I preliminari sono terminati e adesso si fa sul serio, con l’avvio della fase finale delle coppe europee. La nuova formula permetterà di prenderne parte a ben 104 club suddivisi nei tabelloni delle tre competizioni. Tra le squadre più importanti e i grandi campioni che incendieranno la fantasia dei tifosi si fanno strada anche nomi meno noti e formazioni che si presentano con le stimmate della cenerentola, consapevoli che il loro sogno si è esaudito semplicemente essendoci. Al ballo delle debuttanti, tra le altre, si è iscritto il Noah, squadra armena fondata appena sette anni fa e pronta a prendere parte alla Conference League. Questa ventata d’aria fresca porta in dote un nome biblico: una benedizione dall’alto che non rappresenta una novità per le coppe europee.
L’Armenia tra Ararat, Bibbia e calcio
Il Noah è stata una delle grandi sorprese dei turni preliminari delle varie coppe, in ragione di un cammino che, nonostante fosse iniziato già dal primo turno di qualificazione alla Conference League, si è rivelato estremamente prestigioso, fino a mietere una vittima illustre. Dopo aver eliminato lo Shkendija e gli Sliema Wanderers – battuti con un perentorio 7-0 nel match di andata in casa – è stata la volta di uno scalpo eccellente, quello dell’AEK Atene. Per avere la meglio, la squadra armena ha dato fondo a tutte le risorse a propria disposizione, come dimostrato dal gol del momentaneo 2-1 nel match di andata – poi vinto 3-1 in casa – siglato da Ognjen Čančarević.
Per i meno informati, Čančarević è il portiere del Noah e della nazionale armena, capace di bucare il collega avversario – l’ex laziale Thomas Strakosha – con un rilancio mancino eseguito direttamente dalla propria area di rigore. Dopo aver resistito alle folate greche nel match di ritorno, perso 1-0, nell’ultimo turno il Noah ha capitalizzato il fatto di aver giocato per la quarta volta il match di andata in casa, blindando la qualificazione grazie al 3-0 con il quale ha regolato il Ružomberok, club slovacco giustiziere dell’Hajduk di Gennaro Gattuso.
Per il Noah sarà la prima qualificazione alla fase finale di una coppa europea. Ma da dove arriva? Fondato solo nel 2017, la sua denominazione originaria era Artsakh e dal 2019 è divenuto FC Noah. Un nome non casuale ed evocativo che affonda le proprie origini sulla Bibbia, specificatamente legandosi alla teoria secondo cui l’Arca di Noè sarebbe stata ritrovata nei pressi del Monte Ararat, oggi formalmente in Turchia ma storicamente facente parte dell’antica regione dell’Armenia.
Il legame tra il calcio armeno e l’Ararat e quasi morboso: due squadre del massimo campionato contengono tale nome nella loro denominazione – Ararat Yerevan e Ararat-Armenia – mentre un altro club del massimo campionato è l’Urartu, nome biblico del monte Ararat. Tutti e tre i club hanno partecipato, in passato, alle coppe europee – anche l’Ulysses, ma qua tocchiamo l’ambito della letteratura che magari affronteremo in futuro – e il destino ha voluto anche che il Noah conquistasse il primo titolo ufficiale della propria storia, la Coppa d’Armenia del 2020, proprio sconfiggendo l’Ararat-Armenia. Ma i segnali religiosi che legano la Bibbia al calcio non si fermano all’Armenia, come vedremo a breve.
Ognjen Čančarević, portiere decisivo in zona gol: prima il 2-1 all’AEK Atene da 98 metri, poi il lancio che ha portato al definitivo 3-1
Conference League, una competizione benedetta
Non è un caso che la prima volta di una squadra dal nome biblico arrivi grazie alla Conference League, sin da subito apparsa benedetta. La competizione è stata ratificata e annunciata ufficialmente il 2 dicembre 2018, giorno di Santa Bibiana. Si tratta di una matrona romana vissuta nel IV secolo, oggetto di persecuzione e santificata soprattutto per il rifiuto di abiurare Gesù Cristo e il suo credo durante le torture che si sarebbero rivelate mortali. Una fermezza che la sarebbe costata la vita ma anche valsa la beatificazione e successiva santificazione, oltre a portare la Chiesa Cattolica a dedicarle una chiesa all’Esquilino, a Roma. Un dettaglio al momento totalmente casuale ma che avrebbe preso valore con il prosieguo della competizione e della nostra storia.
Il primo match della competizione si è giocato nella morsa del caldo torrido dell’estate maltese, il 6 luglio 2021 alle ore 16.00. Di fronte i padroni di casa del Mosta e lo Spartak Trnava, due esponenti di nazioni le cui bandiere contengono una croce, il simbolo cattolico per eccellenza: nello specifico, nel caso di Malta si tratta di una croce con valenza civile piu che religiosa, la George Cross, ossia la Croce di Re Giorgio che per la prima volta venne assegnata collettivamente proprio in favore dello stato insulare del Mediterraneo. Nel caso della Slovacchia, invece, compare lo stemma nazionale, consistente in tre vette montuose sormontate dalla croce patriarcale d’argento, una croce doppia che evidenzia il forte legame tra lo Stato e il cattolicesimo.
Il match in questione si è sbloccato al 23′ con quello che è entrato negli annali come il primo gol della neonata competizione. A siglarlo è stato Evo Christ Ememe, giovane attaccante nigeriano che oggi, ironicamente, si è trasferito in Israele. Un gol che sembra rappresentare la chiusura di un cerchio, dopo la scelta del verde come colore ufficiale della competizione. Un colore che nel cristianesimo simboleggia la speranza nella risurrezione: risorge la terza competizione europea, la inaugura Christ. Chi se non lui.
I preliminari scorrono e si arriva ai gironi. Il favorito numero uno della vigilia è il Tottenham, guidato dal tecnico saotomense Nuno Espírito Santo. A dispetto del nome, non sarà favorito dall’alto alla guida del club londinese: non solo non mangerà il panettone – esonerato il 1° novembre, giorno di Ognissanti, quando si dice la coincidenza – ma anche il club, passato nelle mani di Antonio Conte, pagherà dazio. Prima la sconfitta in casa degli sloveni del Mura, quindi una piaga. No, non le cavallette ma il Covid, che porterà al rinvio del match col Rennes e all’impossibilità di recuperarlo: partita persa a tavolino e Tottenham fuori ai gironi.
Il primo gol della fase finale – realizzato da un’altra vecchia conoscenza della Serie A, Stipe Perica – arriva da Israele, siglato dal Maccabi Tel Aviv, un nome che prende origine da “Maccabei”, nome di due libri deuterocanonici della Bibbia – ossia accolti successivamente nel canone della Chiesa Cattolica ma respinti dal protestantesimo – che, a loro volta, prendono ispirazione da un movimento insurrezionista ebraico del II secolo a.C.
Alla fine, tutti i segnali già presenti sin dal dicembre del 2018 hanno portato, il 25 maggio 2022 – data di nascita di Padre Pio – ad assegnare il trofeo alla squadra della città della già citata Santa Bibiana, la Roma, che porta il nome della Città Santa. Trascinata fino alla finale dai gol di Tammy Abraham – esatto, come il primo dei patriarchi del popolo ebraico – e con il capitano Lorenzo Pellegrini a sollevare al cielo il trofeo. Ancora oggi, Tammy Abraham è tra i migliori cannonieri della competizione, che in cima alla classifica dei bomber vede, assieme tra gli altri, Vangelis Pavlidis. Nomen omen.
Precedenti
Il Noah non sarà la prima squadra con un nome – sia esso scelto volontariamente o solo casuale – riconducibile all’ambito della religione a partecipare a una coppa europea. Ai livelli più bassi della “piramide religiosa”, impossibile non menzionare il Monaco e le tedesche Bayern Monaco e Borussia Mönchengladbach – il cui nome deriva proprio da München, denominazione tedesca della città di Monaco di Baviera, e contiene la parola mönch, traduzione tedesca di monaco. Salendo di livello, impossibile non menzionare gli ungheresi del Lombard Pápa, squadra che ha preso parte all’Intertoto nel 2005, eliminando il Wit Georgia al primo turno per poi cedere al cospetto dell’IFK Göteborg.
Ancora più in alto si passa direttamente ai santi, partendo dal generico Santos Tartu, club estone che ha preso parte ai preliminari di Europa League 2014-15: decisamente pochi favori dall’alto per questo club, sconfitto 7-0 in casa e 6-1 in Norvegia dal Tromsø. Tra le squadre con nomi di santi nella denominazione ufficiale, quelli con i risultati migliori sono stati il Saint-Etienne e il Paris Saint Germain, entrambi finalisti in Coppa dei Campioni o Champions League e caduti, ironicamente, al cospetto del Bayern Monaco. Va pur detto che, a differenza dei Les Verts, il PSG vanta in bacheca una Coppa delle Coppe e un Intertoto.
Negli ultimi anni, una presenza sempre più costante in Europa è quella del Royale Union Saint-Gilloise, il cui massimo risultato è ancora oggi rappresentato da una semifinale di Coppa delle Fiere. Dalla Scozia arrivano invece il St. Mirren – giunto fino agli ottavi di Coppa delle Coppe 1987-88 – e il St. Johnstone – fermato agli ottavi di Coppa UEFA nel lontano 1972 – mentre il San Gallo per tre volte ha raggiunto un secondo turno di coppa. Gli irlandesi del St. Patrick’s Athletic non hanno mai superato il primo turno di una coppa europea, mentre anche The New Saints, dominatori del campionato gallese, quest’anno esordiscono nella fase finale di Conference.
Vari club, invece, non sono mai riusciti ad arrivare alla fase finale, evidentemente poco benedetti a dispetto del nome: gli austriaci del St. Polten, i portoghesi del Santa Clara, i gibilterrani del St. Joseph e gli andorrani del Santa Coloma e del Sant Julià, che nella stagione 2019-20, dopo una interminabile serie di 26 match a secco, ha trovato la prima vittoria della sua storia europea nei preliminari di Europa League contro l’Europa FC. Vittoria inutile, perché nel match di ritorno a Gibilterra il Sant Julià è stato comunque eliminato.
Discorso a parte per il Bolton: il club inglese, giunto al massimo sino agli ottavi di finale di Coppa UEFA nella stagione 2007-08, ha un legame profondo con la religione pur non avendo un nome riconducibile alla sfera spirituale. Ma prima di chiamarsi Bolton, decisamente, lo aveva. Nel 1874, infatti, fu fondato da un parroco, il reverendo Joseph Farrall Wright, e prese il nome di Christ Church Football Club, dal nome della chiesa e della relativa scuola di impronta cristiana – la Christ Church Sunday School – che la gestirono fino al 1877.
Anche negli impianti scelti per le finali a partita secca c’è stato spazio per un’aura di santità e ci sarà anche a breve, dal momento che la finale di Europa League di questa stagione si disputerà al San Mamés di Bilbao, nuova versione dell’omonimo stadio conosciuto anche come “la Cattedrale“. Il St. Jakob-Park di Basilea ha ospitato una finale di Europa League e ben quattro di Coppa delle Coppe, l’ultima di quale ha visto il trionfo della Juventus. Alcuni degli stadi nostrani battezzati in onore di santi, infine, hanno ospitato più finali della massima competizione europea: in particolare il San Nicola nel 1991 e il San Siro in tre occasioni, la prima delle quali si è conclusa col successo dell’Inter.
L’ultimo precedente “celeste”, tuttavia, non sorride alle nostre formazioni: memore dei segnali biblici e religiosi già citati nel corso della prima edizione, la UEFA ha scelto l’Eden Aréna di Praga come teatro della finalissima della seconda edizione di Conference League. In questo caso, tuttavia, nulla ha potuto la Fiorentina, sconfitta all’atto finale dal West Ham.
Le italiane e gli “aiuti dall’alto”
Gli accoppiamenti nelle coppe europee tra italiane e spagnole – due paesi notoriamente a forte prevalenza cattolica – non sono stati sempre fortunati per le nostre squadre. Ma qualche volta è arrivato un aiuto dall’alto, quantomeno a giudicare dai cognomi di alcuni dei protagonisti. La squadra che più ne ha fatto le spese è stato l’Atlético Madrid: se il figlio Federico ha avuto, per il momento, un impatto limitato nelle coppe europee – pur risultando decisivo nella semifinale di Euro 2020 proprio contro la Spagna – lo stesso non si può dire di Enrico Chiesa. Nell’ultimo successo europeo del Parma – la vittoria in Coppa UEFA 1998-99 – c’è la sua firma indelebile non sono nella finale col Marsiglia ma soprattutto in semifinale: doppietta al Vicente Calderón, gol in casa al ritorno.
Tre gol decisivi per la qualificazione, esattamente come quelli siglati vent’anni dopo da Cristiano Ronaldo, nome da credente se ce n’è uno: dopo il 2-0 per i Colchoneros maturato nel finale del match di andata, i bianconeri sembravano spacciati e destinati a salutare la Champions agli ottavi. Ma CR7 è Mister Champions e con la tripletta allo Juventus Stadium ha chiuso i giochi in rimonta. Inutile per la qualificazione ma non per il prestigio il gol di Junior Messias al Wanda Metropolitano nei gironi di Champions League 2021-22. Una grande soddisfazione per un ragazzo che viene dalla gavetta e dai lavori umili: si dice “la classe operaia va in Paradiso” e chi meglio di Messias per farlo?
Controversa la storia tra Julio Ricardo Cruz e il Valencia: quando i Murcielagos erano nel momento di massimo splendore, un gol del Jardinero affondò la barca al Mestalla con il definitivo 1-5 in favore dell’Inter nel girone di Champions 2004-05. Il Valencia si sarebbe rifatto due stagioni più tardi, con Cruz sugli scudi nella caccia all’uomo al triplice fischio. Chi, invece, ha avuto bisogno di un vero e proprio miracolo è stata la Roma, chiamata alla rimonta sul Barcellona nel ritorno dei quarti di Champions League 2017-18 dopo il 4-1 per i blaugrana all’andata. Inutile dire quanto complicato fosse fermare Lionel Messi, quindi Eusebio Di Francesco avrebbe dovuto tirare fuori un miracolo dal cilindro. E così è stato: difesa a 3, Juan Jesus a uomo su Messi e il resto è storia, con la Pulce annullata da Jesus. 3-0 per la Roma e rimonta completata, altro miracolo nella Città Santa.
Miracoli e Celtic
Un curioso rapporto è quello che si è creato tra le vittorie britanniche in Coppa dei Campioni – o Champions League – e la religione. Alcune delle più celebri e incredibili vittorie in rimonta della storia della coppa dalle grandi orecchie sono state in qualche modo attribuite a una forza superiore. È il caso della pazzesca vittoria del Manchester United sul Bayern Monaco nella finale del 1999, rimontando nel recupero da 0-1 a 2-1: festa grande, quindi le parole di Sir Alex Ferguson: “è stato un miracolo, un segnale divino”. Sicuramente più circostanziata l’argomentazione portata da Steven Gerrard a seguito del successo – doloroso per il Milan – a Istanbul nel 2005 del Liverpool, sotto 3-0 all’intervallo:
A fine primo tempo alcuni di noi si sono messi a pregare. Probabilmente è stato un miracolo arrivato dall’alto.
La squadra che sicuramente ha un legame più forte con il cattolicesimo, però, è il Celtic: fondata nel 1887 da frate Walfrid – al secolo Andrew Kerins – la squadra biancoverde è il simbolo dell’anima cattolica di Glasgow, in contrapposizione con i rivali cittadini dei Rangers, che rappresentano la comunità protestante della città, circostanza che ha reso l’Old Firm, il derby della città, qualcosa di più vicino a una costante guerra santa che a una semplice partita di calcio. Il 25 maggio 1967 – già, lo stesso giorno del successo della Roma in Conference – i Bhoys sono divenuti il primo club britannico a vincere la Coppa dei Campioni in quel di Lisbona, sconfiggendo l’Inter grazie a un gruppo di giocatori che sarebbero divenuti famosi con Lisbon Lions, entrati nella storia per aver completato il quadruble, ossia la vittoria di campionato, Coppa dei Campioni, Coppa di Scozia e Coppa di Lega scozzese.
Dopo il vantaggio dell’Inter, il Celtic, decisamente sfavorito alla vigilia, ha dominato in lungo e largo, fino a ribaltare l’incontro nella ripresa: 2-1 il finale e trionfo inatteso. Sarà per il diffuso accostamento tra le imprese sportive e l’episodio biblico di Davide contro Golia, sarà per l’anima religiosa a fondamento della squadra scozzese, sta di fatto che il successo venne celebrato ben oltre il calcio: i Lisbon Lions sarebbero stati presto acclamati come eroi non solo per il Regno Unito ma, addirittura, per l’intero cattolicesimo.
L’identità del club biancoverde, tuttavia, ha spesso generato problematiche in termini di ordine pubblico, con tensioni – non solo religiose ma anche politiche, stante il noto appoggio della tifoseria del Celtic alla causa palestinese – alla vigilia dei match contro i club israeliani e, soprattutto, con il caso relativo al match contro il Linfield nel secondo turno preliminare di Champions League 2017-18. Nello specifico, il Linfield – che detiene il record europeo di titoli nazionali vinti, con ben 56 campionati nordirlandesi – è un club non solo protestante ma contraddistinto da un forte settarismo che ha spinto, negli anni, all’imposizione del divieto di tesseramento di calciatori cattolici, tranne che nel periodo dei Troubles, il conflitto che ha investito l’Ulster tra gli anni ’60 e gli anni ’90 del secolo scorso.
Una tensione acuita anche da un altro aspetto non irrilevante: il match di andata si sarebbe dovuto svolgere il 12 luglio 2017 a Belfast. Non una data casuale, dal momento che si tratta del Twelfth, la più importante festività nazionale nordirlandese e che ha spiccati rimandi religiosi. Tale festività celebra la battaglia del fiume Boyne del 1690, durante la quale il re protestante Guglielmo III d’Orange sconfisse il suo predecessore, il cattolico e precedentemente deposto Giacomo II. Una battaglia vittoriosa che viene festeggiata dalla metà protestante dell’Irlanda del Nord con sfilate ed eventi bandistici effettuati principalmente attraverso le zone cattoliche del Paese, a mo’ di sberleffo nonostante i molteplici scontri, talvolta molto gravi, avvenuti nel corso degli anni.
La UEFA ha spostato l’incontro al 14 luglio, per tentare di scongiurare quanto più possibile l’incontro tra i supporters del Celtic e la popolazione protestante di Belfast. Invano, perché durante il Twelfth non sono mancati scontri, seppur fortunatamente in misura ridotta e non particolarmente grave.
L’esterno del Celtic Park, con visuale della Lisbon Lions Stand, che contiene un altro evidente richiamo celeste
Special One, da Fátima alla Città Santa
Uno dei personaggi più rilevanti della storia delle coppe è senz’altro José Mourinho, che mai ha fatto mistero della propria anima da credente. Ha rivelato che alla sua dedizione alle due grandi fedi della sua vita hanno contribuito equamente entrambi i genitori: il padre – ex portiere – che lo portava sempre allo stadio e la madre che lo portava in chiesa e a Fátima, luogo che ha contribuito a far crescere nel tecnico un forte senso di appartenenza ai valori cattolici. Già dai primi anni di carriera, Mou ha legato i suoi successi non solo ai meriti personali ma anche a una forza superiore. Come quando, nel 2004, ha ottenuto il suo primo trionfo in Champions League alla guida del Porto, attribuito a un “disegno divino”. Un concetto amplificato nel 2010, a seguito della Champions League vinta con l’Inter e in risposta alle “accuse” sul fatto di essere fortunato:
Prego tanto. Io sono una brava persona, sono cattolico e a volte Dio mi aiuta.
Un legame che lo Special One ha spesso ribadito non solo in occasione dei propri successi: anche nell’elaborazione della sconfitta, la fede è stato motivo di consolazione. Il concetto di “disegno divino” è tornato per spiegare la mancata vittoria della Champions League alla guida del Real Madrid. Analogamente, al termine della controversa finale di Europa League tra Roma e Siviglia e dopo le aspre polemiche sull’arbitraggio, Mourinho ha glissato con un “qualcuno ha scritto un disegno diverso dal nostro per stasera”.
Durante un match alla guida della Roma, inoltre, è stato visto baciare un crocifisso e, alla domanda rivoltagli per sapere se fosse superstizioso, Mourinho ha risposto di non credere nella superstizione ma di essere, invece, cattolico. Circa il suo legame con la religione e Fátima ha specificato, in un’intervista a Il Foglio:
Almeno una volta all’anno vado a Fátima, il mio santo di riferimento è la Madonna di Fátima. Una volta a Reggio mi dissero che volevo fare la carità a un bambino disabile ma in realtà gli ho donato un crocifisso che mi aveva regalato mia moglie e che tenevo in tasca da tre o quattro anni durante le partite. Mia madre mi ha insegnato e pregare e con la preghiera sconfiggo la sfortuna.
A chiudere un cerchio, proprio in quel 25 maggio 2022 già citato, Mourinho è diventato il primo allenatore non solo a vincere la Conference League ma anche ad assicurarsi tre diverse competizioni europee, alla guida della squadra della città simbolo del cattolicesimo. Un uomo di fede per una competizione benedetta, che vivrà un nuovo capitolo della sua vocazione grazie al Noah.
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