La Nigeria alle Olimpiadi del 1996, l’apice del calcio africano

Nigeria Olimpiadi 1996 - Puntero

Le valigie sono pronte, costumi e creme solari al loro posto, il materassino a forma di alligatore opportunamente ripiegato nel borsone, pronto a solcare le nitide acque dello Ionio. È quasi mezzanotte e l’indomani ci attende una traversata di quasi mille chilometri verso l’altro capo della penisola. Dal piano superiore mobiletti e cerniere non cessano di chiudersi, aprirsi e richiudersi, tradendo quel pizzico di ansia che precede ogni partenza. Lasciato solo davanti al televisore, senza preoccupazioni che non fossero i bagni in spiaggia e la tenuta delle batterie del Game Boy, mi lascio convincere da una rassicurante Antonella Clerici a godermi quella che prosaicamente viene annunciata come “una bella partita” e che mette di fronte Brasile e Nigeria alle Olimpiadi di Atlanta del 1996.

Accettato l’invito, lo schermo convesso del nuovo Mivar mi scaraventa addosso un caleidoscopio di colori ad alto contrasto che riporta in vita sensazioni risalenti al Mondiale di due estati prima. È lo standard di trasmissione NTSC in uso in Nord America, che compensa la minore risoluzione saturando ulteriormente i già sgargianti colori che vestono gli uomini in campo: il bianco e il verde dei nigeriani, l’oro e l’azzurro dei brasiliani, che come consuetudine di quegli anni fanno il loro ingresso in campo tenendosi per mano. Nell’insolita cornice di un campo di football americano – fasciato di verde per il divieto olimpico di esporre marchi nelle sedi delle competizioni – anche il tradizionale rituale degli inni nazionali tradisce l’eccezionalità dell’evento, lasciando spazio alle note di un unico motivo, quello dei Giochi, che accomuna i destini di due compagini giunte sulla soglia dello stesso traguardo partendo da direzioni opposte.

 

Un inizio difficile

Il 31 agosto 1996 ad Athens, città della Georgia a poco più di un’ora di macchina da Atlanta, il Brasile si appresta a disputare la semifinale del torneo olimpico di calcio con i favori del pronostico, nonostante un percorso più accidentato del previsto. La sconfitta all’esordio contro il Giappone e il rocambolesco quarto di finale vinto in rimonta ai danni del Ghana hanno minato parte delle certezze con cui Mário Zagalo era arrivato negli States, deciso a conseguire un titolo che inspiegabilmente ancora manca alla Nazionale più prestigiosa e vincente al mondo.

Per riuscire nell’intento, il ct verdeoro sfrutta a pieno il regolamento olimpico che proprio nell’edizione del centenario introduce i cosiddetti “fuoriquota”: giocatori di età superiore a 23 anni convocabili fino ad un massimo di tre per squadra. È così che pesi massimi della Nazionale maggiore come Aldair, Bebeto e Rivaldo vengono arruolati in una selezione olimpica già di alto profilo, che ha nel non ancora ventenne Ronaldo il suo riferimento.

Dall’altra parte, la Nigeria veste i panni dell’imbucato alla festa perché, se è vero che i Mondiali di due anni prima hanno rivelato una generazione che la storiografia sportiva tramanderà come tra le più talentuose di sempre nel panorama del calcio africano, è altrettanto vero che alcuni dei suoi componenti vengono da un’annata piuttosto deludente. In Bundesliga, Jay-Jay Okocha e Sunday Oliseh sono reduci da una stagione poco esaltante, con il primo addirittura retrocesso con l’Eintracht Francoforte e in cerca di una nuova sistemazione. Daniel Amokachi, invece, dopo le fantasiose voci di mercato che all’indomani del Mondiale statunitense lo avevano accostato alla Juventus, è uscito notevolmente ridimensionato dal suo biennio all’Everton.

Le nubi all’orizzonte sono dense quando, ben un mese prima dell’inizio delle Olimpiadi, la spedizione guidata da Jo Bonfrère atterra sul suolo americano per stabilirsi nel quartier generale di Tallahassee, Florida. Sulla testa del tecnico olandese pende già una taglia dopo la sofferta qualificazione e la pesante sconfitta nell’amichevole contro il Togo di pochi giorni prima. Salvato il posto grazie alle minacce di ammutinamento agitate da alcuni componenti della squadra, deve però fare i conti con l’assoluta povertà di mezzi nella quale la Federazione lo ha lasciato.

All’arrivo negli Stati Uniti non c’è nessun pullman ad attendere i giocatori, costretti a noleggiare dei furgoni e improvvisarsi autisti. Un piccolo convoglio che vede alla guida tra gli altri Oliseh, Amokachi e Victor Ikpeba raggiunge il parcheggio dell’hotel, dove i furgoni saranno rimossi pochi giorni dopo una volta scaduto il noleggio. Proprio l’ex giocatore della Reggiana – e qualche anno dopo i Giochi anche della Juventus – Sunday Oliseh dirà:

Mancava l’equipaggiamento, mancavano le strutture, mancavano cose basilari come i servizi medici, mancava il cibo. Avevamo bisogno di tutto, eravamo come bambini abbandonati.

Sul campo la squadra non appare particolarmente brillante, sebbene nei match del girone contro Ungheria e Giappone, vinti solo nel finale, si intravedano lampi di bel gioco. È il caso, ad esempio, del triangolo che Amokachi chiude di esterno permettendo a Nwankwo Kanu di forzare la linea difensiva ungherese nella partita di esordio. Nell’ultimo incontro del girone, un Brasile condannato a vincere la risolve grazie a Ronaldo che, pressato al limite dell’area, non ha problemi a prendere a Oliseh i centimetri necessari per liberare il sinistro con cui porta la Seleçao ai quarti di finale.

La migliore differenza reti rispetto al Giappone premia con il passaggio del turno i nigeriani, sconfitti ma felici di un traguardo mai raggiunto prima e che alla vigilia rappresentava il vero obiettivo della spedizione. Tra pacche sulle spalle e scambi di maglia, l’unica voce a levarsi fuori dal coro di generale soddisfazione è quella di Bonfrère, deluso da un risultato che, a suo dire, tiene in vita uno dei principali concorrenti per la vittoria finale.

 

Jo Bonfrère tra luci e ombre

Racconta Oliseh di quanto quello sfogo al termine della prima partita con il Brasile gli fece capire che quel signore olandese di mezza età sia stato effettivamente il primo a credere fin dall’inizio nella medaglia d’oro della Nigeria. Parabola bizzarra, quella di Johannes-Franciscus Bonfrère detto Jo. Nativo di Eijsen, nell’estremo sud dei Paesi Bassi al confine con il Belgio, vi passa praticamente tutta la carriera da calciatore giocando nella vicina Maastricht. Qui entra nello staff di Clemens Westerhof, l’allenatore che qualche anno più tardi avrebbe preso le redini della Nigeria dopo la mancata qualificazione a Italia ’90. Nel frattempo Bonfrère viene nominato commissario tecnico della Nazionale femminile che nel 1991 prende parte alla prima edizione dei Mondiali di categoria.

A ridosso di USA ’94 torna a collaborare stabilmente con Westerhof, pur non entrando mai ufficialmente nella squadra. È per questo motivo che, nonostante le sue richieste, Westerhof lo tiene giù dal palco durante la consegna delle medaglie alla Coppa d’Africa del 1994. Secondo la ricostruzione di Westerhof furono alcuni politici locali, su mandato del generale Sani Abacha in persona, a intervenire affinché i due olandesi deponessero momentaneamente le armi a tutela dei buoni risultati fin lì raggiunti. Nel giugno del 1994, mentre il mondo fa la conoscenza delle Super Eagles, Bonfrère viaggia da una città all’altra degli Stati Uniti compilando report sulle loro avversarie.

La partita con l’Italia sancisce la rottura definitiva tra i due, che si passano il testimone in panchina ma che a trent’anni di distanza non smettono di far parlare i giornali nigeriani, costretti anche in tempi recenti a dar conto della causa intentata da Westerhof in seguito ai sospetti di combine agitati da Bonfrère a proposito del famigerato ottavo di finale del Mondiale a stelle e strisce. In particolare, Bonfrère ha accusato l’allora ct di aver intascato una tangente di 100.000 dollari per far perdere la Nigeria contro gli azzurri, sebbene in seguito abbia ritrattato, sostenendo che la stampa nigeriana avesse travisato le sue parole.

Un lato oscuro, quello del ct della Nazionale ai Giochi, evidenziato anche da alcuni dettagli riferiti da suoi ex giocatori. Come nel caso della testimonianza di Duke Udi, ex giocatore del Grasshoppers, fondamentale nelle qualificazioni alle Olimpiadi del 1996 ma scartato all’ultimo minuto dopo il rifiuto opposto a un trasferimento all’Heerenveen mediato dallo stesso Bonfrère. O, ancora, delle parole di Amokachi, che ha rivelato come la causa dell’inconveniente del pullman all’inizio delle Olimpiadi fosse da attribuire ancora a Bonfrère, il quale approfittò dello scalo ad Amsterdam per rientrare degli stipendi arretrati versando sul suo conto personale parte dei contanti che la Federazione gli aveva consegnato per finanziare il soggiorno negli Stati Uniti.

Un personaggio spigoloso, che a dispetto dell’apparenza mite nasconde non poche zone d’ombra ma al quale è generalmente riconosciuta la capacità di sapersi rapportare con i propri giocatori. A tal proposito è Oliseh a sbilanciarsi, confessando come uno dei segreti del successo ad Atlanta sia stata proprio la linea permissiva di Bonfrère e il clima di forte unità che questi favorì all’interno dello spogliatoio, in netta contrapposizione a quanto avvenne due anni prima sotto la gestione militaresca di Westerhof. Tratto distintivo del tecnico sul campo è invece l’audacia. La sua non è una squadra perfetta, tutt’altro, ma nell’epoca della stagnazione post-sacchiana e dei trequartisti in via d’estinzione – dopo un Europeo all’insegna dell’austera solidità tedesca – la Nigeria offre un gioco che intrattiene e soluzioni non comuni per l’epoca.

Se dalle nostre parti Gianfranco Zola è costretto all’esilio oltremanica per sfuggire ai dogmi del 4-4-2 “ancelottiano” e il giovane Francesco Totti scampa per un soffio all’equivoco sollevato da Carlos Bianchi circa la sua posizione in campo, dall’altra parte dell’oceano troviamo Jay-Jay Okocha libero di toccare il pallone quanto e come vuole in una squadra che, dietro al più classico dei 4-4-2, camuffa un tridente supportato da un profilo atipico come Kanu. Non è raro infatti vedere l’attaccante dell’Ajax abbassarsi fin sulla linea dei mediani per sfruttare al meglio le doti in regia, aprendo il fronte d’attacco ad Amokachi e a due esterni rapidi come Emmanuel Amunike e, soprattutto, Tijjani Babangida. In quanto a proiezione offensiva, i terzini Celestine Babayaro e Mobi Oparaku non sono da meno, mentre Oliseh è chiamato agli straordinari per garantire un minimo di equilibrio in mezzo al campo.

La Nigeria di Bonfrère diventa, quindi, una sorta di modello da esportare e pubblicizzare anche per la stampa italiana, allergica agli eccessivi tatticismi in nome dei quali il nostro calcio minacciava di sacrificare tecnica e fantasia. Un aspetto provocatoriamente messo in luce anche dal giornalista Roberto Beccantini:

Visto? Si può divertire anche senza rimpinzarsi di pressing e fuorigioco, anteponendo la tecnica a tutto il resto, come si faceva una volta. È questa la lezione di Olimpia.

 

La svolta con il Messico e la rimonta sul Brasile

Superato il primo turno, la differenza tra un torneo soddisfacente e un racconto da tramandare ai posteri la fa il quarto di finale contro il Messico, giustiziere dell’Italia nel primo turno. Rispetto alle uscite precedenti, le cose si mettono subito per il verso giusto con il tiro dal limite di Okocha sporcato il tanto che basta per mettere fuori causa Jorge Campos. Viziata dall’espulsione di Duilio Davino, che senza ragione apparente agguanta il pallone di mano nella propria trequarti, la ripresa vede un Messico più vicino al pareggio di quanto la Nigeria lo sia al raddoppio, che però arriva puntuale a una manciata di minuti dalla fine, quando Babayaro approfitta di un rimpallo scaturito da un calcio d’angolo. L’espulsione al 90’ di Oliseh è la nota amara di un 2-0 generoso che fa capire come la Nigeria si trovi dalla parte giusta della storia.

La semifinale contro il Brasile inizia con le Super Eagles schiacciate dalla pressione avversaria. È così che, dopo una palla persa e il successivo fallo di Amunike, al 2′ i verdeoro si trovano avanti con la potente punizione di Flavio Conceição che, complice la deviazione di Taribo West, batte il portiere Joseph Dosu. Coi minuti la Nigeria prende campo, monopolizzando il possesso e intessendo trame di qualità. È da una di queste combinazioni che nasce il pareggio: Amunike, Amokachi e Kanu scambiano nello stretto, mentre i terzini tramutano una bella azione manovrata in occasione da gol. Dalla destra Oparaku guadagna metri e crossa per il suo omologo Babayaro, il quale non può fare altro che sparare nel mezzo pregando la buona stella che quell’estate sembra accompagnare la squadra nigeriana. Il piede destro di Roberto Carlos esaudisce il desiderio e spedisce la palla sotto la traversa della porta di Dida.

La ristabilita parità rinvigorisce il Brasile, che si limita a sfruttare le disattenzioni della non impeccabile fase difensiva nigeriana. Ronaldo – che sulle spalle porta il nome d’infanzia Ronaldinho, rispolverato per distinguersi dal compagno di squadra Ronaldo Guiaro – emana bagliori sporadici, improvvisi, cogliendo di sorpresa la stessa regia americana quando, durante un replay, affonda dentro l’area di rigore scoccando un destro che Dosu non trattiene consegnando la palla a Bebeto, che inesorabile riporta avanti i suoi. Seguono altre sfuriate nigeriane ma in chiusura di primo tempo è il Brasile a trovare nuovamente la via della rete quando Juninho Paulista smarca con un colpo di petto illuminante Flavio Conceição, lesto a infilarsi tra i centrali e firmare la sua doppietta personale.

Sul punteggio di 3-1 il morale negli spogliatoi è agli antipodi. Zagalo si trova a un passo dalla finale con l’Argentina, pregustando la sua rivincita personale sui giornalisti che gli rimproverano di preferire Juninho a Rivaldo. Dall’altra parte, come raccontato recentemente da Oliseh, Dosu versa lacrime di rabbia per la papera costatagli il secondo gol, trovando però il conforto del più inaspettato dei compagni. È infatti Emmanuel Babayaro, il fratello di Celestine e portiere di riserva, che si stringe attorno al compagno nel momento più buio, mettendo da parte il disappunto di cui non aveva mai fatto mistero dopo la scelta di Bonfrère.

Nella ripresa la Nigeria è costretta a mantenere l’iniziativa esponendosi ai contrattacchi dei brasiliani che sfiorano subito il quarto gol quando Amaral trova il corridoio giusto per uno stranamente impreciso Ronaldo. Alle strette, Bonfrère ricorre al cambio naturale tra Amunike – da lui voluto appositamente come fuori quota in virtù della sua esperienza e mentalità vincente – e Ikpeba, più tecnico e affine al gol, come dimostrerà nella stagione seguente vincendo il titolo di capocannoniere in Francia. È proprio l’attaccante del Monaco che penetra dalla sinistra e serve Amokachi che al centro dell’area subisce il fallo di Flavio Conceição. L’arbitro decreta il rigore che Okocha tira nel peggiore dei modi: a mezza altezza, leggermente a destra, diretta al petto di Dida, ultima fermata di un’impresa alla quale forse il ct olandese non era più il solo a credere.

La via per la redenzione però è breve e comincia dai piedi ruvidi di Taribo West che, a dodici minuti dalla fine, sradica il pallone dai piedi di Rivaldo arrestando l’ennesima ripartenza brasiliana. Il contrattacco sbilancia la difesa che lascia scoperto il fianco sinistro, dove l’accorrente Ikpeba batte a rete di fronte all’inerme Dida. Mancano cinque minuti e i cambi operati dai due allenatori rispecchiano in pieno l’inerzia della gara. Bonfrère fa entrare il fantasioso Wilson Oruma al posto di un difensore come Oparaku, Zagalo invece fa uscire Ronaldo, che lamenta un fastidio alla coscia, pensando di risparmiarlo per la finale. Un’altra scelta che gli verrà rinfacciata.

Siamo al 90’: da rimessa laterale Okocha pesca in area il neoentrato Teslim Fatusi che cadendo spinge il pallone davanti a sé, al di là delle sue forze di riserva del Ferencváros, oltre le gambe di Ronaldo Guiaro e Aldair, oltre le fantasie più sfrenate che in quell’istante assumono la forma dello scavetto che Nwankwo Kanu si inventa nel mezzo della tempesta: unica, visionaria soluzione per eludere l’uscita di Dida e battere a rete di destro. Il gol del pareggio inverte l’asse terrestre e ci fa assistere al raro spettacolo della Nigeria che letteralmente palleggia in faccia a una Nazionale brasiliana frastornata, in attesa solo del fischio dell’arbitro.

La pausa prima dei supplementari trascorre sulle note di Shout dei Temptations che gli altoparlanti del Sanford Stadium diffondono a tutto volume mentre le due panchine vivono stati d’animo completamente ribaltati rispetto a 45 minuti prima. Zagalo si sgola circondato dai volti svuotati dei suoi giocatori, dall’altra parte lo squalificato Oliseh, t-shirt baggy a righe e berretto camo in testa, infonde ai compagni la stessa sicurezza che Bonfrère gli aveva confidato di avere a inizio torneo. Quando il gioco riprende, il Brasile accenna una reazione che però viene presto soffocata dal possesso nigeriano. Sono trascorsi appena quattro minuti, Oruma lancia su Ikpeba che non ha neanche il tempo di girarsi quando sente il pallone rimbalzargli sulla schiena. Presi in controtempo, i difensori brasiliani lasciano via libera a Kanu che evita Aldair e incrocia il tiro alla sinistra di Dida.

Da qui è storia, quella che ogni appassionato di calcio ha visto almeno una volta condensarsi in quei primi passi sulla linea di fondo, passi che rallentano e si fanno danza: il busto inclinato, le ginocchia alte, le mani che vanno a toccare il colletto della maglia agitandosi in modo incomprensibile. Movenze oscure che forse celebrano qualcosa di più di un golden gol in una semifinale olimpica, come rivela lo stesso match winner:

Dopo quel momento per noi fu chiaro che avremmo vinto il torneo.

Spengo la tv che è ormai notte inoltrata, lieto di essermi goduto “una bella partita” e con all’orizzonte le vacanze attese da un anno.

La versione integrale della spettacolare semifinale con il Brasile, che ha saputo rispettare le aspettative poste da Antonella Clerici

 

La finale con l’Argentina

Quel torneo che fin lì avevo seguito distrattamente, scoraggiato dagli orari e dalla prematura uscita dell’Italia, irrompe nuovamente nella mia routine estiva tre giorni dopo, all’ora di pranzo, quando sul piccolo televisore presente nella casa di villeggiatura appaiono il bizzarro balletto di Babayaro, le braccia chilometriche di Kanu che accarezzano il cielo della Georgia, quei 180 grammi di oro a brillare su non meno lucenti tute in acetato bianche e verdi.

Meno di 24 ore dopo il trionfo di Chioma Ajunwa nel salto in lungo ai danni della nostra Fiona May, la Nigeria infatti mette insieme il suo secondo oro olimpico nella storia – che allo stato attuale è anche l’ultimo – vincendo il torneo di calcio. Lo fa al termine di una partita che segue lo stesso canovaccio della semifinale con il Brasile, con la Nigeria a manovrare e l’Argentina pronta a colpire in contropiede, come puntualmente avviene al 2′, quando il traversone di Hernán Crespo trova la testa di Claudio López. Come contro il Brasile, è ancora Babayaro a riportare la parità con un altro colpo di testa. Le Aquile non perdono l’iniziativa neanche dopo il rigore che con troppa leggerezza l’arbitro Pierluigi Collina concede ad Ariel Ortega, quando questi si lascia cadere sfiorato da West.

“Wayo, wayo!”, una parola che dal pidgin nigeriano potremmo tradurre grossomodo come imbroglio o truffa, è il grido che risuona sugli spalti, nelle case, nei bar di un Paese che appare deserto ai cronisti che in quelle ore percorrono le strade di Lagos, dove anche poliziotti, ladri e prostitute hanno abbandonato le loro abituali occupazioni. Sul 2-1, al cambio conservativo del ct argentino Daniel Passarella che toglie Hugo Morales per Diego Simeone, Bonfrère risponde con la coraggiosa sostituzione di Okocha per un mediano come Garba Lawal, in grado di alternarsi a Oliseh nella pressione nella metà campo avversaria e di alleggerire il carico di una difesa ridotta ormai ai soli Uche Okechukwu e West.

Proprio da un recupero di Oliseh e dal successivo tentativo di cross del nuovo entrato Amunike, la Nigeria ottiene la rimessa laterale da cui nasce il pareggio di Amokachi, che dopo un liscio di Oruma azzecca con l’esterno il tocco che, con un dolce pallonetto, scavalca Pablo Cavallero. È ancora Wilson Oruma a risultare decisivo una decina di minuti più tardi, a tempo ormai scaduto, quando si incarica della punizione che Amunike si è procurato subendo fallo da Javier Zanetti sul vertice destro dell’area argentina. La sorte restituisce il maltolto alle Super Eagles che al momento del tocco presentano almeno due, se non tre, giocatori in fuorigioco. Graziato dal guardalinee, Amunike approfitta della risalita poco tempestiva di Néstor Sensini per battere al volo indisturbato solo davanti al portiere.

Lo storico cammino della Nigeria ad Atlanta ’96

 

L’eredità di Atlanta ’96

La Nigeria batte l’Argentina 3-2 e si mette al collo la medaglia d’oro olimpica. Un traguardo al quale, inutile negarlo, non può essere accordato lo stesso peso di un Mondiale ma la cui eredità, a quasi trent’anni di distanza, è per certi versi paragonabile. In quei giorni di esodo estivo, con un occhio al traguardo delle 34 medaglie azzurre ad Atlanta ma con la testa già al campionato di Serie A, Giorgio Tosatti usò l’espressione “aborto tecnico” per definire il torneo olimpico di calcio: una manifestazione che si tiene in un momento tradizionalmente morto della stagione, quasi collaterale agli eventi in corso nella sede olimpica principale e che ontologicamente non può dirsi rappresentativo dello stato di uno sport che, diversamente dagli altri, non vive l’Olimpiade quale suo momento culminante.

Questo discorso serviva a giustificare la fallimentare spedizione di Cesare Maldini – gravata dalle pesanti assenze imposte dai club in ritiro e da un comprensibile deficit di motivazione – ma ignorava il modo in cui squadre del calibro di Brasile e Argentina avessero affrontato l’impegno. Alla guida di tutte le selezioni brasiliane, Zagalo vedeva nell’Olimpiade l’opportunità di cogliere un successo prestigioso e soprattutto inedito, che cancellasse la finale di Copa América persa l’anno precedente. Anch’egli a caccia di un titolo mai conquistato prima, Daniel Passarella non si fece problemi ad innestare veterani come Simeone, Sensini e José Antonio Chamot su di un tessuto che, esclusi campioni come Abel Balbo e Gabriel Batistuta, non si discostava troppo da quello della Nazionale maggiore. Per la Nigeria e l’Africa fu una grande rivincita, come sottolineato da Ikpeba:

Penso che sudamericani ed europei non abbiano mai rispettato il calcio africano. Sapevano che stavamo progredendo ma non abbastanza da poter competere con loro.

È pur vero che l’oro di Atlanta assunse un valore che non avrebbe mai avuto se a conseguirlo fossero state Argentina, Brasile o Italia. Un valore innanzitutto per la Nigeria, per cui quell’Olimpiade rappresentò la valvola di sfogo dove incanalare tutta l’aspettativa creatasi dopo i Mondiali del 1994 e rimasta frustrata dall’autoesclusione dalla Coppa d’Africa imposta alla Nazionale di calcio dall’allora capo di Stato Sani Abacha come ritorsione nei confronti del Sudafrica, Paese ospitante dell’edizione 1996 e principale promotore dell’isolamento diplomatico che portò la Nigeria alla sospensione dal Commonwealth a seguito dell’esecuzione dell’attivista Ken Saro-Wiwa.

Fu anche l’occasione per gettare le basi della squadra che di lì a due anni si sarebbe presentata ai Mondiali di Francia con ambizioni smisurate, forte dell’amalgama creatasi tra la formazione assemblata da Westerhof e i nuovi talenti provenienti dall’Under 17 come Kanu, Oruma e Babayaro, laureatisi tre anni prima campioni del mondo di categoria. Ma al di là del piano tecnico, la reale dimensione di Atlanta è da misurarsi con il metro della storia. Quell’oro fu speciale perché per la prima – e forse davvero unica volta – affrancò una Nazionale africana dalla sua dimensione continentale, investendo anche l’immaginario e la cultura delle persone testimoni di quel processo inedito, come sottolineato anche da Oliseh:

Penso che quello fu il punto culminante del calcio nigeriano, per la semplice ragione che non dipendavamo più dall’Africa.

Non è un caso se a metà degli anni ‘90 lo scrittore mozambicano Suleiman Cassamo scelse un nome evocativo per uno dei racconti inclusi nella raccolta Amor de Baobà, nel quale un orologiaio si improvvisa inventore nel tentativo di creare un macchinario che renda l’arbitraggio delle partite di calcio davvero imparziale. Il titolo scelto fu Nigeria campione del mondo. Non il Mozambico, non il Camerun, ma la Nigeria, il cui exploit non fu un caso isolato bensì il climax di una lenta ma costante progressione dell’Africa nelle competizioni internazionali: dalla tragicomica partecipazione dello Zaire ai Mondiali del 1974 alla prima vittoria della Tunisia nel 1978, passando per l’eliminazione senza sconfitte del Camerun nel 1982 fino al passaggio del primo turno da parte del Marocco nel 1986 e ai quarti di finale raggiunti dal Camerun nel 1990, arrivando infine al bronzo olimpico del Ghana a Barcellona ’92.

Il nuovo millennio prometteva un futuro che trent’anni dopo abbiamo smesso di attendere. È in questo contesto che nel 1992 – di ritorno dal Senegal, dove si era recato per osservare da spettatore la Coppa d’Africa – Arrigo Sacchi si vide attribuire il fatidico adagio: “Il calcio africano è il calcio del Duemila”. Parole che quattro anni più tardi, all’ora di pranzo di un’afosa giornata di agosto, davanti a un piccolo televisore in una casa di villeggiatura, suonarono come una profezia.

 


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