“Venghino, signori, venghino”. Se la Furtenbach Adventures fosse una catena di negozi italiana, queste parole non stonerebbero sulle sue vetrine. L’espressione, spiega l’Accademia della Crusca, è usata per attrarre il pubblico a pagare per assistere a fenomeni scarsamente credibili. In questo caso non si tratterebbe di assistere, bensì di partecipare a un’esperienza ai limiti della plausibilità. La Furtenbach Adventures è l’agenzia austriaca che a inizio 2025 ha lanciato una nuovissima e scintillante proposta per vivere un’avventura, appunto, unica ad alta quota. Il piano di viaggio prevede la scalata dell’Everest in tre giorni, una tempistica assolutamente fuori scala rispetto agli standard di questo mondo. In barba a quegli sfaticati degli sportivi che studiano, si allenano e passano lunghi periodi in quota per acclimatarsi! D’altronde, “l’alpinismo non è uno sport organizzato” insiste Lukas Furtenbach, titolare dell’agenzia.
Il doping non esiste, o meglio non è categorizzato né punito, quindi via libera all’utilizzo dello Xenon. Il gas incrementa la produzione di globuli rossi, che hanno il compito di trasportare ossigeno nel sangue, aiutando l’organismo ad acclimatarsi più rapidamente.
Come sono cambiati gli obiettivi dell’alpinismo
Sorge però spontaneo più di qualche dubbio: e la sicurezza? In montagna, soprattutto a quelle quote, la vita dell’uomo cammina su una piccolissima cresta e resta in bilico appesa a un filo che potrebbe non essere sufficiente in caso di distrazioni troppo grandi. Ma perché l’uomo si ostina a rischiare la vita in montagna? Certo, anche in questo caso rimane innegabile la differenza tra alpinismo sportivo, turistico e amatoriale. E l’alpinismo non può essere uno sport regolamentato da rigidi dettami perché l’obiettivo non è facilmente riassumibile in un’azione. Lo scopo del calcio è far in modo che il pallone oltrepassi la linea di porta restando dentro ai pali degli avversari, nel basket si mira a far passare la palla all’interno dell’anello del canestro avversario. Nell’alpinismo non c’è nulla di tutto ciò.
A pensarci bene, stabilire come obiettivo il raggiungimento della cima della montagna sarebbe riduttivo perché poi occorre anche tornare indietro vivi. Ma non solo. L’esperienza è composta da ciò che sta in mezzo, anzi è forse proprio il percorso ad animarla. Occorre dare un valore al viaggio, alle energie impiegate. Per cosa, poi? La risposta non può che essere soggettiva, però per provare a intravedere un motivo, occorre guardarsi intorno.
La schiena di Maurice Herzog poggia comodamente su una morbida poltrona colorata, i capelli bianchi e i baffetti sottili incorniciano il volto tondo, negli occhi si accende uno sguardo fiero e sulle labbra si disegna un sorriso beffardo. Le poche falangi che restano sulle mani, in memoria delle avventure estreme, stringono un libro con il rivestimento sottile e sgualcito. “Annapurna. L’eroica conquista della montagna più alta mai scalata dall’uomo. Maurice Herzog, capo della spedizione himalayana francese.” Così recita la copertina che lo ritrae cinquantasei anni prima.
Era avvolto nel suo tutone blu protetto dal cappello bianco e dagli occhiali scuri su un ripido pendio innevato mentre impugnava la piccozza da cui sventolava la piccola bandiera francese. Il 3 giugno 1950 Herzog, insieme a Louis Lachenal, era in vetta all’Annapurna. L’uomo aveva abbattuto un altro limite: per la prima volta nella storia era arrivato a toccare una cima che supera gli 8.000 metri di altitudine. Il libro ripercorre quei tre mesi epocali e si chiude così:
L’Annapurna, verso cui eravamo andati a mani nude, è un tesoro sul quale dovremo vivere per il resto dei nostri giorni. Con questa coscienza giriamo pagina: una nuova vita comincia. Ci sono altre Annapurna nella vita degli uomini.
Passano gli anni e si aggiungono modi, anche estrosi, di intendere le avventure in montagna. La Capanna Margherita sullo sfondo, il grande tatuaggio sulla schiena coperto dal piumino nelle cui tasche si rifugiano le mani lasciando fuori l’appariscente orologio. Il cappellino con la visiera e gli occhiali specchiati nascondono lo sguardo, il sorriso che spunta dai baffetti è spavaldo. I pantaloni avvolgono solo la parte alta dell’energico polpaccio. Sotto la pelle nuda non si vedono le calze e le scarpe poggiano sotto il malleolo prive di ramponi. Per raggiungere i 4.554 metri di altitudine del rifugio più alto d’Europa è sufficiente allenamento adeguato, onesta conoscenza della montagna e attrezzatura adatta.
Il suo allenamento e la sua esperienza sono, certo, poco discutibili, ma l’abbigliamento di Nirmal Purja ha sollevato più di una polemica. Nel 2019 gli erano bastati 6 mesi e 6 giorni per scalare tutti e quattordici gli Ottomila. Tre anni dopo passeggiava con scarpe da trekking tra le vette del Massiccio del Rosa. Alle polemiche rispondeva:
So quello che faccio, va bene così. Quel che ho raggiunto nessuno lo aveva fatto prima di me. Per me non è così difficile, anche mia nonna può farlo.
Herzog e Purja sono alpinisti di fama mondiale. Classe 1919, Herzog era a capo della spedizione che avrebbe dovuto risollevare l’immagine della Francia dopo il disastroso risultato nella Seconda guerra mondiale. I cugini d’Oltralpe, dopo essere stati liberati dagli Alleati, erano in cerca di quel riscatto che potesse inorgoglire il popolo e far riemergere l’intera nazione. Sul finire degli anni ’40, erano gli inglesi e i tedeschi ad aver dimostrato il maggior interesse per quelle vette tanto alte e tanto misteriose. I francesi erano gli underdog, chiamati a tentare senza grosse aspettative questa rischiosa scommessa. Partiti con l’idea di scalare il Dhaulagiri, si erano ritrovati sulla cima dell’Annapurna quasi senza consapevolezza. Una scommessa pagata a caro prezzo, con molti protagonisti che hanno subito amputazioni multiple. Ma erano riusciti, proprio allo scadere della finestra temporale disponibile, a toccare la vetta e regalare alla Francia la soddisfazione di cui aveva bisogno.
Per Purja, invece, la sfida era personale. L’obiettivo era “semplicemente” stabilire il record e diventare l’uomo più veloce ad aver scalato i quattordici Ottomila. Il primo ad aver collezionato tutte le figurine di questo speciale album è stato Reinhold Messner, che nel 1986 aveva toccato tutte le vette nell’arco di 16 anni, peraltro raggiungendole in stile alpino. Nel 2019 Purja ha sfruttato le comodità moderne, facendosi aiutare da elicotteri, ossigeno e portatori. Ma il destino è imprevedibile. Ad oggi, Purja è e rimane l’uomo più veloce ad aver scalato tutti gli Ottomila, ma non è il più veloce in assoluto. Oggi il record è detenuto da Kristin Harila. La donna norvegese, infatti, nel 2023 ha impiegato solo 92 giorni per salire tutte le cime più alte della Terra.
Purja è sempre animato dal senso della sfida con se stesso. Questo è emerso anche nel 2021 quando, insieme ad altri nove alpinisti nepalesi, toccava per la prima volta in inverno la cima del K2. Questo rimane un record che nessuno gli potrà portare via, per di più considerando che era l’unico del gruppo a salire senza ossigeno supplementare. Proprio il 16 gennaio 2021 è la data che sancisce la fine delle prime volte. Era la prima volta che un team di soli nepalesi stabiliva un primato. In vetta sorridevano. Sapevano di aver espugnato anche l’ultimo baluardo di ciò che rimaneva inesplorato alle altissime quote.
La “conquista dell’inutile”, a costo della vita
E allora, adesso che tutte le cime più alte della Terra sono ormai state raggiunte sia in invernale sia in estiva, cosa resta all’alpinismo? L’alpinismo è sempre stato conquista e scoperta, la perfetta commistione tra la smania di essere i primi a raggiungere la vetta e la voglia di vivere un’esperienza in territori inesplorati. Se la conquista è l’acquisizione di qualcosa con un grande sforzo, la scoperta è la conoscenza di qualcosa che prima era oscuro. Dal 2021, nessuno degli Ottomila è più in grado di offrire entrambe le soddisfazioni in contemporanea. La scoperta e la conquista, infatti, hanno una grande differenza intrinseca: il tempo.
Il momento rilevante per la conquista è solo quello finale, quando è raggiunta la cima. La scoperta avviene quando lo sguardo può andare oltre, dove non è mai andato prima. È un istante che prescinde dal raggiungimento di un obiettivo per il semplice fatto che, dell’esistenza stessa di quell’obiettivo, non sempre se ne ha contezza. L’alpinismo è anche ricerca e sfida del limite.
È curioso come per i Romani i limiti fossero quelle sacre pietre che segnavano i confini. A pensarci bene, anche le montagne possono rientrare in questa stessa definizione. Non è difficile immaginare che nel secondo dopoguerra anche i risultati sportivi potessero assumere importanza collettiva per ogni nazione, potendo quindi coesistere tutti gli ingredienti. Oggi, altrettanto, non è facile biasimare chi si inventa nuove sfide per spostare quel limite e continuare a tenere vivo il sogno di “conquistare l’inutile”, come scrisse Lionel Terray, che tra l’altro fu compagno di spedizione di Herzog.
Occorre, però, considerare che per gli antichi Romani quel limes, l’insieme delle pietre sacre, non poteva essere spostato se non commettendo delitto essendo sotto la protezione della divinità. Oggi non esistono divinità a proteggere i limiti, ma qualcosa di quella sacralità rimane: non si può spostare un confine a proprio piacimento. Nella speranza di non sentire la necessità di un conflitto mondiale per far nascere il bisogno collettivo di dare un valore sociale alle gesta sportive, non rimane che ragionare in termini di individualità condivisa. Ricercare un nuovo limite e sfidarlo per conquistarlo e scoprirlo è la nuova missione dell’alpinismo.
Se questo limite sta nel tempo, il tempo impiegato per raggiungere la cima, la montagna è relegata ad essere teatro muto, ma non immutabile, degli sforzi umani. Considerando solo il tempo di percorrenza, si rischia di ridurre l’alpinismo a una corsa contro il tempo, dimenticando il piacere della scoperta e il senso stesso della conquista. Inevitabile pensare, in quest’ottica, che l’alpinismo ne esca snaturato. Eppure, è proprio la natura stessa dell’alpinismo ad essere malleabile e prestarsi ad essere interpretata con stili differenti, sempre nel rispetto della sacralità di quei limiti. Tra tutti, lo stile alpino è quello che più cerca di mettere la montagna al centro dell’attenzione, dialogando con essa.
In un primo momento pensai di lasciarmi morire. Poi, in fondo, avevo lottato quattro giorni per vivere e non potevo certo lasciarmi morire così.
Sul volto di Walter Bonatti, mentre ripercorre i lunghissimi momenti decisivi sul Dru, si disegna quel sorriso beffardo accompagnato dallo sguardo fiero. Era il 20 agosto 1955, i piedi appoggiavano su qualche centimetro di roccia, tornare indietro era impossibile e la via disegnata per salire si era rivelata diversa dalla realtà. Aveva passato più di un’ora a combattere tra il desiderio di vivere e di morire, poi la geniale intuizione di lanciare la corda tra quella roccia sporgente e appuntita qualche metro più su. Bonatti, guardando oltre, aveva trovato la via d’uscita. L’aveva scoperta.
Chi non è mai riuscito a trovare il piacere della scoperta è Daniele Nardi, per cui lo Sperone Mummery rimarrà sempre avvolto dal mistero. L’assoluta fedeltà allo stile alpino e la caparbietà, quasi cieca, erano i motivi di quell’ostinazione. Il corpo di Nardi dal 25 febbraio 2019 è diventato un tutt’uno con la gelida roccia del Nanga Parbat e poco sopra gli fa compagnia un foglietto bianco protetto da una bottiglia: “Da solo, in inverno, non è possibile, con mezzi leali. Grazie per avermi ispirato. D.N.”. Mentre la penna si muoveva sul foglio, forse sulle sue labbra c’era il solito sorriso ostinato, forse nei suoi occhi non ancora fierezza, ma solo il desiderio di scoprire. Quei mezzi leali, di cui lo stile alpino si fa portatore, sono il nuovo limite.
Sulla stessa montagna dal 28 gennaio 2018 è rimasto anche Tomasz Mackiewicz. La sua storia è raccontata nel libro La versione di Tomek di Dominik Szczepanski, la cui copertina lo ritrae avvolto nel piumone rosso, con quel sorriso beffardo che ormai ci sembra familiare. Dopo svariati tentativi con compagni di spedizioni differenti e un modo tutto suo di allenarsi, anche il polacco aveva instaurato il suo dialogo con la montagna.
Sul Nanga Parbat mi sento un po’ come a casa. Sento che ho stabilito uno strano rapporto con questa montagna. Non ho alcuna ambizione di arrivare in vetta per primo, voglio solo chiudere un progetto. Più che i record o i titoli mi interessa lo sviluppo spirituale. La via nuova è ritorno alle origini perché si sposta lo sguardo.
Gli ulteriori limiti dell’alpinismo, tra burocrazia e sacralità
Forse è davvero arrivato il momento di spostare lo sguardo altrove. E volgerlo alla ricerca di un nuovo limite che è sempre stato lì e non ha nessun bisogno di essere mosso. Se ai tempi dei Romani i limiti erano protetti dagli dei, oggi è la burocrazia a decidere fino a dove si può arrivare. Nel settembre 2024 la Cina ha imposto – tra le altre regole – l’obbligo di ossigeno supplementare oltre i 7.000 metri di altitudine. Un vincolo che, di fatto, infrange il sogno di molti alpinisti che ambiscono a scalare tutti gli Ottomila senza bombole: niente ascese in stile alpino in territorio cinese.
A meno di non piegare ancora una volta il limite con leggi ad personam, occorre volgere lo sguardo un po’ oltre per scoprire che ci sono angoli di mondo ancora inesplorati, alcuni perfino senza nome. Certo, non raggiungono gli 8.000 metri di altitudine, ma davvero la sete di conoscenza dell’uomo si può fermare alle vette più alte, più famose, più difficili, più “qualcosa”? Se è vero, come diceva George Mallory (il primo a toccare la cima più alta del Mondo) che “Le montagne si scalano perché esistono”, il Pianeta offre ancora tantissime possibilità di scoperta, conquista e sfida del limite.
Non solo le pareti dimenticate degli Ottomila, ma anche altre quote possono regalare emozioni. “Sono felicissimo e incredulo e i miei sci reclamano la prima discesa su questa parete immacolata” è la descrizione di Cala Cimenti del momento in cui ha messo per primo piede sulla cima del Gasherbrun VII a 6.955 metri di altitudine. Una spedizione che riserverà enormi difficoltà, ma che testimonia l’universo nascosto sotto gli Ottomila. Ci vorrà qualche mese prima di rivedere Cimenti e l’amico Francesco Cassardo felici insieme, ma nonostante tutto questa storia ha lasciato impresso sul volto dei protagonisti proprio quel sorriso incantato.
Dalla stessa prospettiva parla Nives Meroi quando conferma che “Se si guarda ai Seimila e ai Settemila le possibilità di salire nuove montagne, e in solitudine, sono infinite”. Lo testimoniano i fatti: nel 2023 Meroi, insieme al marito Romano Benet, ha aperto una nuova via sulla parete ovest del Kabru IV per raggiungerne la cima a 7.318 metri di altitudine. Rimangono fedeli allo stile alpino, quasi portandolo all’estremo. E le montagne meno conosciute sembrano un invito a nozze per la solitaria coppia degli Ottomila che cerca solitudine e connessione con la montagna. Per loro, l’essenza dell’alpinismo è ancora il silenzio, il contatto con la montagna, la ricerca di vie sconosciute. E le montagne dimenticate sembrano fatte apposta per la loro idea di solitudine. Eppure:
Noi di recente ci siamo concentrati sulla zona del Kangbachen e abbiamo rivolto molto più di un semplice pensierino a certe vette del Sikkim, che di recente ha aperto le sue montagne. Ci ha bloccato la burocrazia, ma non è detta l’ultima parola. Magari in futuro ci riproveremo.
Mentre pronuncia le parole finali non si può fare altro che immaginarsi sulle sue labbra quel sorriso sognante. Che si tratti di spedizioni himalayane o di arrampicate sulle falesie europee, lo sguardo e il sorriso restano gli stessi. La burocrazia, quindi, sembra essere il nuovo ostacolo alla smania di conquista dell’uomo. Un ostacolo che richiede lunghe giornate passate sulle scartoffie a studiare il significato delle parole, a cercare la via per attraversarle. E quando non esiste una via d’uscita, restano solo due opzioni: aspettare un periodo migliore oppure forzare quei pesanti muri, stavolta d’inchiostro, per raggiungere l’obiettivo a qualsiasi costo.
Ma se la burocrazia è il nuovo ostacolo dell’uomo, la montagna resta legata a un ostacolo più antico e immutabile: la sacralità. Non si può dimenticare che la montagna, con la sua naturale propensione verso il cielo, è il luogo delle divinità. Le entità extra terrene non hanno mai smesso di volersi riservare i propri spazi. Proprio il monte Olimpo è stata la prima dimora degli dei e fa quasi sorridere pensare che i Giochi Olimpici, la maggiore esaltazione dello sport, contengano nel nome proprio questo concetto di sacralità. Il termine “olimpico”, infatti, indicava la vita beata delle divinità ed è ancora oggi sinonimo di “imperturbabile” e “calmo”. D’altronde, gli dei non possono che abitare in un luogo irraggiungibile per gli uomini.
Ancora oggi esistono delle montagne inviolate e inviolabili, protuberanze di terra interdette all’uomo per essere lasciate alle divinità. Proprio accanto all’Annapurna svetta il Machapuchare (cioè “coda di pesce”). Con la sua doppia punta che sembra abbracciarsi in un ballo lento e ammiccante, ammalia lo sguardo umano che sa di aver davanti a sé un sogno proibito. Per le popolazioni locali, il “Cervino del Nepal” è sacro al dio Shiva, inaccessibile per l’uomo. Questa volta il limite è il più invisibile di tutti, ma anche il più inamovibile.
Un unico tentativo è stato documentato. Era il 1957. Wilfrid Noyce, uno degli uomini che solo tre anni prima aveva toccato la vetta dell’Everest, si fermò a 50 metri dalla cima. Poi scelse di tornare indietro. “Per rispetto delle tradizioni locali”, dirà in seguito. Forse in nome di quella sacralità intrinseca al concetto di montagna, forse per quello sguardo tanto seducente da far dimenticare i bisogni terreni, forse perché sentiamo solamente il bisogno di avere un sogno proibito. Qualunque sia il motivo, la vetta del Machapuchare non è mai stata raggiunta e, almeno per il momento, mai lo sarà.
A questo punto, pare evidente la necessità dell’uomo di confrontarsi a cuore aperto con la montagna. Sentirla alleata e non rivale per evitare di relegarla a prodotto commerciale senza anima. Capirne i limiti e sfidarli è lo scopo di un gioco in cui il rischio zero non esiste e la posta in palio è altissima. Ce l’ha insegnato Icaro. Il giovane, imprigionato insieme al padre Dedalo nel labirinto di Creta, riuscì a guadagnarsi la libertà grazie alle ali costruitegli dal suo vecchio. Queste, però, erano attaccate al corpo con la cera e se fosse andato troppo vicino al sole non avrebbero resistito. Il giovane alla ricerca di conquista, mosso dalla voglia della scoperta, decise di sfidare quel limite che gli si rivelò fatale. Non pare difficile intravedere un sorriso quasi ingenuo sul suo volto prima di spiccare il volo.
La sfida del limite deve essere ponderata. Perché tra il sogno e la caduta il confine è sottile. E per non bruciarsi le ali servono concretezza e sfacciataggine. Alex Txikon lo ha dimostrato in una piovosa sera milanese dell’ottobre 2024, parlando all’indomani della sua spedizione sull’Ama Dablam e l’Annapurna. Alla domanda sul suo rapporto con la paura, Txikon dice: “sul seracco occorre danzare con la morte”. E tra la barba scura compare quel solito sorriso beffardo che, ormai non è difficile riconoscere. Quella danza è forse, allora, l’essenza dell’alpinismo, ovunque esso sia. E se, con la schiena affondata in una comoda poltrona, capita di imbattersi in storie di vite perse in montagna, che siano le Alpi o gli Ottomila, la domanda che risuona nella testa, ieri come oggi, è sempre una: perché? Se esistesse una risposta, sarebbe la ricetta dell’immortalità dell’alpinismo.
Come ogni impresa che si rispetti, la conquista non è facile, la scoperta quasi inconsapevole e il limite ben definito. Un suggerimento arriva dal volto di chi quella domanda se l’è sentita rivolgere tante volte, senza mai riuscire a spiegarla a parole. Una curva sottile sulle labbra. La stessa della montagna riflessa negli occhi di chi la guarda, cercando un dialogo con la più fedele degli alleati.
L’intervento di Nives Meroi in cui spiega cosa sia davvero, per lei, l’alpinismo