Vita, morte sportiva e miracoli di Tracy McGrady

Tracy McGrady - Puntero

Talvolta, per descrivere l’armonioso talento di uno sportivo si utilizza la frase “poesia in movimento”. Parole che calzano a pennello se accostate a Tracy McGrady, la rappresentazione cestistica di una poesia che sa essere allo stesso tempo bellissima e triste. Perché accanto al fascino abbacinante del suo gioco, emerge il rimpianto per quel che poteva essere e non è stato per colpa del fato avverso e degli infortuni.

Un giocatore e un uomo intelligente, un atleta che per una carriera intera ha deliziato le platee delle squadre per cui ha giocato, convivendo però con l’etichetta di perdente per la costante e sfortunata tendenza ad andare a sbattere contro le sliding doors della vita sportiva.

 

Il giovane McGrady

Tracy nasce a Bartow, in Florida, il 24 maggio 1979. Figlio di Tracy McGrady Sr. e di Melanise Williford, parlerà sempre del padre come di una figura non presente nella quotidianità familiare. Pur non avendone mai preso le distanze, secondo T-Mac il genitore è colpevole di aver caricato Melanise e la nonna materna Roberta di tutte le difficoltà connesse ad allevare un bambino. La responsabilità del dover impartire un’educazione adeguata a livello caratteriale e morale, dunque, è tutta in capo alla madre. La prima fase della vita di McGrady si sviluppa nel vicino paese di Auburndale, a circa 15 chilometri dalla sua città natale.

Nella cittadina della Florida, il baseball è di gran lunga il passatempo preferito dei ragazzi e anche su T-Mac, grazie agli insegnamenti di CJ, un cugino molto più grande di lui, il campo a forma di diamante è capace di esercitare un certo fascino. Il monte di lancio, in realtà, altro non era che un mucchio di cuscini approntati di fortuna in casa durante le partite delle loro squadre preferite. Ma il vero destino di McGrady aveva le sembianze di un pallone più grande, di una tonalità un po’ più viva, tra l’arancio e il marrone. Quello da basket. Tracy è bravo, ma ancora non sa quanto. Lo scoprirà solo per gradi, col tempo.

Nel suo terzo anno alla Auburndale HS i numeri crescono e il suo apporto inizia a diventare scintillante: la media stagionale recita 23,1 punti, 12,2 rimbalzi, 4 assist e 4,9 stoppate a partite, cifre che evidenziano una completezza tale da non poter rimanere lontano dai riflettori. E infatti, nel suo anno da Senior, Tracy tenta di prendere il volo. Viene reclutato dalla più quotata Mount Zion Christian Academy, un collegio privato di spiccata matrice religiosa situato a Durham, in North Carolina. Per la prima volta T-Mac si rende conto di essere un vero talento e di potersi costruire una carriera in NBA. Decide di cambiare vita. Lui, cresciuto nel mito di Penny Hardaway, uno studente non tanto bravo, al punto da ritenere di non poter mai avere un rendimento da istituto della Division I, un giorno avrebbe potuto raggiungere il massimo livello possibile per un giocatore professionista.

Per usare un eufemismo, studiare a Mount Zion non è propriamente uguale a crescere nel ghetto. Vive assieme a 17 coinquilini in casa del coach Joel Hopkins, sveglia uniformata alle 4.45 cui fanno seguito cinque miglia di corsa nella notte, 15 ore a settimana di studi religiosi, divieto di ascoltare la musica, di recarsi al centro commerciale, di sfoggiare gioielli. Il tutto per giocare una stagione quasi perennemente in trasferta, visto che solo 6 dei 28 incontri stagionali della sua squadra vengono disputati tra le mura amiche. Una circostanza che non agevola McGrady: essendo il migliore dei suoi, infatti, è sottoposto ad accurati trattamenti da parte delle difese e delle tifoserie avversarie, che spesso finiscono per condizionare anche gli arbitri.

Mount Zion è una scuola molto giovane e non può competere con le migliori high school nazionali. Eppure, nonostante una vita on the road nei palazzetti delle scuole avversarie, il record dei Mighty Warriors è un impressionante 20-1. Piano piano si inizia a parlare del gioiello più splendente della corona. Ad incensarlo più di tutti, tra i membri dello staff, è l’assistant coach Cleo Hill:

Non ci sono molti giocatori alti 6’9” e capaci di segnare a proprio piacimento sia da tre punti che in post. Quando McGrady si accende, capisci che non è come tutti gli altri.

Un giocatore completo che, caricato da queste dichiarazioni, decide di mostrare al mondo le proprie capacità. Il 10 gennaio 1997 scende in campo, in Virginia, contro l’Atlantic Shores Christian School della città di Chesapeake.
Un match in cui il coach lo schiera in tutti i ruoli e T-Mac sfoggia il repertorio a disposizione nella sua interezza. Quattro schiacciate nel primo quarto, tre triple nel secondo, un terzo quarto giocato da play illuminante, un quarto da difensore provetto e contropiedista letale. Il tabellino a fine partita recita 36 punti, 11 rimbalzi, 7 assist, 3 stoppate, 4 rubate, una sola palla persa e 8 schiacciate. Il risultato finale è uno schiacciante 92-44 per Mount Zion ma, nonostante siano usciti con le ossa rotte e più che doppiati nel punteggio, i tifosi di Atlantic Shores fischiano coach Hopkins. Solo per aver tolto T-Mac dal campo due minuti prima della sirena, privandoli di altro spettacolo.

Alla fine, le voci su Tracy McGrady arrivano anche alle orecchie di Sonny Vaccaro, l’uomo destinato a cambiare per sempre il suo futuro.

 

Vaccaro e l’ABCD Camp

Per chi non avesse dimestichezza con questo nome, Sonny Vaccaro è un visionario, sia sportivamente che aziendalmente. Nel 1965, da ex insegnante di una high school, crea un All-Star Game delle scuole superiori, quello che di lì in poi sarebbe divenuto noto come Roundball Classic. Dodici anni più tardi, nel 1977, diventa responsabile marketing della Nike grazie a un’idea semplice e geniale: pagare i coach delle realtà liceali affinché fornissero scarpe Nike ai loro atleti, una mossa solo teoricamente a perdere ma che diventò il vero motore della fama del marchio, che nel giro di sette anni vide esplodere il proprio fatturato annuo del 3000%.

Il meglio, però, arriva nel 1984. Preoccupato dalla concorrenza di Adidas, Vaccaro riesce a convincere la Nike a investire pesantemente su un giovane ragazzo non ancora sbarcato nella NBA. Un rischio enorme, considerato che non era neppure destinato alla prima scelta assoluta, ma che secondo Vaccaro avrebbe pagato dividendi. Quel ragazzo era Michael Jordan. Effettivamente la Nike avrebbe decisamente cambiato il modo di intendere le calzature sportive, anche in questo caso con una mossa economicamente rischiosa: per dare un tocco di innovazione al nuovo volto della Nike, Vaccaro inventa delle scarpe diverse da tutte le altre, da far indossare esclusivamente a MJ. Delle scarpe rosse e nere che riprendevano i colori dei Chicago Bulls, la franchigia che aveva selezionato Air al draft.

Dettaglio non trascurabile: la NBA aveva una legge che prevedeva che la superficie esterna delle scarpe fosse a prevalenza bianca. Se le Air Jordan High, primo modello ideato, vengono archiviate con una multa da 5mila dollari dopo la prima partita di preseason, la Nike rilancia con le Air Jordan I, accettando di accollarsi una multa che avrebbe determinato una sanzione complessiva di oltre 400mila dollari per l’intera stagione.

L’esborso ha un ritorno pazzesco, dal momento che dopo appena due mesi dal lancio le Air Jordan 1 fruttano alla Nike oltre 70 milioni di dollari. Una trovata che ha contribuito a rendere ancora più grande l’azienda di Beaverton, con un giro d’affari miliardario.

Per non rischiare più di lasciarsi scappare i giovani talenti, nel 1984 Vaccaro idea l’ABCD Camp, un torneo dedicato a ragazzi in uscita dalla high school. Una vetrina per poterne misurare il talento e, allo stesso tempo, per non perderli di vista nell’ottica di possibili accordi commerciali. Lo stesso torneo sarebbe divenuto, ovviamente, anche un interessante trampolino per permettere ai giocatori di spiccare il salto nella NBA senza passare per il college. Una tendenza inaugurata, tecnicamente, da Shawn Kemp nel 1989 – solo perché i voti mediocri raccolti a scuola non gli permisero di accedere al college – ma diffusa a partire dalla scelta volontaria di Kevin Garnett nel 1995.

Ed è in questo panorama che T-Mac aumenta ulteriormente il suo consenso. Grazie all’affiliazione della Mount Zion con Adidas, coach Hopkins segnala il suo nominativo e nell’estate del 1997 Vaccaro – nel frattempo uscito da Nike e passato proprio alla concorrente società tedesca – lo invita a far parte dell’ABCD Camp in programma a Teaneck, nel New Jersey. Il ragazzo non è esattamente il più quotato del lotto: nello speciale ranking dei partecipanti si assesta ad un modesto numero 175. Una posizione destinata a cambiare rapidamente, quando i numeri e le fredde classifiche vengono demolite dall’oggetto sferico che conta davvero. Quel pallone da basket che, quando si trova tra le mani piene di talento di McGrady, sembra governato da un incantesimo indecifrabile.

All’inizio del Camp, Tracy McGrady si trova di fronte ad una squadra avversaria il cui leader è il compianto idolo di casa James Felton. Un vero freak sportivo – di quelli che vengono definiti Blue Chipper per identificarne la superiorità rispetto agli altri – proveniente da Bayonne e già accordatosi con la St. John’s University per l’anno seguente. Stessa stazza di T-Mac, altro tipo di aspettative. Ma non sempre i risultati seguono il corso dei pronostici: il ragazzo viene umiliato e posterizzato con una Windmill Dunk, accolta dai tifosi festanti in platea. Ne verrà fuori un dominio di McGrady, il primo momento chiave della carriera.

Dopo quella schiacciata ho avuto i brividi. Avevo capito dove fossi e che potevo veramente arrivare lontano.

È l’inizio del delirio. Il telefono di coach Hopkins inizia a squillare in continuazione, dall’altro capo del filo una ridda di coach di storici club collegiali, da Rick Pitino di Kentucky a Jim Boeheim di Syracuse. McGrady inizia a scalare le liste tra i giocatori collegiali: il famoso talent scout Bob Gibbons, che a fine stagione l’aveva escluso addirittura dalla sua Top 500 tra i migliori talenti liceali, lo piazza ad un glorioso secondo posto, alle spalle del solo Lamar Odom. E l’ABCD Camp? Il torneo si conclude con il dominio del ragazzo di Mount Zion, entrato con il numero 175 e uscito con il numero 1, una crescita che stupisce persino lo stesso Vaccaro:

Fino a quel giorno all’ABCD non c’era mai stato nulla di simile a Tracy. In passato c’erano giocatori cresciuti grazie al lavoro al Camp, ma almeno erano conosciuti da qualcuno. McGrady era un completo sconosciuto e il suo nome si era diffuso a macchia d’olio.

Sarebbe passato poco tempo ancora, affinché dall’altro capo del telefono arrivassero voci ancora più autorevoli di quelle del College Basketball. Mamma Melanise e nonna Roberta provano a convincerlo che è meglio proseguire gli studi, ma T-Mac ha già deciso. Lo afferma così, in maniera chiara:

Penso di avere il potenziale per farcela nella NBA, se sarò una delle prime 15 scelte allora andrò. Voglio essere pagato per giocare in modo da poter aiutare mia madre e mia nonna.

L’investitura definitiva, quella che fa cedere ogni tentennamento, arriva dal coach Hopkins. L’uomo che lo ha allevato e visto esplodere alla Mount Zion. Una dichiarazione forte, ma che chiarisce a tutti il valore di questo ragazzo così sfrontato e completo.

Secondo me c’è Tim Duncan da Wake Forest e subito dopo c’è Tracy, che è il secondo miglior giocatore di basket dello stato della North Carolina. E sì, intendo inclusi tutti gli Charlotte Hornets.

Gli ormeggi sono rotti. Se si può essere una delle scelte migliori, perché andare al college? T-Mac si sarebbe dichiarato eleggibile per il Draft NBA del 1997.

 

 

Partire con un rimpianto

Tracy McGrady incontra la prima sliding door della carriera addirittura prima di entrare in NBA, per la precisione in prossimità della notte più attesa per i giovani cestisti che sognano di diventare grandi nella lega professionistica americana. Ma è necessario fare un piccolo salto indietro, di due anni: nel 1995 la NBA ha ampliato il carnet delle partecipanti con un’espansione storica, non tanto per il numero – le franchigie sono passate da 27 a 29 – quanto per l’apertura a due squadre collocate al di fuori degli States. Sono entrate in NBA due canadesi, situate in posizioni geograficamente opposte: i Toronto Raptors e i Vancouver Grizzlies.

Dopo l’inevitabile delusione della prima stagione, il Draft 1996 si preannuncia come una possibilità di svolta per le nuove arrivate, essendo ricchissimo di giocatori di alto profilo. Le due canadesi, tuttavia, non cambiano le loro sorti selezionando due solidi lunghi: i Raptors Marcus Camby con la 2, i Grizzlies Shareef Abdur-Rahim con la 3. Passa un altro campionato e il board dei Grizzlies – lo stesso dei Canucks in NHL – decide di cambiare strategia, iniziando a dare la caccia a giocatori magari non giovanissimi, ma che siano in grado di alzare immediatamente il livello.

Tra i GM stregati da T-Mac ce n’è uno di prim’ordine: si tratta di Jerry Krause dei Chicago Bulls, la squadra che aveva vinto cinque degli ultimi sette titoli NBA. Ma la stagione 1997-98 segna un’insanabile frattura tra ciò che era e ciò che sarà all’interno della franchigia dell’Illinois, quella che si rivelerà l’ultima di un ciclo incredibile, quella della Last Dance che Netflix ha portato nelle nostre case. Per creare i presupposti di un ringiovanimento chiaramente necessario, perché non cogliere l’occasione e portare un talento straordinario come McGrady?

La sponda è possibile, d’altro canto a Vancouver uno dei giocatori monitorati è Scottie Pippen.
L’eterno e strepitoso scudiero di Michael Jordan che nella sua storia non ha ancora mai vissuto un’esperienza da “primo violino”. Anche in passato è parso vicino a mollare i Bulls, è una scelta che sembra fattibile. Pippen a Vancouver e la pick numero 4 nella Città del Vento, una scelta che il GM utilizzerebbe per portare a casa Tracy McGrady. Tuttavia, Krause non ha fatto i conti con l’unico che ha un peso maggiore di lui: Michael Jordan. Il campione pone il suo veto sull’operazione con una minaccia che coglie nel segno:

Se vendi Scottie mi ritiro.

Un doppio addio eccessivo da sopportare, non è ancora il momento. Ci sono da scrivere alcune delle pagine più memorabili della storia della NBA, dal secondo Three-Peat a quello divenuto famoso come The last shot. Secondo alcuni, Krause ha anche un “piano B”: una trade con i Boston Celtics per ottenere le pick numero 3 e 6 in cambio dello stesso Pippen e di Luc Longley. Non è chiaro se ciò sia vero, l’unico fatto è che la trattativa salta e la sera del draft McGrady è all’interno dello Charlotte Coliseum senza conoscere il proprio destino, come tutti i ragazzi presenti. È in continua ascesa, ma ancora non abbastanza quotato per finire in Top 3.

I Grizzlies, con la 4, gli preferiscono Antonio Daniels, ennesima scelta scellerata di una franchigia destinata a durare ancora pochi anni, prima di essere trasferita a Memphis senza alcun onore raccolto. McGrady scenderà ancora e finirà alla pick numero 9. Ironia della sorte, sarà selezionato proprio dagli altri canadesi dei Toronto Raptors. Il primo treno è passato, T-Mac ha sfiorato un’entrata scenica in un contesto vincente. Destino ironico per uno che, a dispetto del talento sconfinato, verrà tacciato di essere un perdente.

 

Approccio in NBA

Nonostante report e premesse, l’approccio sul campo affonda le proprie radici anche su questioni diverse dalla cifra tecnica. Il giovane Tracy ha un fisico poco sviluppato e pesa meno di 90 kg, per lui non è semplice assorbire i contatti con i fisici ben più performanti dei cestisti che da anni giocano tra i professionisti. In tal senso, almeno un anno al college avrebbe potuto fare comodo, come evidenziato da alcuni esperti e finanche addetti ai lavori, quale il GM dei Golden State Warriors Dave Twardzik. Senza contare che l’aereo che lo ha portato all’ABCD Camp è stato il primo volo in vita sua, un altro aspetto da non sottovalutare, considerando il radicale mutamento di abitudini e bioritmi che lo avrebbe atteso in NBA.

T-Mac, come già detto, ha una venerazione per Anfernee Hardaway, Point guard degli Orlando Magic con uno stile di gioco estremamente cool a metà anni ’90. A Mount Zion aveva scelto la maglia numero 25 in onore della casacca indossata da Penny al college con i Memphis Tigers – squadra per cui militerà anche Chance, suo fratello minore – e si era ripromesso che, in caso di sbarco in NBA, avrebbe scelto la numero 1, quella indossata dal suo idolo a Orlando. Il ragazzo vola con la fantasia, sogna di fronteggiare Hardaway e, perché no, magari giocarci insieme. Detto fatto: ai Raptors la sua maglia è la 1.

Ma tornando con i piedi per terra, l’impatto con la NBA non è esattamente il migliore possibile: a Toronto resta per tre stagioni senza risultare mai uno starter – nella sua terza stagione finisce addirittura al terzo posto nella corsa come sesto uomo dell’anno – e collezionando cifre piuttosto modeste: 11,1 punti con appena il 28,4% da tre punti, 5,5 rimbalzi, 2,5 assist a partita e 1,6 palle perse a partita. Siamo decisamente lontani dal rendimento della prima scelta al draft, quel Tim Duncan finito ai San Antonio Spurs e vincitore del Rookie of the Year. Il talento delle high school sembra inizialmente essersi oscurato, sebbene la squadra abbia mostrato, nel complesso, dei miglioramenti. La prima stagione dei Raptors con T-Mac è sconcertante, con un record di 16-66 che manda i canadesi al draft con la 4: il board decide di scambiarla con i Golden State, in possesso della 5.

Una scelta che porta a Toronto un altro ragazzo proveniente da North Carolina, stavolta dal college: si tratta di Vince Carter, che è anche il cugino di terzo grado dello stesso McGrady. L’ultimo arrivato sarà destinato a grandi cose allo SkyDome e, soprattutto, all’Air Canada Center, casa dei Raptors a partire dalla stagione 1999-2000 che frutterà al ragazzo uno dei suoi soprannomi più noti – Air Canada, appunto. Alla prima stagione sarà in grado di incidere in maniera preponderante, aiutando la giovane franchigia a centrare la prima, storica qualificazione ai playoff.

È l’inizio di una saga, quella nata tra T-Mac e il primo turno dei playoff. Che però vedrà scriversi altrove il capitolo successivo: i Raptors vogliono crescere e, pur essendo stato palese il miglioramento nell’ultimo anno e l’ottima intesa con Carter, Tracy ha deluso. Nell’estate del 2000 viene quindi scambiato con i Magic in cambio della prima scelta del 2005. Nel frattempo, però, il suo idolo Penny Hardaway se n’è andato: non potrà giocare con lui ma potrà indossarne la casacca.

 

Il mondo conosce il vero T-Mac

Tornato nella natia Florida, McGrady dovrebbe essere il supporto della star della squadra Grant Hill. Dovrebbe, perché gli infortuni del compagno – che disputa appena 4 incontri in tutta la stagione – ne accrescono le responsabilità, rendendolo di fatto il leader tecnico della squadra. T-Mac risponde presente e prende per mano i Magic, con cifre e riconoscimenti di primissimo ordine: alla fine della prima stagione è nel secondo quintetto All-NBA, vince il premio di Most Improved Player, viene convocato all’All Star Game e finisce addirittura sesto nella classifica per l’MVP della Regular Season, incrementando significativamente le statistiche del già più che positivo ultimo anno in Canada: 26,8 punti, 7,5 rimbalzi e 4,6 assist a partita.

Nelle tre stagioni successive le cose andranno ancora meglio: McGrady entra due volte nel primo quintetto All-NBA e si laurea in altrettante occasioni miglior realizzatore stagionale per punti a partita, con il picco dei 32,1 punti a partita della stagione 2002-03. Sembra tutto in discesa, ma c’è qualcosa che lascia un velo di sospetto attorno alla sua figura, un rumore di fondo che sporca le belle parole sul suo talento, che fa male ad un ragazzo forte e ancora giovane: le sue squadre non fanno strada ai playoff. Forse è un individualista, uno che non migliora i compagni. Un perdente. Si pensa così.

E valgono poco i giudizi sulle prestazioni individuali, come quella che lo consacra al grande basket in Gara 3 contro i Milwaukee Bucks nel suo primo anno ai Magic. Se su un piatto della bilancia ci sono i 42 punti, 10 rimbalzi e 8 assist, sull’altro c’è il 3-1 in favore degli avversari e l’eliminazione. In contemporanea i Raptors, alla prima stagione senza di lui, hanno superato il primo turno. Sembra una maledizione e il peggio deve ancora venire. Nei due anni successivi, Orlando cade al cospetto di Charlotte (3-1) e Detroit (4-3 nel primo anno dei playoff al meglio dei sette incontri), quindi nel 2004 una serie di infortuni in squadra che determinano un record di 21-61. Un risultato disastroso che vale la prima scelta al draft e la distruzione del roster. Per McGrady è l’ora di trovarsi una nuova casa.

Un lungo riassunto della stagione 2002-03 di Tracy McGrady, miglior realizzatore NBA con oltre 32 punti di media a partita

 

Rimonta senza precedenti

Al Draft 2004 Orlando sceglie Dwight Howard con la 1 e Jameer Nelson con la 15. L’idea è ripartire dai due nuovi giovani, sacrificando gli altri. Anche T-Mac, nonostante tutto. Cinque giorni dopo entra a far parte di un maxi-scambio che lo porta in Texas, per la precisione agli Houston Rockets. Tracy è entusiasta di giocare con Yao Ming, straordinario centro cinese su cui sono riposte le speranze di trionfo della franchigia.

Se c’è un momento per sognare, quello è il 9 dicembre 2004 al Toyota Center di Houston: sul parquet amico arrivano i rivali dei San Antonio Spurs, che negli ultimi anni sono saliti a un livello superiore, tanto da raggiungere proprio i Rockets come squadra più titolata del Texas a quota due anelli. La partita sembra decisamente finita e non in gloria per i padroni di casa, sotto 76-68 a meno di un minuto dal termine. Quando la palla finisce tra le mani di T-Mac e da qui direttamente nel canestro dopo un tiro da 3. Secondi rimanenti: 35. I Rockets sono sotto di 5 punti. Con 24,3 secondi residui, c’è spazio per un’altra magia: gli Spurs hanno realizzato due punti, ma McGrady non ci sta. Alla sua finta abbocca nientemeno che Tim Duncan. Canestro da tre punti e fallo, recuperati altri quattro punti e -3. Poi un altro canestro avversario, altri 13 secondi passati e non basta neanche un difensore eccellente come Bruce Bowen per fermare McGrady, che mette altri tre punti a referto: 80-78 a 11,2 secondi dalla fine. Gli Spurs escono frastornati dal timeout, Devin Brown riceve ma scivola. Rubata di T-Mac che punta il canestro e spara: altra tripla, quella decisiva. È il sorpasso, 81-80 con 13 punti in 35 secondi realizzati dal nuovo arrivato. Houston vola con la fantasia, ma il sogno si tramuterà presto in un incubo. Soprattutto per il ragazzo di Auburndale.

La prestazione leggendaria di T-Mac: 13 punti in 35 secondi e clamorosa rimonta contro San Antonio

 

Maledetti infortuni

Sembra l’inizio della stagione della gloria e invece sarà l’inizio del calvario. Il primo duro colpo arriva sul campo: alla fine della regular season i Rockets sono quinti nella Western Conference e vengono abbinati, al primo turno dei playoff, ai Dallas Mavericks quarti classificati. Un nuovo derby texano ma stavolta con un esito decisamente diverso, dal momento che i Mavs vincono con un roboante +40 la decisiva Gara 7, eliminando T-Mac e compagni. Ancora un’eliminazione al primo turno, una maledizione. Ma è nulla in confronto a quanto accadrà a partire dalla stagione seguente.

Dall’annata 2005-06 Tracy McGrady conosce il vero nemico della sua carriera: gli infortuni. Già da inizio campionato accusa forti spasmi alla schiena che diventano insopportabili a gennaio, tanto da dover essere trasportato fuori dal parquet in barella. McGrady finisce per saltare addirittura 35 partite, le prestazioni dei Rockets crollano tanto da fallire la qualificazione ai playoff. Nell’anno seguente, anche grazie ad una serie di consulti specialistici, il ragazzo di Bartow trova continuità a livello di presenze, pur patendo alcune brutte prestazioni per il riacutizzarsi del dolore che, di fatto, spinge coach Jeff Van Gundy a considerarlo una seconda opzione offensiva, dando le chiavi dell’attacco a Yao Ming. L’orgoglio di McGrady si riaccende in concomitanza di un infortunio di Yao e dell’arrivo dei playoff: sta bene e si sente in dovere di dare qualcosa in più, vuole guidare la sua squadra al secondo turno e spezzare un tabù:

Se usciamo al primo turno sarà colpa mia.

Ma, anche stavolta, nulla da fare: ancora una sconfitta, ancora a Gara 7. Stavolta contro gli Utah Jazz e di soli 4 punti. Il destino è incredibilmente beffardo e offrirebbe una chance di riscatto un anno dopo, contro lo stesso avversario. T-Mac arriva al primo turno dei playoff dopo un’odissea che narra degli infortuni più disparati: 16 gare perse tra i soliti spasmi alla schiena, uno stiramento al gomito, un problema alla spalla sinistra e soprattutto uno al ginocchio. Gioca la serie sul dolore, parte piano e va in crescendo fino ai 40 punti di Gara 6. Non bastano, 4-2 per i Jazz e doppia condanna: eliminazione e operazione in artroscopia che gli vale uno stop di tre mesi.

È l’inizio della fine. Nei campionati precedenti si era comunque guadagnato la pagnotta, finendo praticamente sempre, tranne nella stagione delle 35 assenze, nei quintetti All-NBA. Ma il 2008-09 è l’anno del dolore per T-Mac, sia in senso figurato che letterale: dopo sole 11 partite sente una fitta e si allontana dal campo con una smorfia: operazione e tre mesi buttati al vento. Salta 47 partite, playoff compresi. i Rockets affrontano i Portland Trail Blazers senza di lui e, incredibilmente, superano il primo turno. Forse è vero che T-Mac è un perdente, sicuramente è vero che non serve alla causa. L’amore è finito, non c’entra solo la salute.

Nella stagione 2009-10 – in cui indossa per la prima volta una nuova maglia, la numero 3, ma di questo parleremo in seguito – sono solo sei gli spezzoni di una star in declino: gli infortuni lo hanno svuotato, la fiducia attorno a sé si è esaurita. È ora di cambiare aria e a dicembre entra in una trade che lo porta ai New York Knicks. Deluderà anche nella Grande Mela, con sole 24 partite con meno di 10 punti di media, prima di esplorare il mercato dei free agent. Di lui il suo ex allenatore Jeff Van Gundy dirà:

È un giocatore da Hall of Fame, un grandissimo giocatore. Purtroppo gli infortuni lo hanno privato prematuramente di quella grandezza.

Nell’estate del 2010 ha la chance di cancellare un rimpianto e approdare finalmente ai Chicago Bulls. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, in quei tredici anni. Non sono più i Bulls dei tempi d’oro ma sotto la guida del nuovo coach Tom Thibodeau e della stella nascente Derrick Rose si propongono di diventare la più credibile alternativa della Eastern Conference allo strapotere dei Miami Heat. Questi ultimi, freschi di firma di LeBron James e Chris Bosh, sono i candidati numero uno al titolo NBA. Per il basket di Thibodeau servono energie e spirito di sacrificio, Rose è entusiasta dell’idea di accogliere T-Mac. Che però non se la sente, non ha più le forze, vuole giocare per amore dello sport ma preferisce farlo in un contesto con meno aspettative.

Milita un anno nei Detroit Pistons e uno negli Atlanta Hawks, sempre uscendo dalla panchina, sempre con un apporto deludente. Ad Atlanta raggiunge anche i playoff ma al primo turno arriva un’altra batosta: sconfitta per 4-1 contro i Boston Celtics e, soprattutto, ottava serie disputata ai playoff e chiusa con una sconfitta. Ormai è finita, la maledizione è più grande della sua determinazione. Nel 2012 lascia la NBA e accetta la corte dei Qingdao Eagles, in Cina.

 

Favola senza lieto fine

C’è un’ultima pagina da scrivere in NBA. Uno come T-Mac non può chiudere la sua carriera senza mai superare un turno dei playoff, è profondamente ingiusto. In Cina si è allenato un po’, ha giocato 29 volte mettendo insieme 25 punti, 7,2 rimbalzi e 5,1 assist a partita. Sta bene e le sue doti sono fuori discussione, può essere utile anche a una squadra molto forte. A tendergli la mano è un avversario rispettato e più volte incrociato in carriera, quel Tim Duncan entrato nella storia come giocatore più forte dello stesso draft che ha introdotto il ragazzo da Mount Zion al mondo del professionismo. Quel campione entrato negli highlights della giornata di gloria più incancellabile della vita di McGrady, quei 13 punti in 35 secondi.

Dopo anni ai Rockets, stupisce vederlo con la maglia dei rivali dei San Antonio Spurs. Non è un protagonista, anzi: il suo ingaggio per i playoff 2013 è quasi simbolico. Al primo turno davanti agli Spurs si parano i Lakers: 4-0 per i texani. T-Mac entra per poco più di cinque minuti in una Gara 4 mai in discussione, praticamente solo per riscrivere la propria storia. Per la prima volta in carriera, gioca e vince una serie dei playoff. E ne vince altre due, 4-2 ai Golden State Warriors, altro 4-0 ai Memphis Grizzlies: in tutto tre volte sul parquet, meno di 12 minuti complessivi ma, visto che ci siamo, perché non sognare?

Gli Spurs sono alle Finals, dove affrontano i Miami Heat. McGrady è entrato sul parquet in Gara 2 e in Gara 3, facendo cose buone pur senza mai segnare. È in corso Gara 6, si gioca all’American Airlines Arena di Miami e gli Spurs sono avanti 3-2 nella serie. Il cronometro dice che mancano 19,4 secondi e il punteggio è 95-92 per i texani, ad un passo dal titolo. Sarebbe il quinto della loro storia ma, soprattutto, il primo per T-Mac, che non è sceso in campo ma tifa in maniera spasmodica come un rookie qualsiasi, sognando di prendersi, seppur da comparsa, ciò che il suo talento avrebbe meritato da protagonista.

Isolamento di Dwyane Wade che mette in ritmo LeBron. Tiro da tre, ferro. Si ferma il respiro di tutti: giocatori in campo, tifosi, appassionati, panchine. Anche quello di McGrady. Il sogno è vicino. Ma si fermano anche i lunghi di San Antonio, Bosh ha vita facile a rimbalzo, sull’angolo c’è Ray Allen solo, pronto per la specialità della casa, il tiro da tre. Entra, è il canestro del pareggio: 95-95. La partita teoricamente esiste ancora, ci sono 5 secondi, c’è l’eventuale overtime, c’è perfino Gara 7. Ma nei fatti quel canestro ha già cambiato tutto. Finirà 4-3 per i Miami Heat e quel lieto fine sulla storia di McGrady non sarà mai scritto. Perché, a serie finita, il nostro decide di ritirarsi definitivamente dal basket.

Sarà a suo modo nella storia, amato da tutti ma senza aver lasciato un profondo segno nel cuore di nessuno. Nel 2017 viene introdotto nella Basketball Hall of Fame, il primo di sempre a riuscirci senza che nessuna delle sue precedenti squadre abbia ritirato il suo numero di maglia. T-Mac è pronto per una nuova vita. Anzi, due.

 

Due sogni

Quante persone riescono a vivere due sogni?

Le parole sono di CleRenda, moglie di Tracy. E non si riferiscono al sogno di una famiglia felice, che i due costruiscono insieme dando alla luce la piccola Layla Clarice e Laymen Lamar. Parlano di sport, di quel passato a Auburndale. Nel 2014 Tracy ha 35 anni, il ragazzo che giocava in Florida ha fatto posto a un uomo che ha vissuto il sogno del basket. Ma da piccolo c’era anche il baseball e c’era il cugino CJ, morto prematuramente. T-Mac gli ha fatto una promessa: ha giurato che, laddove ne avesse avuto l’occasione, avrebbe fatto di tutto per giocare a baseball.

L’occasione arriva grazie ai Sugar Land Skeeters, squadra della Atlantic League che gli concede l’occasione di giocare come lanciatore. Una carriera molto breve, con appena 4 presenze in Regular Season e una all’Atlantic League All-Star Game, match in cui porta a casa il suo unico strikeout ed al termine del quale annuncia il ritiro. Pur non vantando un bottino da campione, dichiarerà di aver amato le trasferte in pullman, il cameratismo con i compagni e anche il brivido nello sfidare Lew Ford dei Minnesota Twins, considerato il Babe Ruth della Atlantic League. Alla fine c’è riuscito, ha vissuto due sogni e fatto sognare la gente. Ma Tracy McGrady non è solo basket e non è solo con un pallone in mano che è capace di far bene agli altri.

 

Per gli altri

Durante la sua carriera, McGrady ha sviluppato una grande propensione alle tematiche sociali. Mentre i compagni si rilassavano in quotate mete di villeggiatura, lui rivolgeva le sue attenzioni a esperienze che lo arricchissero e fossero utili a qualcuno. Su tutte, spicca la visita ai campi rifugiati del Darfur nel 2007, un’esperienza che l’ha toccato nel profondo, al punto di catalizzare alcune sue iniziative umanitarie. Negli anni a seguire, T-Mac avrebbe avviato raccolte fondi e campagne benefiche in favore dei popoli devastati dal conflitto nella regione sudanese. Del suo viaggio è stato anche girato un film-documentario dal titolo 3 Points, tanto che per pubblicizzarlo ha deciso di abbandonare la maglia numero 1 e indossare la numero 3.

Grazie all’amicizia con Yao Ming ha replicato questa esperienza in Cina, toccando con mano le difficoltà che si respirano in altre culture. Ha deciso di vivere un’esperienza professionale in Estremo Oriente anche per potersi addentrare ulteriormente nella cultura della Repubblica Popolare, ricevendo in cambio l’amore incondizionato dei suoi fan. Ma soprattutto, McGrady è stato il simbolo di un modo di pensare diverso dagli altri cestisti, non limitato alla carriera. Ha approfittato dei momenti bui degli infortuni per studiare e imparare come gestire se stesso e gli altri.

Così T-Mac ha cominciato a passare al vaglio aziende e a conoscere dirigenti assieme all’amico Rodney Woods, per intraprendere un piano ambizioso: permettere ai giocatori “in pensione” di investire i loro guadagni professionali in attività redditizie, con l’obiettivo di evitare il tracollo finanziario tipico dell’arricchimento improvviso e, al contempo, di creare occupazione nelle loro città d’origine, togliendo dalla strada i ragazzi problematici. Fin da subito l’idea ha raccolto il consenso di molti economisti, come Robert Pagliarini, che fa osservare come nessun ex sportivo abbia mai messo in piedi un tale sistema su larga scala. Ma è proprio l’amico e socio Woods a spiegare la bontà del progetto, in contrapposizione con gli investimenti di Magic Johnson per Starbucks, in alcuni quartieri malfamati:

Ok, ha aiutato molte persone. Ma quanti atleti sta salvando? Cosa ha mai fatto Magic per i colleghi? Ha mostrato agli atleti come avere successo? Devi mostrare all’atleta come si fa e Tracy lo sta facendo.

Questa partita è ancora lunga per McGrady. Un talento incredibile e sfortunato, che oggi coltiva la speranza di ottenere nell’ennesima nuova vita quel successo che avrebbe meritato sul parquet.

 


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Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.