di João Saldanha, il suo tipo di gioco non riflette il credo del ct e si rapporterebbe piuttosto male col calcio bailado prodotto dai cinco dez. Eppure dovrebbe farne parte. O almeno, questo è il diktat dall’alto. Perché Dadà Maravilha sta facendo le fortune dell’Atlético Mineiro, un club che vanta tra i propri tifosi anche un profilo tutt’altro che banale. Il Galo è infatti la squadra preferita del generale Emílio Garrastazu Médici, Presidente della Repubblica del Brasile a partire dal 1969. Anzi, presidente è un termine che appare piuttosto generoso, Médici è, di fatto, il dittatore che regge il potere nel Paese, imponendo un clima di terrore e repressione delle libertà fondamentali, comprese quelle di informazione e di espressione politica.

Médici ha idee e metodi di natura fascista anche nei rapporti con l’opposizione, dal momento che molti degli oppositori del suo governo – ormai trasformato in regime – vengono deliberatamente eliminati con le cattive, in un connubio di violenza e rapimenti. È assolutamente evidente che un fervente attivista comunista come Saldanha non sia esattamente ben visto dal governo. E visto che stiamo parlando di un Paese in cui il calcio somiglia più a una religione che a un passatempo, per la gente la Seleçao conta quasi più del governo stesso, ragion per cui non è azzardato sostenere che il rispetto di cui vanta Saldanha sia superiore a quello di un qualsiasi governante, figuriamoci di un tiranno.

Il ct diventa rapidamente nemico di un governo che inizia a diffondere false notizie su di lui, sostenendo trattarsi di un beone e un montato, nonché un serio pericolo per lo spogliatoio per la sua tendenza a proteggere i calciatori responsabili di uscite notturne in locali di malaffare, tra gioco d’azzardo e prostitute. Saldanha, uno che generalmente fatica molto a tenere a freno la propria lingua, riesce a resistere alla tentazione di replicare a queste infamanti e infondate accuse, finché l’assist arriva proprio dalla stampa. Dopo le voci fatte giungere al ct, Médici decide di uscire allo scoperto con la candidatura di Dadà Maravilha.

Dario è un giocatore straordinario. Non possiamo andare in Messico senza di lui.

Una presa di posizione netta e un monito chiaro per Saldanha, a questo punto teoricamente chiamato a non contraddire il temuto despota. O almeno, così sarebbe per molti, non certo per João sem medo, che ancora una volta mostra al mondo il suo coraggio e il suo linguaggio ficcante e al tempo stesso seducente, con cui manda stilettate travestite da slanci di ironia:

Non ricordo che il presidente mi abbia interpellato quando doveva scegliere i ministri. Può tornare tranquillamente a governare il Paese, alle cose serie ci penserò io.

Un affronto che comporta pressioni sulla federazione, cui Havelange non vuole cedere. Ma, lo abbiamo detto, in Brasile il calcio è più importante di tutto e, come da proverbio, se ci si può permettere di scherzare coi fanti – nel caso di specie il presidente Médici – occorre tuttavia lasciare stare i santi. E il santo che Saldanha va a toccare non è uno qualunque, è Pelé. Che ormai è vicino ai 30 anni, un’età che all’epoca era tutt’altro che verde per un calciatore, ma rimane il più forte al mondo. Saldanha però stavolta esagera: Pelé avrebbe un problema di vista e secondo il ct la sua convocazione non sarebbe più scontata.

Il suo staff prova a riportarlo a più miti consigli ma anziché ascoltarli litiga con loro e inizia ad allontanarli. Così il 17 marzo 1970, poco più di un anno dopo la sua clamorosa assunzione come ct, Havelange decide di risolvere ogni problema ed esonera Saldanha. E si sa, la storia viene scritta dai vincitori. Negli almanacchi figurerà Mario Zagallo, che come primo atto deciderà di sacrificare Dirceu Lopes – uno dei cinco dez – per convocare Dadà Maravilha, che tuttavia non giocherà neanche un minuto in Messico. 8 di quegli 11 titolari elencati da Saldanha nella prima clamorosa conferenza stampa scenderanno in campo all’Azteca contro l’Italia, nella finale del Mondiale che la Seleçao vincerà 4-1. Gli altri tre – Everaldo, Clodoaldo e Rivelino – facevano parte delle undici riserve dichiarate poco dopo.

Vent’anni dopo la tragedia del Maracanà, il Brasile tornerà a festeggiare ma per Saldanha ci sarà un velo di amarezza, la seconda puntata di un rapporto burrascoso coi Mondiali. Gli almanacchi raccontano della prima Nazionale a vincere tre Coppe Rimet, tanto da diventarne proprietaria e dare il via all’era della nuova Coppa del Mondo, nonché di Zagallo come primo nella storia a diventare Campione del Mondo sia come calciatore che come allenatore. Ma quel meraviglioso Brasile, probabilmente il migliore di tutti i tempi, è in gran parte merito di Saldanha.

Lo spettacolare Brasile del 1970

 

L’ultima volta di João Saldanha ai Mondiali

Quella da ct rimane l’ultima avventura di João Saldanha su una panchina di calcio. La scelta è quella di tornare in pianta stabile a fare ciò in cui sa distinguersi senza timore di intromissioni, ovvero il giornalista, con una penna sempre affilata e dispensando perle di saggezza miste a vere e proprie stoccate. Negli anni ’80 si distingue come il portavoce della critica all’eccessiva europeizzazione tattica del calcio brasiliano, in quanto, a suo dire, “il calcio si gioca con la musica”, sottolineando la bellezza del calcio bailado, forse spregiudicato ma più spettacolare e vivo. Nel 1985 viene anche nominato vicesindaco di Rio de Janeiro ma ciò non gli impedisce di continuare nella propria carriera da giornalista.

Ormai indebolito dall’età e anche dall’abuso di sigarette, a 73 anni, altri vent’anni dopo quel Mondiale vinto da altri sfruttando il suo lavoro, viene inviato come cronista in Italia per seguire quelle che per noi sarebbero diventate famose come Notti Magiche. Non ne uscirà più: un enfisema polmonare lo costringe a un ricovero ospedaliero che sarà l’ultimo atto di un rapporto conflittuale con la massima competizione calcistica, a prescindere dall’incarico rivestito. Il 12 luglio 1990 muore una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo sudamericano, talmente stimata da aver sfiorato di diventare campione del mondo.

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