Quella di Abdon Pamich è la storia di un uomo in fuga. Uno dei protagonisti dell’esodo giuliano-dalmata, un italiano che ha dovuto lasciare la sua terra per scampare alla persecuzione e ai massacri delle foibe nell’era del maresciallo Tito. Ma è anche la storia di riscatto di chi, in Italia, ha saputo rialzare la testa e diventare un simbolo nello sport, fino a raggiungere il punto più alto possibile: la conquista di un oro olimpico.
Abdon Pamich e la fuga da Fiume
Abdon Pamich, figlio di un commercialista e discendente da una stirpe di dogi veneziani, nasce a Fiume il 3 ottobre 1933, in un’epoca in cui la città fa parte dell’Italia. Ma di lì a poco, essere italiano in Istria diventa una potenziale condanna. È il 3 maggio 1945 quando, al termine della Seconda guerra mondiale, la città di Fiume viene presa dalle truppe jugoslave, per poi essere annessa formalmente due anni dopo alla Jugoslavia. La situazione per i cittadini italiani diventa drammatica: si ritrovano stranieri nella loro stessa casa, vittime di persecuzioni e massacri, come quelli perpetrati dagli uomini di Tito nelle foibe.
Civili e militari italiani vengono catturati e uccisi per la loro nazionalità, etichettati come fascisti anche quando non lo erano affatto. Talvolta vengono gettati nelle foibe – cavità rocciose naturali trasformate in tombe – oppure deportati e uccisi nei campi di concentramento jugoslavi. Un orrore che spinge migliaia di italiani a fuggire da quella che oggi è conosciuta come Rijeka.
Abdon non fa eccezione: assieme al fratello e ad altri “regnicoli” – soprannome di coloro che erano cittadini italiani durante il Regno d’Italia – organizza una fuga notturna. In un giorno di settembre del 1947, di ritorno dalla spiaggia, i fratelli Pamich decidono di prendere un treno per Trieste, fuggire dall’orrore, anche a costo di affrontare la fredda notte del Carso con addosso solo abiti estivi. Dopo un lungo peregrinare nel Nord Italia, tra Friuli e Lombardia, sfidando il freddo e la fame, trovano rifugio in un centro profughi vicino a Novara.
Sarà lì che Abdon troverà una nuova possibilità. Una chance non solo di sopravvivere, ma di ripartire. E nel suo caso, di farlo attraverso lo sport.
Fiume e lo sport, un’epoca d’oro prima del terrore
La Fiume degli anni ’30 e ’40, prima che la politica del terrore prenda il sopravvento, è una città industriale e accogliente, meta turistica apprezzata dai cittadini degli Stati limitrofi e, soprattutto, un’oasi in un’Europa che ribolle per questioni razziali. A Fiume risiedono molti ebrei di origine ungherese, ma la loro convivenza con gli istriani è totalmente serena, nonostante le politiche razziali in vigore in Italia. E come in tutti i contesti che funzionano, anche lo sport è un’eccellenza.
La città ha una squadra di calcio, la Fiumana, che ha vinto una Coppa Federale e militato in Divisione Nazionale – antenata dell’odierna Serie A – grazie all’apporto di molti giocatori di ottimo livello. Ad esempio Marcello Mihalich, primo fiumano a vestire la maglia azzurra, a Ezio Loik, membro del Grande Torino e vittima del disastro di Superga, o a Rodolfo Volk, capocannoniere della Serie A nel 1930-31 e primo calciatore della Roma a superare le 100 reti in giallorosso.
Ma non c’è solo il calcio: dall’Istria proviene anche Mario Andretti, futuro campione del mondo di Formula Uno nel 1978 e padre di Michael Andretti, ex pilota e deus ex machina del Team Cadillac, che debutterà nel Circus nel 2026. E ancora, Nino Benvenuti, leggenda del pugilato, e primo italiano a entrare nella International Boxing Hall of Fame e nella National Italian-American Sport Hall of Fame senza essere cittadino statunitense. Il motivo? Il suo trionfo più grande, la conquista del titolo mondiale dei pesi medi sul suolo americano, al Madison Square Garden contro Emile Griffith.
Inizialmente il pugilato sembra essere lo sport perfetto per Abdon Pamich. Suo zio, ex pugile e ora allenatore, gestisce una palestra vicino casa sua. Fin dall’età di 5 anni, Abdon inizia a tirare pugni a un sacco e diventa un conoscitore famelico della boxe. Ma il destino ha altri piani per lui, e non solo a causa della fuga in Italia.
Nel 1949, tutta la famiglia Pamich si riunisce a Genova. Qui inizia la nuova vita di Abdon. Il momento della svolta? Un cinegiornale. In un’epoca in cui i telegiornali ancora non esistono, è al cinema che Abdon scopre l’amore per l’atletica e, in particolare, per la marcia, disciplina in cui deciderà di cimentarsi. Una passione che lo porterà a scrivere la storia dello sport italiano.
Marcia e Abdon Pamich, binomio perfetto
L’esordio competitivo arriva nel 1952 grazie al Trofeo Pavesi, un trofeo dedicato al marciatore Donato Pavesi, quarto alle Olimpiadi di Parigi 1924 e cinque volte campione italiano dei 40 chilometri di marcia. Numeri che l’atleta fiumano, semplicemente, sbriciolerà. Perché nel 1955, a 22 anni, Abdon Pamich diventa il volto principale della marcia azzurra, vincendo l’oro ai Giochi del Mediterraneo a Barcellona e il titolo nazionale nei 50 chilometri di marcia. Per spiegare il devastante impatto del ragazzo sulla marcia azzurra basti pensare che a fine carriera i titoli nazionali vinti saranno ben 40, di cui 13 sulla lunghezza dei 10 chilometri, altrettanti sui 20 chilometri e 14 sulla distanza preferita, quella dei 50 chilometri.
A 23 anni arriva inoltre l’esordio olimpico in quel di Melbourne. Che a dire il vero è ottimo ma lascia un po’ di amaro in bocca al ragazzo, che chiude ai piedi del podio: quarto posto a 4 minuti di distanza dal terzo classificato – lo svedese John Ljunggren, già oro a Londra 1948 – e con un vantaggio di ben 11 minuti sul più diretto inseguitore. Uno scoramento che diventa enorme quattro anni più tardi, quando il sogno è quello di vincere un oro davanti al pubblico italiano. Un paradosso, cercare il successo davanti ai connazionali anche per gratitudine per averlo ospitato quando era straniero nella sua città natale e purtroppo anche in Italia, dove non sono mancati pregiudizi e non è stato facile farsi accettare. Ma alla fine Abdon ci è riuscito e vuole sdebitarsi con chi gli ha dato questa chance.
A Roma 1960 è uno dei favoriti per il successo finale, anche alla luce dell’argento agli Europei di Stoccolma del 1958. Ed è vicinissimo ai primi ma non riesce a spuntarla per un nonnulla: è terzo, ad appena due minuti dal vincitore, il britannico Don Thompson, e – ancora una volta – dall’eterno Ljunggren, che completa l’en-plein di medaglie olimpiche a due giorni dal suo quarantunesimo compleanno. Ed è proprio la longevità dello svedese a fungere da leva per motivarlo ulteriormente: c’è andato troppo vicino per rinunciare, ha soli 27 anni e un’infinità di occasioni in cui riprovarci. E, in quello che sembra solo un gioco di parole, Pamich cambia marcia.
Il 19 novembre 1961 stabilisce il record del mondo nei 50 chilometri, corsi tutti sulla pista dello Stadio Olimpico. Ma è nel 1962 che arriva il primo grande appuntamento con la fame di riscatto: a Belgrado si disputano gli Europei, per la prima volta Pamich torna nella Jugoslavia da cui è scappato e scrive una pagina indelebile della sua storia personale, vincendo l’oro continentale proprio in faccia a Tito. L’anno seguente arriva un altro alloro prestigioso, il secondo oro ai Giochi del Mediterraneo. È il segnale che qualcosa è cambiato, che quel sogno a cinque cerchi può finalmente essere esaudito. Il luogo prescelto per scrivere la storia è Tokyo, Olimpiadi del 1964.
La gara sembra una formalità, Pamich non è solo il più forte ma sta dominando e imprimendo un ritmo forsennato, impossibile da sostenere per i rivali. Purtroppo però l’inconveniente è in agguato: al punto di ristoro il marciatore fiumano accetta un bicchiere di tè freddo che beve avidamente per trovare un po’ di sollievo dalla fatica della corsa. Una scelta che rischia di rivelarsi fatale, perché di lì a poco viene travolto da una crisi intestinale. Il dolore lo costringe a rallentare, chiede come fare per risolvere il problema ma l’unica opzione è una stazione molti chilometri più avanti lungo il percorso. Troppo lontana per Pamich, che non può trattenersi e, con l’aiuto del personale di gara chiamati a ripararlo da sguardi indiscreti e imbarazzanti, si rifugia dietro un cespuglio per liberarsi. Una circostanza che pare vanificare tutti gli sforzi, perché di lì a poco viene superato da alcuni avversari.
Rientrato in gara, Pamich mette tutto quello che ha dentro: velocità, forza nelle gambe, costanza, rabbia e quella voglia di rivalsa che lo anima da tempo, non solo per i risultati nelle altre edizioni dai Giochi ma per quella fuga senza ritorno da casa sua, per quel peregrinare al gelo del nord Italia solo per farsi accogliere come uno sfollato assieme al fratello. Piano piano si mette nuovamente tutti alle spalle e arriva a un testa a testa finale con il britannico Paul Nihill: il sorpasso si compie vicino al traguardo, al quale i due arrivano con meno di 19 secondi a separarli. A tagliarlo per primo è proprio Pamich, che si prende l’oro tanto desiderato e lo fa con un gesto quasi di stizza, spezzando con rabbia il filo di lana che segnala la fine della corsa.
In molti vedono in quel gesto qualcosa che va oltre la gara, un sentimento che il fiumano cova da una vita. In realtà sarà lui stesso a dire, anni dopo, che la rabbia del momento è limitata alla sola gara, a quell’inconveniente e al rischio di perdere una vittoria meritata. È la gemma più lucente di un palmarès di prim’ordine: nel 1966 Pamich bissa l’oro continentale di quattro anni prima, mentre nel 1971, a 38 anni, arriva anche il terzo successo ai Giochi del Mediterraneo. Il tutto segnando il record sul miglio al Madison Square Garden nel 1969 e con altre due partecipazioni olimpiche senza vedere il traguardo, per un altro problema gastro-intestinale nel 1968 e per squalifica a Monaco 1972, edizione in cui, a 39 anni, ha avuto l’onore di essere il portabandiera azzurro.
L’arrivo al traguardo di Abdon Pamich a Tokyo 1964
L’annuncio del Papa e la Corsa del Ricordo
Abdon Pamich è stato una figura di spicco dell’atletica e, in generale, dello sport italiano. Uno di quegli sportivi capaci di fermare il Paese. Tanto che uno dei suoi aneddoti preferiti riguarda una classica estiva con partenza da Roma e arrivo a Castel Gandolfo. La corsa si disputa di domenica e Pamich vince. Ma visto che Castel Gandolfo è la residenza estiva del Papa, in quel giorno è anche previsto l’Angelus. E così il pontefice in carica, Paolo VI, si affaccia alla finestra per il rito sacro, preceduto da un annuncio più profano:
La marcia è appena conclusa. Sapete chi ha vinto? Abdon Pamich.
Al termine della carriera agonistica, Pamich si è dedicato agli studi e ha ottenuto due lauree in psicologia e sociologia. Ma non si è allontanato dal mondo dello sport, anzi. Ha usato le sue conoscenze professionali per dare un nuovo volto alla sua carriera e avvicinarsi ad altre discipline, dal momento che è stato lo psicologo della nazionale azzurra di pallamano, prima di cimentarsi quale allenatore nel suo sport e anche come responsabile atletico del Centro Federale tennistico di Latina.
Ma la figura del marciatore è perlopiù legata alle sue origini, alla memoria per gli orrori delle foibe e dell’esodo degli istriani. Collabora da sempre con la sede romana della Società degli Studi Fiumani e si è fatto promotore e volto rappresentativo della Corsa del Ricordo, un appuntamento annuale che si disputa proprio nel quartiere Giuliano-Dalmata a Roma e che fa parte delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo per le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata, fissato per il 10 febbraio. E finalmente nel 2024, a 91 anni, ha ottenuto un doveroso riconoscimento dalla città da cui è dovuto fuggire ma che ha sempre onorato e difeso con orgoglio, ricevendo presso il Palazzo del Municipio una targa che ne ha sancito l’ingresso nel Club degli olimpionici di Fiume come socio onorario.
Ancora oggi Abdon Pamich non si ferma. Non può marciare ma non rinuncia a camminare ogni giorno, per mantenersi in piedi ed evitare il decadimento fisico. Anche da solo, avendo perso nel 2020 la moglie e compagna di una vita, che lo ha seguito in ogni gara, alcuni casi letteralmente. Una volta perfino guidando una vespa mentre era incinta durante una gara sulla distanza dei 100 chilometri. Agli sportivi di oggi consiglia di vivere la propria carriera con entusiasmo e pensando all’amore per lo sport anziché ai soldi, specificando di non avere alcun rimpianto perché ha corso fin quando ha avuto stimoli per farlo. Ma, soprattutto, cerca di sensibilizzare tutti a vivere in armonia con gli altri senza dimenticare chi, come lui, non ha potuto farlo. Perché, come dice Abdon:
La storia più si diffonde e meglio è.