Damon Hill, contro ogni pronostico

damon hill williams

Suzuka, 13 ottobre 1996. L’asfalto asciutto vibrava sotto le ruote della Williams mentre Damon Hill affrontava l’ultimo giro della sua corsa più importante. La macchina seguiva le curve come se le conoscesse a memoria. Non c’erano sorpassi da fare, nessuna minaccia alle sue spalle. Solo un lungo respiro trattenuto. Gli bastava arrivare in fondo. Niente errori, niente guasti, niente colpi di scena. Solo pochi chilometri tra lui e un titolo che nessuno gli avrebbe mai più potuto togliere. Il casco bianco con le due strisce blu e rosse oscillava leggermente a ogni cambio di direzione. Da fuori sembrava tutto sotto controllo, ma dentro l’abitacolo la tensione era un animale vivo. Hill non era un predestinato, non era mai stato il più veloce o il più amato. Ma era ancora lì. E per una volta, nessuno poteva fermarlo.

A pochi metri dal traguardo, la radio si accese.

“Damon… sei campione del mondo.”

Per qualche secondo non disse nulla. Poi, con la voce rotta dall’emozione, sussurrò: “Ho vinto ragazzi. Ho vinto il campionato del mondo.” Aveva vinto. Sul serio.

Damon non aveva riscritto la storia del suo sport, non aveva lasciato un’eredità tecnica o stilistica. Era un pilota che aveva trovato il suo spazio in un mondo che non sembrava fatto per lui. Aveva scoperto troppo tardi di poter essere veloce, e troppo presto che la Formula 1 non aveva più bisogno di lui. Per questo, quando lo guardavi, non vedevi un eroe. Vedevi un uomo.

Il figlio di Graham

Damon Hill nasce il 17 settembre 1960 a Londra, in una famiglia che vive di velocità. Suo padre, Graham, è una leggenda della Formula 1. Due volte campione del mondo, vincitore della 500 Miglia di Indianapolis e della 24 Ore di Le Mans, l’unico pilota della storia a conquistare la Tripla Corona del motorsport. Ma più di tutto, è un personaggio. Baffi impeccabili, eleganza da attore, battute pronte. Uno di quelli che non si limitano a correre, ma trasformano ogni vittoria in un evento.

Damon cresce nell’ombra di questa icona. Il mondo lo vede come il figlio del campione, ma lui non si sente parte di quel mondo. Mentre altri figli d’arte iniziano a correre da bambini, lui non tocca un kart. Preferisce la musica, la fotografia, le moto. Il rombo delle monoposto gli è familiare, ma non è un’ossessione. Poi, nel 1975, tutto finisce.

Graham Hill sta tornando in Inghilterra da Le Castellet con il suo aereo privato. C’è nebbia su Londra. L’aereo precipita poco prima dell’atterraggio. Muoiono tutti. Damon ha 15 anni. In un giorno solo, perde un padre, un mito e la stabilità economica. La Hill Racing Team, la scuderia fondata da Graham, fallisce nel giro di pochi mesi. La famiglia, abituata al lusso, si trova improvvisamente senza sicurezze. La madre è costretta a vendere i trofei del marito per sopravvivere. A quel punto, Damon capisce che, se vuole qualcosa, dovrà conquistarselo da solo.

Una strada diversa

Le corse restano sullo sfondo della sua vita. Studia fotografia, lavora come corriere per mantenersi. Solo a 23 anni, molto più tardi della maggior parte dei suoi colleghi, decide di provare seriamente con le competizioni. Ma non con le auto. Con le moto. Corre in gare nazionali, senza fare miracoli. La velocità lo affascina, ma le due ruote non sono la sua strada. Così, quasi per caso, passa alle monoposto. È già tardi per costruire una carriera di alto livello, ma non abbastanza per rinunciare.

Damon non è un talento precoce. Nelle categorie minori non fa scalpore. Non è un giovane Senna, né un nuovo Prost. Un pilota discreto, nulla di più. Entra nel giro della Formula 3, poi nella Formula 3000, dove ottiene qualche buon risultato ma senza mai dare l’impressione di essere destinato alla Formula 1. Ma ha qualcosa che i team iniziano a notare: un’etica del lavoro feroce, una capacità rara di analizzare la macchina, una serietà estrema che lo rende affidabile. Ed è proprio questo che, nel 1991, gli apre le porte della Williams. Non come pilota titolare. Ma come collaudatore.

In un’epoca in cui la Formula 1 sta diventando sempre più dipendente dalla tecnologia, il ruolo del test driver è fondamentale. La Williams sta sviluppando una macchina rivoluzionaria, la FW14B, con sospensioni attive, controllo di trazione e cambio automatico. È un’auto che sembra arrivare dal futuro. A guidarla in gara è Nigel Mansell, un pilota che vive di aggressività e spettacolo. Al suo fianco c’è Riccardo Patrese, un veterano con esperienza e affidabilità.

Hill non è nessuno in confronto a loro. Ma mentre Mansell lotta per il titolo, lui accumula chilometri nei test. Gira a Silverstone, studia l’assetto, raccoglie dati. Non fa dichiarazioni alla stampa, non chiede nulla. Lavora nell’ombra. Poi, nel 1992, la svolta: Mansell vince il mondiale e lascia la Formula 1 per l’IndyCar; Patrese se ne va alla Benetton; Alain Prost arriva per prendere il posto di Mansell. La Williams si ritrova con un sedile libero. Frank Williams guarda intorno e prende una decisione sorprendente: promuove il suo collaudatore.

Debutto e tragedia

Damon Hill debutta come pilota titolare della Williams nel 1993. Accanto a lui c’è Prost, un quattro volte campione del mondo che sta per vincere il suo quinto titolo. Hill è il perfetto gregario: disciplinato, mai polemico, disposto a lavorare per la squadra. Ma la stagione non è solo un apprendistato. A metà anno, con Prost già lanciato verso il titolo, arriva la prima vittoria. E non è un caso isolato. Vince a Budapest, vince a Spa, vince a Monza. La Williams è imbattibile e Hill si dimostra all’altezza. Non è Senna. Non è Prost. Ma vince. E tanto basta per garantirgli un posto anche l’anno successivo. Quello che non sa è che il 1994 sarà l’anno più difficile della sua carriera.

Alain Prost si ritira e la Williams ingaggia Ayrton Senna. Il brasiliano è l’uomo su cui il team vuole costruire il futuro. Hill è di nuovo un gregario, una presenza quasi invisibile in confronto alla leggenda che gli siede accanto. Ma la FW16 non è la macchina perfetta che tutti si aspettavano. Senza le sospensioni attive, senza l’elettronica sofisticata delle versioni precedenti, la Williams diventa nervosa, instabile. Senna, abituato a vetture perfette, fatica a trovare il feeling giusto.

Si arriva a Imola. Il venerdì, Rubens Barrichello si schianta a 200 km/h. Se la cava con qualche ferita, ma la dinamica dell’incidente è spaventosa. Il sabato, Roland Ratzenberger muore in qualifica. La Formula 1 è scossa, ma nessuno si ferma. La domenica, al settimo giro del Gran Premio di San Marino, Ayrton Senna si schianta alla curva del Tamburello. Morirà poche ore dopo. Imola 1994 è una delle pagine più buie della storia della Formula 1. Per la Williams, è un trauma senza precedenti. Per Hill, è l’inizio di un incubo. Doveva essere il secondo pilota di Senna. In un attimo, si ritrova a essere il numero uno.

Il duello impari con Schumacher

La morte del brasiliano lo lasciò solo, in una squadra ferita, con il compito impossibile di riempire un vuoto che non si poteva riempire. La Benetton di Michael Schumacher era più veloce, più agile, più stabile. Il tedesco vinse le prime sei gare della stagione. Hill, al contrario, sembrava fuori posto: un pilota disciplinato ma non un fuoriclasse, uno che faceva il suo ma non accendeva l’immaginazione di nessuno. Poi, però, qualcosa cambiò.

Schumacher venne squalificato a Silverstone per un’irregolarità in griglia, poi fu escluso dalla gara a Spa per un fondo vettura non regolamentare. Hill ne approfittò, vincendo tre gare consecutive. Si arrivò così all’ultima gara della stagione, ad Adelaide. Un punto di distacco tra Schumacher e Hill. Chi arrivava davanti, vinceva il mondiale. La gara durò appena 36 giri. Schumacher andò lungo, toccò il muro e danneggiò la sua Benetton. Hill vide l’occasione, si infilò alla curva successiva per sorpassarlo. Il tedesco chiuse la traiettoria con brutalità. Le due macchine si toccarono. Schumacher finì contro il muro. Hill continuò, ma la sospensione della sua Williams era rotta. Gara finita. Mondiale finito. Schumacher campione.

Hill tornò ai box in silenzio, senza fare polemiche. Il suo primo vero duello per il titolo si era chiuso così: con una collisione, un’occasione persa, un’altra dimostrazione che in Formula 1 non basta essere corretti. Bisogna essere spietati. Lui, in quel momento, non lo era ancora.

Il 1995 servì solo a umiliarlo. Hill aveva sfiorato il titolo nel ‘94, ma perché Schumacher era stato fermato più dalla FIA che dagli avversari. Ora non c’erano più scuse. A Monza, Schumacher lo costrinse all’errore. A Spa, lo superò all’esterno sotto la pioggia, come si fa con i dilettanti. A Silverstone, Hill perse la testa e lo buttò fuori. Ma neanche quello servì a fermarlo. Alla fine della stagione, il distacco era abissale: Schumacher vinse il mondiale con 102 punti, Hill si fermò a 69. Non c’erano più dubbi. Hill era un buon pilota. Ma non era Schumacher. E probabilmente non lo sarebbe mai stato.

Licenziate il campione del mondo

Nel 1996, però, lo scenario cambiò di nuovo. Schumacher lasciò la Benetton per la Ferrari, una macchina ancora troppo lenta per competere. La Williams, invece, costruì la FW18, un’auto perfetta, la più dominante della griglia. Hill aveva il compagno di squadra ideale: Jacques Villeneuve, un rookie con talento ma inesperto. Era l’anno giusto. Hill lo sapeva.

Non commise errori. Vinse otto gare, controllò il campionato, arrivò a Suzuka con il titolo già praticamente assegnato. Per una volta, non c’erano variabili. Niente Schumacher, niente colpi proibiti. Tagliò il traguardo e pianse. La voce tremava mentre parlava via radio con il team. Dopo anni di sconfitte, di umiliazioni, di confronti persi, era campione del mondo. Era il giorno più bello della sua carriera. Fu anche l’inizio della fine.

Per qualsiasi pilota, vincere un mondiale è il punto di partenza. Per Damon Hill fu la fine. Frank Williams non lo aveva mai visto come il leader della squadra. Lo rispettava, certo. Ne apprezzava la professionalità, la disciplina, il metodo di lavoro. Ma non lo considerava un pilota attorno a cui costruire il futuro. Già a metà stagione, quando il titolo non era ancora stato vinto, la Williams aveva deciso di scaricarlo. Al suo posto arrivò Heinz-Harald Frentzen, un tedesco con ottime credenziali tecniche, ma nessuna esperienza ai massimi livelli. Hill, campione del mondo in carica, si ritrovò senza un sedile competitivo.

La Ferrari aveva Schumacher. La McLaren puntava su Häkkinen. La Benetton guardava altrove. Le porte delle squadre migliori erano chiuse. Alla fine, firmò per la Arrows, una scuderia senza vittorie, con un budget ridotto e un motore Yamaha poco competitivo. Era il segnale definitivo: Hill aveva raggiunto il vertice, ma la Formula 1 non lo considerava un campione di lungo corso. Poi, però, nell’estate del 1997, fece qualcosa che nessuno avrebbe mai previsto.

Il giorno in cui Damon batté tutti

Il 10 agosto 1997, il Gran Premio d’Ungheria sembrava una formalità. La Williams di Jacques Villeneuve era la macchina più forte, Michael Schumacher partiva davanti, e Damon Hill era in mezzo al gruppo, come al solito. Già dalle prove libere, Hill si accorse che la Arrows aveva un comportamento anomalo. Le gomme Bridgestone, che fino a quel momento erano state inferiori alle Goodyear, funzionavano incredibilmente bene su quell’asfalto surriscaldato. In qualifica, Hill fece il terzo tempo, una posizione impensabile per una Arrows.

Al via, partì bene e si infilò subito dietro Schumacher. Dopo pochi giri, lo superò. Non con una manovra disperata, non con un colpo di fortuna. Semplicemente, la sua macchina andava più veloce. Damon Hill, con una Arrows, stava dominando un Gran Premio. Giro dopo giro, il distacco aumentava. Nessuno poteva fermarlo. A dieci tornate dalla fine, aveva la vittoria in pugno. Poi, la macchina iniziò a rallentare. Un guasto idraulico tolse potenza al cambio, Hill perse velocità. La Williams di Villeneuve si avvicinò sempre di più, fino a superarlo a due giri dalla fine. Hill chiuse secondo. Non vinse. Ma quella gara restò il suo vero trionfo morale.

Nel 1998, Hill firmò con la Jordan, una squadra piccola ma ambiziosa. A Spa, sotto una pioggia torrenziale, in una delle gare più caotiche della storia, vinse il suo ultimo Gran Premio. Fu anche la prima vittoria della storia della Jordan. Nel 1999 si rese conto che non aveva più niente da dimostrare. Non voleva più lottare per rimanere in Formula 1. Si ritirò senza fare troppo rumore.

Damon Hill, senza maschere

Dopo il ritiro, Hill non si attaccò al paddock come tanti altri ex campioni. Non cercò un ruolo da team principal, non volle fare il commentatore. Si prese del tempo per sé. E, per la prima volta, si lasciò andare. In diverse interviste ha raccontato di aver vissuto anni difficili dopo il ritiro. Ha sofferto di depressione, si è trovato in crisi di identità. Non era più un pilota, non era più sotto i riflettori. Doveva reinventarsi, trovare un nuovo equilibrio.

Ci riuscì lontano dalle piste, dedicandosi alla musica, alla famiglia, a una vita senza l’ossessione per la velocità. Oltre alle corse, Hill ha sempre nutrito una profonda passione per la musica. Durante la sua carriera, ha suonato con artisti del calibro di George Harrison e ha partecipato a band come The Conrods, esibendosi in cover di Rolling Stones e Beatles. Dopo il ritiro, ha dedicato più tempo a questa passione.

Damon Hill rimane una figura rispettata nel mondo del motorsport. La sua presidenza al British Racing Drivers’ Club ha portato a importanti rinnovamenti del circuito di Silverstone, garantendo il futuro del Gran Premio di Gran Bretagna. Oggi, quando si parla dei grandi campioni della Formula 1, il suo nome è sempre in bilico. Non viene citato tra i più talentuosi, non viene ricordato con la stessa intensità di un Senna o di un Schumacher. Hill, del resto, non ha mai tentato di diventare un’icona. Ha solo continuato a guidare. Un giorno dopo l’altro, una curva dopo l’altra. Fino al traguardo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *