Quando Berlusconi voleva Dan Peterson allenatore del Milan

Dan Peterson Milan - Puntero

Nonostante il fatto che anche il diretto interessato l’abbia raccontato più volte, non molti sono a conoscenza del fatto che, quasi quarant’anni fa, la storia del calcio avrebbe potuto essere diversa. Quasi quarant’anni fa infatti il Milan stava per affidare la panchina ad un tecnico vincente… ma proveniente da un altro sport. A guidare i rossoneri poteva infatti finire nientemeno che il mitico Dan Peterson. Mitico perché, già allenatore vincente nel basket nostrano (al termine della sua carriera Peterson potrà annoverare nella sua personalissima bacheca 5 titoli italiani, 3 Coppe Italia, una Coppa Campioni e una Coppa Korać), l’allora cinquantunenne statunitense di Evanston, Illinois è ricordato da più di una generazione per le sue molteplici attività: coach di basket, giornalista, telecronista di wrestling, presentatore.

 

Il flop del primo Milan di Berlusconi e la pazza idea

Proprio in quest’ultima veste, il 16 marzo 1987, Peterson si trovava a condurre gli Oscar dello sport, trasmissione di Canale 5. Durante la serata Adriano Galliani (amministratore delegato del Milan) e Bruno Bogarelli (responsabile dello sport dell’emittente meneghina) avvicinarono Dan per sondarne la disponibilità a sostituire Nils Liedholm sulla tolda di comando della compagine rossonera. Qualche settimana prima, il 10 febbraio, il club aveva festeggiato il primo anno di presidenza di Silvio Berlusconi. Il popolare imprenditore (e non ancora uomo politico), conosciuto per aver sfidato il monopolio Rai nell’emittenza televisiva, aveva infatti comprato il Milan, salvandolo dal fallimento. Quello fu l’inizio di un’avventura che sarebbe terminata soltanto trentuno anni e ventinove trofei dopo.

Il primo Milan costruito da Berlusconi fu dunque quello che affrontò il campionato 1986-87. Il nuovo proprietario irruppe in modo fragoroso nel mondo del calcio, organizzando già nell’estate del 1986 – quella segnata dai Mondiali messicani che videro trionfare l’Argentina di Diego Maradona – una campagna acquisti faraonica, che portò a Milanello i vari Giovanni Galli, Dario Bonetti, Roberto Donadoni, Stefano Borgonovo, Giuseppe Galderisi e Daniele Massaro.

A guidare la squadra, come detto, c’era il Barone Liedholm, alla sua terza avventura come tecnico dei rossoneri. Lo svedese era un’eredità della gestione precedente, essendo tornato al Milan nel 1984. Berlusconi decise di confermare l’ex gloria del club. Nonostante la trionfale presentazione della squadra, con la famosa discesa dei giocatori dagli elicotteri all’Arena Civica di Milano, la stagione di quel primo Milan berlusconiano fu alquanto difficile. Lo si vide fin da subito, alla prima giornata di campionato, quando a San Siro l’Ascoli si impose grazie ad una rete di Massimo Barbuti.

Nonostante questo stop imprevisto (al quale si aggiunse subito un’altra sconfitta, contro il Verona, la settimana successiva) il Milan riuscì a riprendersi, arrivando ad insidiare da vicino quel Napoli che poi avrebbe conquistato a fine stagione il primo tricolore della sua storia. In seguito però gli entusiasmi si smorzarono perché i rossoneri incapparono in una serie negativa che finì per allontanarli dai vertici della classifica. Così, a marzo del 1987, la panchina di Liedholm cominciò a non essere più tanto solida. Quel 16 marzo, un lunedì, il Milan era reduce dalla sconfitta patita sul campo del Brescia. Un 1-0 targato Tullio Gritti.

 

Dan Peterson e la fedeltà all’Olimpia Milano

Così arriviamo alla “proposta indecente” della dirigenza del club a Dan Peterson. Una proposta difficile da rifiutare, ma che l’americano in qualche modo declinò. Peterson era infatti impegnato alla guida dell’Olimpia Milano (allora Tracer), che da lì a poco avrebbe condotto ad un triplete cestistico: Coppa Italia, scudetto e Coppa Campioni. Quello fu anche l’anno della famosa rimonta della Tracer sull’Aris Salonicco in Europa. All’andata i greci si imposero di ben 31 punti (67-98) grazie ad uno strepitoso Nikos Galīs (44 punti messi a referto). Al ritorno, il 6 novembre a Milano, la squadra di Peterson riuscì a completare una rimonta da leggenda, infliggendo agli avversari 34 punti di scarto (83-49) e finendo così per ribaltare una situazione disperata. Probabilmente fu anche quell’impresa a convincere Berlusconi a dare un mandato esplorativo a Galliani e Bogarelli per sondare la disponibilità di Peterson.

Il tergiversare del coach, che non voleva lasciare a metà il lavoro con l’Olimpia, finì per far dirottare la scelta del Milan su Arrigo Sacchi. Fu infatti il rampante allenatore del Parma, due volte vittorioso sul Milan in Coppa Italia in quella stagione, a colpire l’immaginario di Berlusconi grazie al gioco scintillante e innovativo che aveva portato il vate di Fusignano dai dilettanti fino alla panca dei ducali (da lui brillantemente condotti dalla C alla B). Il resto, come si suol dire, è storia.

E Liedholm? Non contenti dei risultati del Barone, i dirigenti rossoneri avrebbero poi proceduto a un avvicendamento, promuovendo al posto dello svedese il tecnico della Primavera, un Fabio Capello alle prime armi ma in grado comunque di centrare la qualificazione alla coppa Uefa grazie al vittorioso spareggio che vide il Milan sconfiggere la Sampdoria di Gianluca Vialli e Roberto Mancini.

 

Una strada percorribile?

Al di là di come sono andate le cose – e di come sarebbero potute andare – quello che è interessante è l’idea che ebbe Berlusconi, così come le domande su come Peterson si sarebbe organizzato per passare dal parquet del campo da basket all’erba di quello da calcio. Il coach statunitense avrebbe infatti fatto affidamento sull’amico Massimo Giacomini. Friulano di Udine, Giacomini, oltre ad essere amico di Peterson, è stato anche un discreto allenatore, avendo guidato in carriera anche lo stesso Milan. Un Milan molto diverso da quello di Berlusconi, declassato in Serie B per lo scandalo del calcioscommesse del 1980. Giacomini fu l’artefice del ritorno in A del club al termine della stagione 1980-81, anche se non poté totalmente gioire di quanto fatto perché, a causa di problemi interni alla società, il tecnico decise di dimettersi a promozione raggiunta prima della fine del campionato cadetto. A Giacomini, Peterson avrebbe affidato la guida del programma di allenamento, avvalendosi poi del preparatore dell’Olimpia (Claudio Trachelio) per la parte atletica e facendosi coadiuvare anche da un coordinatore per l’attacco e uno per la difesa. Insomma, Peterson non come semplice mister ma come capo allenatore di una struttura tecnica organizzata. Un po’ quello che succede nella NFL.

Oggi, a distanza di quasi quarant’anni, le squadre di calcio stanno in effetti prendendo quella strada. Spesso infatti gli allenatori sono supportati da staff che possono portare il corpo tecnico fino a dieci, undici unità. Non c’è più solo il fido secondo ad accompagnare l’allenatore. Con un tecnico, infatti, troviamo anche uno o più preparatori atletici, uno o due assistenti di campo e un gruppo di match analyst che può andare dalla singola unità alla costituzione di un piccolo gruppo di lavoro. Tutto questo perché il calcio moderno, oltre ad essere diventato iper-professionistico, si è anche evoluto sotto tanti punti di vista, rendendo il gioco – e la sua analisi – più complesso che in passato. Inoltre le rose oggi sono di venti, venticinque giocatori e non più di sedici, diciotto come negli anni Ottanta.

In virtù di quanto detto, pensare di allenare una squadra di calcio provenendo da un altro sport non deve più essere visto come impossibile. E chissà che non capiti davvero, a breve. L’importante è che l’allenatore in questione sia un team leader, in grado di rapportarsi al meglio con i giocatori. Le conoscenze di campo, in questo senso, possono anche essere minime, a patto che il capo allenatore sappia circondarsi di assistenti capaci. D’altra parte già ora esistono staff tecnici dove la gran parte del lavoro sul campo viene svolto dai tattici. Altra domanda è invece chi, ad oggi, potrebbe essere adatto a fare il salto.

Il primo nome che viene in mente è, ovviamente, quello di Julio Velasco. Il campione olimpico 2024 con l’Italvolley femminile si è già cimentato nel mondo del calcio, avendo avuto esperienze come dirigente con Lazio e Inter. Il passaggio dalla scrivania (e dalla palestra) alla panchina potrebbe quindi essere fattibile per una persona come Velasco. Un altro coach che potrebbe fare il salto è Matteo Boniciolli. Colto, intelligente, preparato, l’attuale allenatore del Basket Torino sembra avere tutti i requisiti per potersi trasformare in un buon tecnico di Serie A.

Un altro nome da tenere in considerazione è quello di Riccardo Trillini, in grado di riportare la nazionale italiana di pallamano ai Mondiali dopo ventisette anni.

 


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