Nel basket esistono giocatori che sono ingranaggi perfetti, facilitatori silenziosi, interpreti discreti di un sistema. E poi ci sono quelli che vedono la partita da una prospettiva diversa, come se il tempo scorresse più lentamente per loro, come se il campo fosse un enorme scacchiere da manipolare a proprio piacimento. Rajon Rondo è stato uno di questi. Ma raccontare Rondo è complicato. Non basta parlare del palmarès, dei due titoli con Celtics e Lakers, le due franchigie più vincenti della NBA, degli assist illuminanti o della sua difesa a tratti letale. Per capirlo davvero bisogna entrare nella sua testa, in quel labirinto di ossessioni, intuizioni e contraddizioni che lo hanno reso uno dei giocatori più affascinanti – e a tratti frustranti – della sua epoca.
È un uomo difficile Rondo, un playmaker fuori dagli schemi, un talento che sfidava il concetto stesso di leadership e collettivo. Un giocatore che si sentiva sempre il più intelligente sul campo – e il più intelligente nella stanza – e che a volte giocava con il fastidio di chi è costretto a confrontarsi con avversari e compagni che non vedono il basket al suo stesso livello. Ma era anche un vincente. Quando le partite contavano davvero, quando il caos diventava la normalità, Rondo emergeva. Come una sorta di scienziato pazzo del basket, pronto a risolvere equazioni che nessun altro era in grado di comprendere.
Rajon Rondo, inquietante lucidità
Ogni tanto nella NBA emerge un giocatore con una visione del gioco fuori dal comune, uno capace di anticipare le mosse avversarie con una lucidità quasi inquietante. Rondo era quel tipo di giocatore, ma con una differenza sostanziale: la sua mente correva troppo veloce per essere imbrigliata in qualsiasi schema tradizionale. Kevin Garnett, uno che di basket ne capiva abbastanza, diceva che Rondo vedeva due o tre azioni avanti rispetto agli altri. Paul Pierce raccontava che negli spogliatoi, prima delle partite, lo trovava spesso seduto con un quaderno in mano, a prendere appunti sulle tendenze degli avversari.
Questa sua capacità di leggere il gioco gli ha permesso di essere dominante senza mai essere un grande realizzatore. Per la maggior parte della carriera ha avuto un tiro incostante e un gioco offensivo privo di grandi soluzioni individuali, ma compensava con un’intelligenza cestistica fuori scala. Rondo giocava una partita tutta sua, una sorta di partita a scacchi in tempo reale. Usava il palleggio non solo per creare vantaggi, ma per manipolare la difesa, attirare attenzioni inutili, costringere un lungo a uscire mezzo secondo prima del dovuto per poi punirlo con un passaggio impossibile da leggere.
Il suo utilizzo del cambio di velocità era altrettanto unico. Non era veloce come Derrick Rose, non era potente come Russell Westbrook, ma aveva una capacità incredibile di gestire il ritmo della partita. Giocava con un’andatura che sembrava casuale, rallentava, aspettava, poi all’improvviso accelerava per un attimo, quel tanto che bastava per creare un vantaggio e far crollare il sistema difensivo avversario. Eppure, proprio questa intelligenza superiore è stata anche il suo limite più grande.
Il problema di essere troppo intelligenti
Nel mondo della NBA, essere il più intelligente in campo non sempre è un vantaggio. Se pensi troppo avanti rispetto agli altri rischi di perdere la connessione con il gioco. Se vedi movimenti che i tuoi compagni non vedono, le tue intuizioni diventano un ostacolo. Rondo ha avuto momenti in cui sembrava un direttore d’orchestra capace di far suonare un quintetto come una sinfonia perfetta. Ma in altre situazioni, il suo modo di vedere il basket si scontrava con la realtà di un sistema troppo rigido per lui. Nel 2011, dopo una partita contro i Miami Heat, un giornalista gli chiese come avesse fatto a intercettare così tanti passaggi di LeBron James. Rondo rispose
LeBron ha tre passaggi che fa sempre. Il problema è che non se ne rende conto.
Ecco, il problema di Rondo è che spesso sapeva più cose di quante i suoi compagni potessero capire. Era un leader atipico, un punto di riferimento per chi sapeva stare al suo passo, ma anche un giocatore difficile da gestire. Non è un caso che la sua carriera sia stata piena di momenti di frizione con allenatori e compagni di squadra.
L’impatto difensivo
Se Rondo è stato un playmaker unico in attacco, in difesa era altrettanto speciale. I migliori difensori sul perimetro si dividono in due categorie: quelli che vincono con il fisico e quelli che vincono con la testa. Rondo, pur non avendo un corpo progettato per difendere alla Jrue Holiday, era un difensore d’élite per pura intelligenza tattica. La sua capacità di leggere il gioco gli permetteva di rubare o deviare palloni con una frequenza impressionante. Non aveva bisogno di scivolare sul blocco come un difensore tradizionale: spesso anticipava il passaggio prima ancora che venisse effettuato.
Uno dei suoi marchi di fabbrica era la difesa off-ball, un’arte che molti playmaker trascurano. Rondo sapeva dove posizionarsi senza neanche guardare la palla, sfruttando il linguaggio del corpo degli avversari per prevedere il prossimo movimento. In questo senso, un aneddoto interessante arriva da Kevin Durant. Durante una partita tra Thunder e Celtics, Durant stava correndo verso il lato debole per ricevere uno scarico da Westbrook. Mentre si muoveva, Rondo gli sussurrò: “Non arriverà”. E infatti, prima che il passaggio potesse raggiungerlo, Rondo lo intercettò. Quel tipo di intuizione era qualcosa che non si insegnava. Era puro istinto e studio del gioco.
Ma oltre a essere un grande lettore difensivo, Rondo era anche un difensore one-on-one molto più efficace di quanto si pensi. Nonostante la statura relativamente contenuta (circa 185 centimetri), aveva braccia incredibilmente lunghe e mani enormi, che gli permettevano di disturbare il palleggio degli avversari e contestare i tiri meglio di quanto suggerisse la sua altezza.
Il difficile rapporto con i compagni
Se c’è un aspetto che ha sempre accompagnato Rondo nella sua carriera, è stato il suo rapporto complicato con i compagni di squadra. Il suo modo di rapportarsi agli altri, infatti, oscillava tra il rispetto assoluto per chi era all’altezza della sua intelligenza cestistica e l’insofferenza totale verso chi non lo era. Garnett, uno dei pochi con cui Rondo ha avuto un rapporto solido, lo descriveva come un “piccolo genio testardo”. Ma KG era un maniaco della competizione e dello studio del gioco, quindi riusciva a capirlo. Lo stesso non si poteva dire di tutti.
Ray Allen, che ha condiviso con lui anni importanti a Boston, ha raccontato più volte di come Rondo fosse un personaggio difficile da decifrare. Il loro rapporto si deteriorò al punto che, anni dopo, Allen dichiarò che il motivo per cui lasciò i Celtics nel 2012 per andare a Miami non fu solo la possibilità di vincere un altro titolo, ma anche le tensioni con Rondo. La dinamica con Paul Pierce era più neutrale: si rispettavano, ma non erano mai stati particolarmente vicini fuori dal campo.
Dopo il primo titolo vinto con Boston nel 2008, Doc Rivers cercò di dare progressivamente sempre più responsabilità a Rondo, ma il playmaker non sempre si adattò bene al ruolo di leader vocale. Era una guida tecnica, un punto di riferimento per la squadra, ma non un uomo-spogliatoio capace di unire il gruppo nei momenti di difficoltà. Questa tendenza lo ha accompagnato in tutte le squadre in cui ha giocato.
A Dallas, Rick Carlisle non riuscì a gestire il suo atteggiamento. A Sacramento, DeMarcus Cousins – altro giocatore difficile da domare – lo rispettava per il suo talento, ma non sempre lo sopportava a livello umano. A Chicago, Jimmy Butler e Dwyane Wade lo videro come un estraneo rispetto alla loro idea di leadership. Solo ai Lakers, nel 2020, trovò finalmente un ambiente in cui riuscì a essere parte integrante di un gruppo vincente senza attriti. Ma c’era una ragione chiara: in quella squadra c’era LeBron James, l’unico giocatore che Rondo considerava alla sua altezza dal punto di vista della comprensione del gioco. E infatti, nonostante qualche normale incomprensione, il rispetto reciproco tra i due è stato evidente per tutta la stagione. Rondo ha accettato di giocare un ruolo secondario, diventando un pezzo chiave della squadra senza voler essere necessariamente la mente dietro tutto.
Gli altri playmaker della sua epoca
Per comprendere l’unicità di Rajon Rondo, è interessante confrontarlo con gli altri grandi playmaker della sua generazione.
- Chris Paul era il playmaker perfetto: razionale, efficiente, metodico. Rondo, al contrario, giocava con il caos, affidandosi più all’istinto che alla perfezione tecnica.
- Stephen Curry ha cambiato il gioco con il tiro da tre punti, mentre Rondo ha passato una carriera intera senza mai sviluppare un tiro affidabile.
- Russell Westbrook era un esplosione di atletismo e potenza fisica, mentre Rondo basava tutto sulla sua mente.
- Tony Parker era un maestro nel segnare al ferro con la sua velocità e il suo controllo del corpo, mentre Rondo cercava sempre il passaggio invece del tiro.
- Deron Williams, per un periodo, era considerato il miglior playmaker della NBA. Ma mentre la sua carriera è tramontata rapidamente, Rondo ha saputo rimanere rilevante molto più a lungo grazie alla sua capacità di adattarsi ai contesti giusti.
In un’epoca in cui il ruolo del playmaker stava cambiando, diventando sempre più orientato al tiro e alla creazione individuale, Rondo è stato l’ultimo esemplare di una specie in via d’estinzione: il playmaker puro, quello che prima di tutto pensava a mettere in ritmo i compagni. Il fatto che sia riuscito a vincere due titoli NBA, a distanza di dodici anni l’uno dall’altro, dimostra che la sua intelligenza cestistica era talmente superiore da renderlo un giocatore sempre utile, indipendentemente dall’evoluzione del gioco.
Ossessione per il gioco, mentalità ultra-competitiva
Rondo era ossessionato dal basket. L’aneddoto del quaderno in cui prendeva appunti sulle abitudini degli avversari è noto, ma non è l’unico esempio della sua attenzione maniacale per i dettagli. Durante la sua carriera, ha sviluppato una memoria quasi fotografica per i playbook delle squadre avversarie. Più di una volta, si dice che abbia corretto i suoi allenatori su schemi e strategie degli avversari, ricordando dettagli che nemmeno lo staff tecnico aveva annotato. Nel 2018, quando giocava per i New Orleans Pelicans, raccontò di aver imparato a memoria l’intero playbook dei Golden State Warriors per cercare di anticiparne le mosse nei playoff.
La sua competitività, però, andava oltre lo studio del gioco. Era famoso per le sue sfide in allenamento, per il suo rifiuto di perdere anche le partite più insignificanti. C’è una storia che racconta come, durante un allenamento con i Celtics, avesse sfidato Garnett a una gara di tiro da tre punti. KG rise, sapendo che Rondo era uno dei peggiori tiratori della squadra. Rondo vinse. Poi se ne andò senza dire una parola. Era fatto così. Orgoglioso, testardo, determinato a dimostrare di essere sempre il più intelligente e anche il più furbo.
L’eredità di un genio imperfetto
Oggi, con la sua carriera ormai alle spalle, è difficile trovare un altro giocatore simile a Rajon Rondo. Non era un playmaker raffinato alla Chris Paul, non era un realizzatore come Stephen Curry, non era un difensore dominante come Gary Payton. Eppure, aveva qualcosa che pochi altri possedevano: una mente che lavorava a una velocità superiore. Il suo problema – o forse la sua unicità – è stato quello di essere sempre un passo avanti a tutti, al punto da risultare incompatibile con il sistema in cui giocava.
Per certi versi, è stato un giocatore anacronistico. Troppo geniale per essere un semplice regista, troppo imprevedibile per essere il leader di una squadra, troppo talentuoso per essere ignorato. Se avesse giocato negli anni ‘80, in un’epoca in cui il basket era meno strutturato, forse sarebbe stato uno dei più grandi playmaker della sua generazione. Se avesse avuto un tiro più affidabile, sarebbe stato considerato tra i migliori di sempre. Ma la realtà è che Rondo è stato semplicemente Rondo. Un giocatore unico, inclassificabile, capace di accendere la magia in una partita come pochi altri. Un genio imperfetto, molto umano.