Adoravo fare gol, soprattutto nei minuti finali della partita. È come vincere un torneo di golf mettendo a segno un putt alla 18° buca.
Nel gergo golfistico il putt designa un colpo leggero, eseguito da distanza ravvicinata con un bastone a canna corta e testa piatta, disegnata appositamente per accompagnare la pallina verso la buca. A riguardarlo oggi non occorre troppa fantasia per scorgere le similitudini con il gol che nell’agosto del 2010 Peter Odemwingie segna con la maglia del West Bromwich Albion.
Un sinistro morbido ma secco che anticipa l’uscita del portiere decidendo la sfida con il Sunderland a pochi minuti dal termine. È la sua prima rete in Inghilterra, la terra dove – giunta dalla vicina Scozia – per prima si diffuse il golf moderno e dove il calciatore nigeriano fa la conoscenza di quello che ancora immagina essere solo un passatempo.
Il primo gol di Odemwingie in Inghilterra
Un amore sbocciato poco a poco
Tutto ha inizio nell’estate del 2012 durante un ritiro negli Stati Uniti. Quei termini bizzarri di cui non aveva mai compreso appieno il significato, quelle sensazioni descritte dai compagni in qualche breve conversazione nello spogliatoio prendono finalmente forma quando Peter decide di unirsi al gruppo in uno dei giorni liberi che Roy Hodgson concede ai suoi giocatori, alcuni dei quali già frequentatori abituali delle clubhouse inglesi. Nei mesi passati con i Baggies Odemwingie si diletta occasionalmente sui green delle West Midlands ma è con il passaggio allo Stoke City che lo svago comincia a farsi a poco a poco passione.
Ad accoglierlo al Britannia trova Peter Crouch, Glen Johnson, Charlie Adam e Jack Butland, una compagnia affiatata e accomunata dall’hobby del golf. È a loro che il nuovo arrivato si unisce quando, nel tempo libero, si reca al Royal Birkdale, uno storico golf club a nord di Liverpool più volte sede del British Open e della Ryder Cup.
È stata la magia del golf ad unirci. C’era molto cameratismo nello spogliatoio e noi lo abbiamo portato sul campo ottenendo grandi successi.
Sono anni di relativo successo per lo Stoke City che dal 2014 al 2016 centra per tre volte consecutive quel 9° posto in classifica che costituisce tuttora il miglior piazzamento dei Potters in Premier League. Anni segnati da grandi prestazioni, come il 6-1 inflitto al Liverpool nel giorno dell’addio ai Reds di Steven Gerrard, nel quale Odemwingie fa il suo ingresso in campo a una ventina di minuti dalla fine, ancora convalescente dopo la rottura del legamento crociato patito otto mesi prima. Un infortunio grave, tanto più per un giocatore di 34 anni al quale, durante le lunghe ore di riabilitazione, non manca il tempo per riflettere sul futuro e su come migliorare lo swing.
Dopo il ritorno in campo Odemwingie resterà poco a Stoke-on-Trent, avviandosi ad un frammentario finale di carriera tra Championship e Indonesia dietro al quale si cela già un piano insolito quanto le sue origini.
Una storia fuori dal comune
All’alba degli anni ‘80 Tashkent è la capitale della Repubblica Sovietica dell’Uzbekistan nonché sede di un importante istituto di medicina superiore. È tra le aule della locale università che uno studente nigeriano di nome Peter Odemwingie incontra Raisa, compagna di corso e futura madre di suo figlio. Battezzato con lo stesso nome del padre, Peter trascorre l’adolescenza in Russia, dove la sue doti di calciatore vengono notate dagli scout del CSKA Mosca e dai selezionatori delle Nazionali giovanili.
Quando – terminate le scuole superiori – parte per il paese di origine del padre per giocare con il Bendel Insurance, Odemwingie ha già alle spalle una dozzina di presenze con le Under 17 e 18 russe. Infine l’approdo in Europa, tra le file del La Louvière, dove riceve le prime avances dalla Federazione nigeriana. Gioca ancora in Belgio quando il suo nome giunge presso il grande pubblico, o almeno alle orecchie di chi, in un pomeriggio del gennaio del 2004, si ritrova ad assistere alla partita di Coppa d’Africa tra Nigeria e Sudafrica. Il torneo non è iniziato bene per le Super Eagles, sconfitte all’esordio dal Marocco e alle prese con problemi disciplinari che portano all’esclusione di Babayaro, Agali e Yakubu.
È l’assenza di questi ultimi a spalancare le porte dell’attacco a Odemwingie che, entrato nella ripresa al posto di Kanu, si mette immediatamente in mostra con una doppietta nel giro di tre minuti che chiude il match e apre una storia con la Nazionale che – tra alti e bassi – continuerà per altri dieci anni, fino alla rete siglata contro la Bosnia che di fatto regala alla Nigeria la qualificazione agli ottavi di finale del Mondiale brasiliano. Nel mezzo una carriera discreta, in veste di punta e di ala, partita con molte promesse al Lille – tra cui quella di un mai concretizzatosi trasferimento alla Roma – e assestatasi tra Lokomotiv Mosca e Premier League di medio-bassa classifica.
Quando all’inizio del 2019 si ritira, il germe del golf è già ben radicato nei pensieri di Odemwingie che, appese le scarpe al chiodo, sceglie una strada non convenzionale per coltivare la sua indole competitiva: iscriversi all’università.
Il golf è una cosa seria
Potrà suonare strano ma presso l’Università di Birmingham è possibile frequentare un corso in Professional Golf Studies, una laurea triennale tenuta in collaborazione con la Professional Golfers’ Association (PGA) e che consente a chi la consegue di entrare a far parte dell’associazione golfistica in capo ai tornei più prestigiosi al mondo, accedendo pertanto al professionismo.
“Non dedicai abbastanza tempo al modulo di business e finanza”, la confessione che Odemwingie fa a Ian Williams, il giornalista della BBC che qualche settimana fa è andato a trovarlo a Birmingham, a pochi mesi dalla cerimonia di consegna della laurea. Oltre a principi di scienze dello sport e approfondimenti sugli aspetti tecnici del gioco, il corso prevede infatti un focus particolare sull’educazione finanziaria che è richiesta ad ogni giocatore professionista e che deriva dalla natura stessa della PGA e del circuito di tornei al quale sovrintende, il PGA Tour.
Peter Odemwingie è ufficialmente un golfista professionista
Nata come libera associazione di singoli giocatori, la PGA è retta da un consiglio direttivo che fino a un anno e mezzo fa contava undici membri, cinque dei quali scelti tra gli stessi giocatori. Tra i membri attualmente in carica c’è però anche Tiger Woods, selezionato in qualità di sesto player director, una nomina aggiuntiva che dal 2023 ha portato i membri a dodici, consegnando ai rappresentanti dei giocatori la maggioranza in consiglio. Una decisione voluta fortemente dal corpus elettorale dei giocatori, allarmato dalle voci riguardanti la trattativa in corso tra la PGA e il Public Investment Fund (PIF), il famigerato fondo sovrano saudita noto per i suoi interessi in ambito sportivo.
Le notizie circolate parlano di un investimento di 1,5 miliardi di dollari, pari al 6% della PGA Tour Enterprises, il ramo commerciale dell’associazione e del quale Woods è attualmente vicepresidente. Un affare che se andasse in porto prefigurerebbe nuovi equilibri, rendendo più concreto il presagio di un’unificazione dei maggiori circuiti internazionali a scapito di un soggetto come il PGA Tour che ha sempre saputo conservare ampia autonomia, tutelando i giocatori più di quanto accada in altre discipline, offrendo i montepremi più elevati tra gli sport individuali ed erogando stipendi per sostenere il professionismo ai livelli più bassi della piramide.
La responsabilizzazione finanziaria che la PGA Tour richiede ai suoi soci ha l’obiettivo di formare atleti ma anche individui in grado di assumere scelte consapevoli per sé e per l’associazione, garantendo loro un’autosufficienza all’interno della fitta rete di tornei e requisiti che hanno come fine ultimo l’accesso ai majors, i quattro grandi tornei patrocinati dall’associazione (Masters Tournament, PGA Championship, US Open e British Open) e del tutto paragonabili agli slam del circuito ATP di tennis.
Non solo Peter Odemwingie: i precedenti (poco incoraggianti)
Non mancano i casi di calciatori che, soprattutto verso la fine della carriera, hanno subito il fascino di questo sport elitario, così lontano dalle radici popolari della loro disciplina ma che per sua natura facilita la commistione tra professionisti e non. Noti sono gli All-Star Match organizzati a contorno della Ryder Cup – la prestigiosa competizione a squadre che a cadenza biennale mette di fronte una selezione americana ed europea – nei quali celebrità dello spettacolo e dello sport si confrontano tra loro e con golfisti professionisti.
A rendere particolarmente accattivante questa formula è il concetto di handicap: un valore attribuito a ciascun giocatore abilitato e che in base alle sue capacità assegna un determinato numero di colpi di vantaggio. L’handicap può essere migliorato nel tempo avvicinandolo progressivamente allo zero. Ad un torneo tra celebrità tenutosi recentemente in Inghilterra gli ex calciatori Theo Walcott e Ben Foster si sono visti attribuire un handicap pari a 10.2, a John Terry è toccato un 7.5 mentre a Gareth Bale – le cui doti golfistiche sono risapute fin dai tempi del Tottenham – un lusinghiero 0.5.
Il panorama si fa più fosco però quando si cercano storie di transizioni dal calcio al golf professionistico. Ad eccezione di Lee Sharpe – ex terzino del Manchester United e protagonista di un fugace passaggio alla Sampdoria – che ha ottenuto lo status di professionista prima in Inghilterra e poi in Spagna ma senza aver mai preso parte a grandi manifestazioni, l’unica storia di relativo successo è quella di Roy Wegerle. Già attaccante di Chelsea e Coventry, fece in tempo a giocare due Mondiali con gli Stati Uniti prima di ritirarsi e dedicarsi al golf. Divenuto professionista nel 2001, l’anno seguente riuscì a qualificarsi per un torneo minore del circuito europeo tentando senza successo l’assalto al British Open.
Tutt’altro è il discorso invece se allarghiamo il campo ad altri sport, dove andando a ritroso nel tempo troviamo figure leggendarie come quelle di Sam Byrd – giocatore di baseball degli anni ‘30 reinventatosi golfista e unico atleta ad aver partecipato sia alle World Series che a un torneo major – e soprattutto Babe Didrikson-Zaharias. Figlia di una coppia norvegese emigrata in Texas all’inizio del Novecento, nacque giocatrice di basket per poi rivelarsi medaglia d’oro sugli 80m ostacoli e nel lancio del giavellotto alle Olimpiadi del 1932 e affermarsi come la prima vera stella del golf femminile vincendo 10 majors tra gli anni ‘40 e ‘50.
Il futuro di Peter Odemwingie nel golf
“Per il futuro il mio sguardo è puntato sul tour senior perché so che c’è un giocatore dentro di me”. Sebbene gli obiettivi fissati per la sua nuova carriera siano ambiziosi, Peter Odemwingie non sembra essere stato sedotto dal sogno dei majors. Per quanto i golfisti godano di estrema longevità sportiva, cominciare a 43 anni difficilmente rende pensabile competere ai massimi livelli. Tuttavia il PGA Tour Champions rappresenta un palcoscenico che da qui a sette anni l’ex calciatore sente alla sua portata. Aperto ai giocatori di età superiore ai 50 anni, questo tour rappresenta un circuito parallelo a quello principale, dedicato agli atleti più anziani: golfisti di lungo corso desiderosi di competere ancora ad alto livello o audaci novizi giunti tardi al professionismo.
Questo gioco ci offre grande longevità e mantenendo una buona forma fisica è possibile rimanere competitivi a lungo, come dimostra Gary Player.
Il campione sudafricano, divenuto professionista nel 1953 e ufficialmente ritiratosi nel 2009 all’età di 74 anni, è l’esempio più lampante di questo lato del gioco che sembra soddisfare una fame agonistica che il calcio non poteva più appagare. Ma oltre all’aspetto puramente competitivo il golf sembra alimentare altre motivazioni che hanno a che fare con la storia personale di Peter Odemwingie.
In virtù della sua doppia nazionalità, nigeriana e russa, si è detto fortemente motivato a dare impulso al movimento nei suoi due paesi di origine. Citando l’esempio del Kazakhstan Open, che tra 2005 e 2018 riuscì ad entrare nel circuito europeo dei tornei challenge, ha parlato dei margini di crescita che secondo lui avrebbe il golf nei paesi dell’ex blocco sovietico ma soprattutto della necessità di portare un grande paese africano come la Nigeria a presenziare alle grandi manifestazioni internazionali.
Il mio sogno è quello di vedere una bandiera nigeriana al livello più alto del golf.
Ai grandi tornei a cui ha assistito c’erano bandiere di ogni tipo ma non quella nigeriana, una condizione a cui Odemwingie è deciso a porre rimedio, se non come giocatore, almeno come allenatore. Il suo percorso di professionista PGA prevede infatti anche una formazione da tecnico che non esclude possa intrecciarsi al percorso di qualche giocatore emergente capace, un giorno, di competere in un grande torneo, compreso quello olimpico, ora che dal 2016 il golf è tornato ad essere presente ai Giochi dopo un’assenza durata 112 anni.
Nei paesi poveri non è così accessibile come in quelli più sviluppati ma la situazione sta migliorando e spero che la mia storia incoraggi le persone a partecipare, i genitori a portare con sé i figli e a dargli un assaggio di cosa sia il golf. Sono sicuro che molti di loro si innamorerebbero come è successo a me.
In possesso di una licenza UEFA Pro che gli consentirebbe di allenare ai massimi livelli del calcio europeo, per Peter Odemwingie oggi il pallone è solo un passatempo. Il futuro è nel golf.