Il 15 luglio 2023, dinanzi agli occhi increduli di tutte le persone che mi conoscono – e che mi conoscono studentessa universitaria molto seria, non di certo il tipo che fa questo genere di cose – sono partita, fidanzato alla guida, per andare a vedere la tappa del Tour de France del 16 luglio, Les Gets-Le Bettex.
Non era la mia prima gara ciclistica dal vivo, ma quasi: prima di allora, solo un Giro di Lombardia e una tappa del Giro, attraverso la mia città, Bergamo. I mezzi a nostra disposizione non erano molti: due conti in banca da studenti universitari, un Caddy che va a metano abbastanza grande per dormire male in due, decisamente piccolo per dormirci bene, un po’ di cibo e un po’ d’acqua. Un grande cartellone di cartone a scritte nere cubitali “GO POGI!”, da me preparato nei giorni finali della sessione di esami (rigorosamente organizzata in modo da non perdere tappe del Tour). Vestiti decisamente poco adatti a dormire in alta quota, anche se in pieno luglio. Molto, moltissimo entusiasmo.
Ho iniziato a seguire il ciclismo qualche anno fa, in un periodo in cui trovavo tutto pesante e difficile. Quando è iniziato il Covid non avevo ancora vent’anni e gli anni che dovevano essere di apertura e ricerca li ho passati chiusa in una camera, da sola. O meglio, con la compagnia di una vertiginosa solitudine, un’ansia che mi divorava giorno e notte e un corpo che detestavo e misuravo costantemente, alla ricerca di una qualche perfezione che era sempre troppo lontana, sempre inesorabilmente più magra di come ero io. Mi ricordo lo sguardo preoccupato di mio padre, che non perdeva mai la speranza di vedermi ricominciare a stare bene, a fare sport, perché “mens sana in corpore sano”, mi ripeteva. Le sue parole lasciavano sempre il tempo che trovavano e io proseguivo, inesorabilmente rassegnata. Erano giorni difficili: non avevo vent’anni e mi scoprivo di carta.
Un pomeriggio, però, sono passata davanti alla televisione accesa: i miei genitori guardavano il Tour de France edizione 2021, appena iniziato. Ricordo di essermi seduta insieme a loro, perché l’anno prima mi era capitato di vedere, con mio padre, l’esordio francese di Tadej Pogačar. Mi aveva colpita: quella sua fame di vita, leggera però creativa, era riuscita a oltrepassare la mia apatica insensibilità. A questo giro lui c’era ancora, io avevo finito gli esami e non avevo molto da fare, così mi sono fermata a guardare.
Non è stato amore a prima vista, con il ciclismo: guardavo le tappe e non capivo nulla e quando dico nulla intendo che non sapevo nemmeno cosa indicasse la maglia gialla. Avvertivo, però, che lì dentro c’era vita pulsante. Ho deciso, così, di iniziare da ciò che meglio conoscevo: mi sono messa a studiare. Piano piano, ho imparato: le salite storiche e il pericolo adrenalinico delle volate; il lavoro di squadra, lento, logorante, asfissiante, ma fondamentale; il guizzo del campione, le volte in cui è questione di una frazione di secondo, occorre partire, provare a scrivere il proprio nome in una storia tanto più grande di ognuno di noi.
La fatica, soprattutto, che mi sembrava di sentire fisicamente attraverso lo schermo, vedendo il gruppo scalare a trenta gradi nel sole di luglio, con quelle borracce d’acqua che si svuotavano in pochi istanti. Ho imparato a conoscere i nomi dei ciclisti, a saperli individuare insieme ai telecronisti. Ricordo con emozione quel brivido di sapersi nuovi in qualcosa, con un’intera comunità davanti che si apre per farti spazio, ti insegna, ti mostra la strada.
Nel giro di qualche mese, quello che sembrava un fuoco destinato a spegnersi è divampato: ho iniziato a seguire ogni gara e, soprattutto, a parlare di ciclismo con chiunque volesse ascoltarmi che, va da sé, non c’era esattamente la fila; alla fine, ho iniziato a raccontare anche a chi non voleva, felice della mia ritrovata esaltazione fanciullesca. E poi, finalmente, ho preso il coraggio a due mani e ho provato anche io: la mia prima uscita in bici. In tutti i mesi trascorsi chiusa nella mia stanza avevo perso peso e muscoli e quei primi 15 km sono stati i più duri da quando ho cominciato a pedalare. Ricordo il sapore di sangue in bocca, i polmoni tagliati dalla mancanza d’aria, la nausea all’arrivo. Ricordo di aver pensato: “adesso basta”.
Ho preso ad andare spesso su una vecchia mountain bike azzurra, che il mio ragazzo aveva soprannominato il cancello. Facevo venti chilometri e mi sentivo come i miei idoli sul Mont Ventoux: fa niente che i miei erano di ciclabile, in piano, con le pause da fare ogni volta che c’erano dei cani sul percorso. Ho cominciato a pedalare e non ho più smesso, perché la sensazione che provavo era qualcosa di inimmaginabile e di mai sentito prima: il sapore dolce di una mente libera, sgombra come il grande cielo del nord Europa, la libertà contagiosa del ritmo della falcata, l’incredula gioia di sentirmi in comunione con il mondo intorno a me, la grandezza di un corpo che si riscopriva forte e vivo, nonostante la fatica; anzi, esattamente nella fatica.
E così, il Tour de France 2023. Siamo arrivati molto più tardi di quanto avevamo programmato, con l’idea di piazzare la macchina sulle curve degli ultimi 4 km, per dormire lì e aspettare insieme l’arrivo di tappa il giorno dopo. Siamo arrivati tardi, però, perché era tutto transennato e c’era già un folto gruppo di camper, van, camper van, tende, gente sprovvista di mezzi come noi, di ogni nazionalità e di ogni tipo.
Nella tensione dilagante – generata specialmente da me e dalla mia peculiare capacità di non avere la benché minima pazienza – abbiamo fortunatamente trovato un posto dietro a un camper di sloveni, in una via laterale che dava sulla strada sotto di noi e che era connessa all’ultimo chilometro di tappa al di sopra. Un posto perfetto, per cui abbiamo combattuto con le unghie e con i denti, resistendo ai tentativi dei francesi che abitavano nella casa circostante di farci andare via: il Tour è il Tour e “noi veniamo da Bergamo”.
Scendeva ormai la notte, la vista era splendida, direttamente sul Monte Bianco: la neve sulle cime emanava una luce baluginante, che si spandeva in pennellate azzurrine e luminescenti nel cielo, immenso, sopra le nostre teste. Allestito il Caddy, il mio ragazzo si è addormentato di botto, inspiegabilmente, visto che non eravamo neppure stati in grado di gonfiare un materassino e dormivamo sul duro fondo del bagagliaio. Io ero troppo emozionata per dormire – e troppo scomoda per riuscirci – e mi sono goduta quelle ore di magia.
Era come stare in un grande campeggio, srotolato lungo le curve della salita, in cui le persone, però, non erano accomunate solo dal desiderio di godersi una vacanza, ma da una passione bruciante che li aveva spinti fin lì, a tifare i loro idoli, a gustare il sapore speziato di una giornata di festa. Sentivo le voci degli olandesi e dei belgi – decisamente i più scatenati del gruppo – che cantavano da ore, senza stancarsi. Vedevo le luci accese di chi stava disegnando e scrivendo sulla strada, anche a mezzanotte, i nomi dei loro ciclisti del cuore, della squadra preferita. Piano piano, i rumori si sono smorzati, il buio pesto è calato su Le Bettex e io sono rimasta sveglia a guardare i puntini luminosi sopra la mia testa, la luna di un colore vividissimo che sembrava sporgersi tridimensionalmente verso di me, tanto era vicina e grande.
All’improvviso, nel silenzio assordante della montagna, uno strano rombo in avvicinamento: mi sono sporta dal finestrino della macchina e ho visto l’arrivo dei giganteschi camion dell’organizzazione del Tour. Ricordo di essermi sentita bambina, la gioia ingenua di riconoscermi a un passo da un sogno che sarebbe diventato realtà: io sola, in quella notte così strana, così magica, salutavo il passaggio dei lavoratori nascosti, silenziosi e laboriosi del Tour de France e mi sentivo grata e in pace. Sono passati dei mesi ormai; eppure, continuo a pensare che la felicità sia aspettare l’arrivo del gruppo in un Grande Giro, una notte stellata in montagna, con dei compagni di viaggio addormentati che vengono da tutto il mondo.
La mattina dopo sono stata svegliata dal freddo. Intorpidita dalla scomoda posizione tenuta nelle ore di sonno, ho aperto la portiera e sono uscita nel mattino pallido: gli sloveni erano già in piedi e il profumo di caffè inondava l’aria circostante. Stavo giusto chiedendomi come avrei fatto a svegliare il mio compagno di viaggio – che, incredibile a dirsi, dormiva ancora -, quando improvvisamente si è risolto il problema da solo: un gruppo di ragazzi danesi, vestiti soltanto delle bandiere della Danimarca, saliva di gran carriera i 4 km della salita su cui ci trovavamo, trasportando un gigantesco amplificatore che, nel momento specifico in cui passavano davanti a noi, trasmetteva le eterne e allegrissime note di Les Champs-Elysées, di Joe Dassin.
Accanto a me, tanti osservavano la scena divertiti: gente in mutande, gente addormentata, gente che friggeva pancetta alle otto del mattino, gente che iniziava a prepararsi per fare la salita in bici… gente di tutti i tipi che si fermava ad assistere a questo gruppo di giovani danesi, che portava brioches calde e con esse la sveglia. Buongiorno, insomma, e benvenuti al Tour de France.
Le ore successive sono state frenetiche: ore di attesa, sotto un caldo cocente anche in montagna, nella polvere e nella terra, seduti a difendere il nostro posto dietro le transenne, per vedere bene l’arrivo, quei pochi minuti di gloria. Le persone si affastellavano, spingevano, cantavano, tutti sudavamo copiosamente, si distribuivano crema solare e panini, si cercavano bagni (e beato chi li ha trovati), si facevano foto. Si grigliava, naturalmente, che ho scoperto essere uno di quegli elementi che superano le barriere culturali e linguistiche. Otto ore di attesa, un libro intero letto, svariati attacchi alla nostra postazione sventati. E poi, finalmente: “Ils arrivent!”: arrivano.
Mi ricordo il boato della folla, nelle curve sotto di noi. Poi, le macchine e le moto in testa alla corsa. Mi ricordo il viso di Wout Poels, incredulo vincitore di giornata, stravolto e stralunato dalla fatica, impregnato di sale e dolore. Qualche attimo dopo, un determinato Wout Van Aert, passato così vicino da permettere al mio ragazzo di urlargli, con convinzione tipicamente italiana: “Wout, ti amo!”. E poi uno dopo l’altro, fino a un rumore ancora più forte della folla: ho pensato “ci siamo”.
Di lì a poco sarebbe passato, nel suo eterno duello con Jonas Vingegaard, Tadej Pogačar. Tadej che mi ha insegnato la passione per il vento in faccia, che ha inconsapevolmente scompaginato le carte della mia tristezza, facendomi vedere la gioia libera del dolore, del respiro corto, della fatica che si dimentica appena si scollina. È stato un attimo, infinito nella sua immediatezza. Immediato perché brevissimo, infinito per i suoi riverberi nel tempo che sarebbe venuto.
Al ritorno dal Tour, non ho più smesso di pedalare. Ho scoperto l’assenza lancinante della bicicletta nei giorni in cui non mi era possibile andare, la mancanza da togliere il fiato, più di quando si va in salita, quando passano dei giorni consecutivi senza riuscire a pedalare, vento in faccia e nei capelli. Ho seguito allora l’inclinazione del sole, organizzato diversamente le giornate, imparato ad amare i giorni di freddo forse ancor di più che quelli di caldo. Oggi continuo a perseguire la scia effimera del vento. Salgo e risalgo continuamente il colle vicino a casa, che qui chiamano Colle dei Pasta, e mi sento bene, mi sento in pace, sola senza mai sentirmi tale, incontrando ogni tanto qualche compagno di strada.
All’inizio della salita faccio sempre fatica. Respiro forte, sregolatamente. Cerco di trovare il ritmo, seguire costantemente il profilo delle curve, non guardare troppo in avanti. Alla fine della salita, nella picchiata velocissima della discesa, ho già dimenticato la fatica dell’ascesa. Il solo pensiero è andare, ancora, ripartire: pedalare.