L’ipotesi del ritorno in panchina di Arrigo Sacchi, avanzata dallo stesso allenatore in una recente intervista rilasciata all’Adnkronos, è destinata a far parlare tanto gli addetti ai lavori quanto i tifosi, alimentando un dibattito che tocca aspetti tecnici, emotivi e persino generazionali.
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— SportMediaset.it (@sportmediaset) February 17, 2025
Al momento non si tratta di una certezza, ma di una speculazione ricca di speranze e timori, dove l’intento non è tanto quello di riproporre un passato glorioso, quanto piuttosto di sfruttare l’immensa esperienza e il bagaglio conoscitivo di Sacchi per affrontare le sfide del calcio moderno, in un contesto sempre più dinamico e globalizzato, in cui crisi e rinascite si intrecciano.
Il ritorno di Arrigo Sacchi
Arrigo Sacchi, che ha lasciato un segno indelebile nel calcio grazie alla sua visione tattica rivoluzionaria e alla capacità di imporsi con un gioco collettivo e disciplinato (in un’Italia da sempre incline a esaltare i singoli portatori di genio e sregolatezza), ha superato i 70 anni (ne ha 78). Un’età che, in molti sport e ambiti tecnici, potrebbe suscitare dubbi sulla sua capacità di rimanere al passo con i tempi.
Proprio la questione dell’età rimane uno dei punti cruciali nel dibattito. Sacchi porta con sé un curriculum che pochi possono vantare, ma è innegabile che il calcio attuale richieda una flessibilità mentale e una capacità di aggiornamento continuo, che non dipendono solo dall’esperienza, ma anche dall’abilità di integrarsi in un contesto in cui le tecnologie e le metodologie si evolvono a ritmi vertiginosi. Inoltre, la generazione di giocatori attuali è quella dei social, con capacità di attenzione e concentrazione spesso ridotte ai tempi di TikTok. Non è dunque facile adattarsi alla realtà contemporanea per un tecnico che ha sempre vissuto al cento per cento l’impegno e la concentrazione.
Eppure, è proprio in questo che il parallelismo con il mondo della NFL e del college football diventa particolarmente interessante. Allenatori come Bill Belichick, che nonostante l’età avanzata continua a guidare il suo team (l’anno prossimo con North Carolina), hanno dimostrato che il segreto per rimanere competitivi risiede nella capacità di circondarsi di uno staff giovane e dinamico, capace di apportare competenze tecniche e analitiche sempre aggiornate. Anche Pete Carroll (Las Vegas Raiders) è un esempio di come l’età possa diventare un valore aggiunto, a patto che sia supportata da una struttura organizzativa in grado di cogliere le opportunità offerte dal nuovo millennio.
E come non ricordare Tex Winter nella NBA? L’inventore dell’attacco a triangolo divenne assistente allenatore dei Chicago Bulls di un certo Michael Jordan nel 1985, all’età di 63 anni, e mantenne quel ruolo fino al 1999, per poi proseguire l’esperienza con i Lakers fino al 2007. Tanti altri esempi si potrebbero fare.
Questo modello preso dal mondo dello sport americano, in cui la figura del capo allenatore viene affiancata da collaboratori in grado di monitorare le evoluzioni tattiche e tecnologiche, potrebbe essere la chiave del ritorno di Arrigo Sacchi, permettendogli di continuare a esprimere la sua genialità, pur riconoscendo le esigenze di un calcio radicalmente trasformato rispetto agli anni passati e che continua a evolversi a una velocità impressionante. Si potrebbe obiettare che il calcio non è il football o il basket, ma ormai gli staff tecnici delle squadre professionistiche sono diventati enormi, a volte grandissimi. Il calcio moderno è decisamente più complesso di quello di venti o trent’anni fa, quindi perché non adottare il modello statunitense?
L’ultima volta del vate di Fusignano
L’eventuale ritorno di Arrigo Sacchi in panchina non comporterebbe dunque un salto nel vuoto, ma l’inizio di una nuova fase in cui passato e presente verrebbero al servizio di un progetto ambizioso, capace di unire le radici storiche del calcio italiano con le innovazioni che caratterizzano il panorama sportivo odierno.
Affidare la guida di una squadra a Sacchi diventerebbe così un esperimento che va oltre la mera scelta tecnica: si tratterebbe di una scommessa sulla continuità, sull’integrazione tra epoche diverse e sulla capacità di rispondere alle sfide di un mercato calcistico sempre più globalizzato e complesso. La riflessione sul “Sacchi II”, dunque, non andrebbe letta come un tentativo nostalgico di riportare in auge un’epoca ormai lontana, ma come un’opportunità per riscoprire i valori fondamentali del sacchismo: il movimento, l’occupazione degli spazi, ma anche la disciplina, il lavoro collettivo, la passione e la capacità di unire esperienze diverse in un progetto comune.
Un club che decidesse di investire in un tecnico come Sacchi, supportato da un team di giovani collaboratori, invierebbe un messaggio forte: quello di non voler sacrificare la qualità e la visione a breve termine in nome di risultati immediati ma di puntare su un approccio che riconosce il valore del vecchio e del nuovo sapere.
Ma chi, nel 2025, potrebbe davvero rivolgersi a un tecnico fermo da così tanto tempo? L’ultima avventura significativa del tecnico di Fusignano in panchina risale infatti al 2001. Ed è proprio questa la grande differenza rispetto a due giganti del football americano come Belichick e Carroll, che non hanno mai smesso di allenare. Il ritorno di Arrigo Sacchi a Parma, seppur breve — si dimise poco dopo aver assunto l’incarico, dichiarandosi “svuotato” — è stato un tentativo di affrontare sfide in un contesto in evoluzione, rappresentando oggi un punto di partenza per ripensare il ruolo dell’allenatore in un calcio che richiede un equilibrio tra tradizione e modernità. Un calcio in cui, inevitabilmente, la guida tecnica di una squadra non può più essere concentrata in un’unica figura.
In quella circostanza, Sacchi si trovò a gestire un club in fase di transizione, cercando di imporre la propria visione in un ambiente segnato da pressioni interne ed esterne. Oggi, pur in un contesto cambiato e con dinamiche calcistiche evolute, le capacità di leggere le situazioni, motivare i giocatori e instaurare una cultura di sacrificio e disciplina rimangono un patrimonio inestimabile. Fra l’altro, esiste anche un diario su quei ventiquattro giorni finali di Sacchi allenatore, redatto da Mattia Fontana.
Era il Parma di Calisto Tanzi, con Gigi Buffon, Fabio Cannavaro e Thuram, un club che poteva permettersi di cedere Hernán Crespo alla Lazio per 48 miliardi di lire, più Matías Almeyda e Sérgio Conceição (sì, proprio l’attuale tecnico del Milan). Un Parma che aveva iniziato la stagione con Alberto Malesani in panchina, per poi esonerarlo a gennaio, con la squadra desolatamente decima in classifica. I Tanzi, allora, avevano scommesso su Sacchi, cinquantaquattrenne e reduce da un’esperienza fallimentare con l’Atlético Madrid, ma pronto a tornare sulla panchina ducale, da cui era partito per Milano nell’estate del 1987.
Una riproposizione a Parma che Sacchi visse con la consueta maniacalità, circondato dal fedele Gedeone Carmignani, Gabriele Pin ed Enrico Cannata. Sacchi si buttò anima e corpo in quest’avventura. Come nelle esperienze precedenti — anche quelle più vincenti — il tecnico romagnolo si consumò, come una candela, logorato dallo stress. Questo lo portò a gettare la spugna, definitivamente, nemmeno un mese dopo. È il culto della perfezione, la volontà platonica di voler raggiungere l’Idea.
L’ultima volta di Sacchi in panchina, la vittoria a Verona con doppietta di Di Vaio
Chi potrebbe puntare su di lui?
Il panorama attuale offre diversi spunti per riflettere su questo modello. Proprio il Parma, che ha attraversato momenti di crisi e che ora cerca una nuova identità fatta di giovani da lanciare, avrebbe potuto vedere in Sacchi l’opportunità di tornare a puntare su una cultura calcistica che fa della tattica un’arte e del collettivo la vera forza in campo. Alla fine, però, i ducali, per sostituire l’esonerato Fabio Pecchia, hanno scelto di puntare sul nuovo che avanza anziché sul vecchio che torna, affidandosi a Cristian Chivu.
Allo stesso tempo, una realtà come il Monza, dove opera Adriano Galliani — artefice, insieme a Sacchi e Silvio Berlusconi, del grande Milan di fine anni Ottanta — potrebbe considerare la scelta di Sacchi come una mossa strategica, pur essendo consapevole delle sfide legate all’aggiornamento e alla modernizzazione. Inoltre, la squadra brianzola sembra in questo momento percorrere la strada di un lungo calvario destinato a condurre alla retrocessione. Infine, anche in contesti esteri, dove il desiderio di competere a livelli elevati spinge i club a cercare soluzioni innovative, la figura di Sacchi, affiancato da un organico giovane e preparato, potrebbe rappresentare una scommessa audace e lungimirante.
In questo contesto, l’idea di un ritorno di Sacchi potrebbe essere interpretata come un segnale di ambizione e rinnovamento (nonostante l’età), una scelta che non comporterebbe necessariamente il ripetersi di modalità classiche, ma l’adozione di una visione ibrida in cui il passato e il presente si fondono armoniosamente. I club arabi, che hanno investito enormemente nel calcio, puntando su nomi internazionali per costruire squadre competitive e strutture moderne, potrebbero essere tra quelli più inclini a vedere in Sacchi una figura di prestigio da affiancare a metodi più all’avanguardia. Anche qui, la sfida sarebbe quella di conciliare il valore storico con l’esigenza di adottare tecniche e approcci moderni.
Alla luce di quanto esposto, il dibattito sul possibile ritorno in panchina di Arrigo Sacchi si arricchisce di molteplici sfumature, che si concretizzino o meno. Da un lato, c’è l’ammirazione per un tecnico che ha rivoluzionato il calcio con il suo approccio innovativo e la sua capacità di infondere un’identità vincente nelle squadre che ha guidato; dall’altro, la consapevolezza delle sfide poste dalla modernità.
In conclusione, l’eventuale riproposizione di Sacchi in panchina, sebbene al momento rappresenti solo una possibilità (chissà quanto concreta), incarna il desiderio di un calcio che non vuole dimenticare le proprie radici e che, allo stesso tempo, è disposto a investire in innovazione e modernità. Che si tratti del Parma, del Monza o di altre realtà internazionali, l’idea di affidarsi a un grande maestro offre uno spunto di riflessione profonda su come l’esperienza e l’innovazione possano convivere armoniosamente, trasformando ogni sfida in un’opportunità di crescita e rinascita.