La NBA trade deadline 2025 – giorno della chiusura degli scambi per la stagione in corso, fissato al 6 febbraio – è ricca di novità. La prima, senza dubbio, è che sarà la prima negli ultimi 20 anni senza l’insider di punta di ESPN, Adrian Wojnarowski, ritiratosi in estate per tornare alla sua Alma Mater, St. Bonaventure University, come general manager della squadra maschile di pallacanestro (i cosiddetti Bonnies). Mancheranno i suoi duelli a colpi di tweet e “Bombs” con Shams Charania (che lo ha sostituito nella principale emittente americana), ma non è questo il cambiamento più importante.
Ad aver rivoluzionato non solo il modo in cui ogni appassionato vivrà la trade deadline, ma l’intero mercato NBA dei prossimi anni, è il nuovo Collective Bargaining Agreement (CBA, per gli amici), che ha introdotto regole molto rigide, volte a penalizzare quelle squadre che spendono tanto – e soprattutto che lo fanno senza progettualità. Ma procediamo a piccoli step.
Che cos’è il CBA?
Come si sarà dedotto, si tratta di un contratto stipulato tra le alte sfere della NBA – il Board of Governors – e la National Basketball Players Association (NBPA), l’Associazione dei Giocatori che “regola termini e condizioni lavorative per tutti i giocatori professionisti militanti nella NBA, così come i rispettivi diritti e doveri delle franchigie, della NBA stessa e della NBPA”, traducendo la definizione ufficiale. Quello attuale è entrato in vigore dal primo luglio 2023 e, a dire il vero, dal punto di vista finanziario non ha fatto nulla di troppo stravolgente.
Come guida al mercato NBA, ogni anno viene stabilito un salary cap, un monte stipendi massimo per ogni squadra, in base agli introiti della lega: più soldi ci sono in entrata, più aumenta la soglia massima del salary cap. L’insieme delle entrate generate da contenuti media, biglietti, cessione dei diritti e tanto altro è detto Basketball-Related Income (BRI), un paniere diviso in egual misura tra proprietari e giocatori, e utilizzato in percentuale (44,74%, con alcuni calcoli per aggiustare, e diviso poi per le 30 squadre) per definire il salary cap della stagione. Quest’ultimo non è un tetto invalicabile, anzi: il sistema NBA è fondato su un cosiddetto “soft cap”. La soglia massima può essere superata, ma non senza incorrere in sanzioni (luxury tax), che si fanno più aspre man mano che il monte ingaggi di squadra sale.
The NBA informed teams that it has set the 2024-25 salary cap: $140,588,000 million; Luxury tax: $170,814,000. Slightly less than $141M prior salary cap estimation.
— Shams Charania (@ShamsCharania) June 30, 2024
Il nuovo CBA ha apportato dei cambiamenti di sistema basati su esperienze pregresse stabilendo un fermo artificiale alla crescita massima del salary cap: non più del 10% per anno fiscale, indipendentemente dal BRI. Questo punto è importantissimo perché la NBA, nonostante siano in tanti a denunciare un calo dei rating televisivi (in maniera anacronistica e scriteriata), ha firmato un “media rights deal” con ESPN/ABC, NBCU e Amazon Prime Video del valore di 76 miliardi di dollari, spalmati su 11 anni.
Un’entrata simile porterebbe a una crescita improvvisa del salary cap simile a quella avvenuta nel 2016, quando è stato firmato il vecchio accordo televisivo, con svariate conseguenze. Su tutte, lo spazio necessario ai Golden State Warriors – reduci da una stagione storica da 73 vittorie e 9 sconfitte – per firmare Kevin Durant in free agency, al tempo tra i migliori tre giocatori della lega.
Per quanto questo aspetto sia rilevante, però, rimane maggiormente interessante l’aspetto strutturale del mercato. La vera rivoluzione processuale, iniziata nella free agency del 2024 e proseguita in regular season fino alla trade deadline del prossimo 6 febbraio, consiste nel sistema del “doppio apron”.
Le regole della NBA trade deadline: l’apron e le sue limitazioni
L’apron, a dire il vero, è sempre esistito negli accordi collettivi precedenti, inteso come un limite situato sopra la linea della luxury tax con la funzione di penalizzare i più spendaccioni, negando in alcuni casi specifici l’utilizzo di alcune eccezioni al tetto salariale utili in free agency. Le differenze imposte dal nuovo CBA, semplicemente, consistono nell’esistenza di due apron:
- salary cap: $140.588.000
- luxury tax: $170.814.000
- primo apron: $178.132.000
- secondo apron: $188.931.000
Ovviamente, in base alla zona di spesa nella quale ci si trova, variano anche le limitazioni. Dopo le mosse estive, ad esempio, moltissime squadre sono già “hard capped”, cioè limitate a una certa soglia. Si può ordinare insomma la lega in tre fasce:
- sotto il primo apron: Warriors (hard cap al primo apron), Mavericks (hard cap), Nets (hard cap), Pelicans (hard cap), Cavaliers, Clippers (hard cap), Pacers (hard cap al secondo apron), Hawks (hard cap), Grizzlies (hard cap), Kings (hard cap), Blazers, Bulls (hard cap), Raptors (hard cap), Wizards (hard cap), Hornets (hard cap), Rockets (hard cap), Thunder (hard cap), Spurs, Magic, Jazz (hard cap), Pistons
- tra primo apron e secondo apron: Knicks (hard cap al secondo apron), Heat, Lakers, Nuggets (hard cap al secondo apron), 76ers
- oltre il secondo apron: Suns, Timberwolves, Celtics, Bucks
Uno sguardo a questo primo aspetto rivela già come, per alcune squadre, fare affari entro la trade deadline sia praticamente proibitivo. Warriors e Mavericks, per esempio, non possono superare la soglia del primo apron, ma il loro monte ingaggi li pone già appena al di sotto – rispettivamente 330mila e 526mila dollari. Per i New York Knicks vale lo stesso, ma con il secondo apron, sfiorato con un distacco di appena 535mila dollari. Questo non significa che queste squadre non possano muoversi in assoluto, ma che avranno pochissimo margine di manovra, in termini di salary matching (“pareggiare gli stipendi”), qualora dovessero effettuare uno scambio.
Un problema, quest’ultimo, enfatizzato da quelle che sono le vere e proprie restrizioni del nuovo sistema quando si progetta una trade. Le squadre oltre il primo apron, per esempio, in uno scambio devono “spaccare il centesimo”, cioè le cifre in entrata devono essere esattamente le medesime di quelle in uscita. Inoltre, in questa zona non può essere usata alcuna trade exception (eccezione generata quando c’è stata una discrepanza fra stipendi in uno scambio precedente, che permette di assorbire cifre maggiori in uno scambio successivo) della passata stagione.
Oltre il secondo apron le cose si complicano ulteriormente con l’impossibilità di aggregare più salari, a meno che a trade ultimata non si scenda sotto la soglia dei 188 milioni di dollari. Inoltre, non si possono inserire in uno scambio compensazioni monetarie, né utilizzare trade exception create tramite sign&trade (un tipo particolare di mossa che si effettua in free agency), e le regole per il salary matching sono sempre stringenti – 100% o inferiore il rapporto fra entrate e uscite, anche se a entrare sono due o più giocatori. Infine, si possono utilizzare first-round pick solo fino a sei anni in futuro, anziché i sette canonici previsti dalla NBA.
Se avete prestato attenzione, la prima condizione riguarda al momento New York Knicks, Miami Heat, Denver Nuggets, Philadelphia 76ers e Los Angeles Lakers, mentre la situazione più stringente in assoluto è quella dei Phoenix Suns, Minnesota Timberwolves, Boston Celtics e Milwaukee Bucks.
Un esempio pratico di trade
Fra i casi più eclatanti, che di recente stanno animando il mercato NBA in vista della trade deadline, c’è quello di Jimmy Butler. La stella è in uscita dai Miami Heat e di recente ne ha combinate di cotte e di crude per andarsene: ha chiesto lo scambio in conferenza stampa, ha perso un volo di squadra e se ne è andato dall’ultimo allenamento quando ha scoperto che non sarebbe più partito titolare. Il risultato? Una bella sospensione a tempo indeterminato da parte del presidente Pat Riley e la ricerca attiva di un’altra sistemazione. Butler, dopotutto, ha una player option da 52,4 milioni di dollari da esercitare nella prossima stagione: potrebbe rifiutarla in estate e andarsene via a zero, lasciando a bocca asciutta gli Heat.
Miami, di conseguenza, ha tutto l’interesse del mondo a effettuare una trade, ma si presentano un paio di problemi. Il primo è che Jimmy vuole solo i Phoenix Suns, partner che ha pochissimo da offrire e che non interessa a Miami; il secondo è che Butler può esercitare una certa influenza sulle potenziali concorrenti, dal momento che quella player option instilla la paura nelle acquirenti di spendere profumati asset per un giocatore che poi se ne andrebbe senza ringraziare dopo solo mezza stagione (i Grizzlies si sono tirati indietro per questo motivo). L’ultimo ostacolo, ma non meno importante, riguarda le troppe restrizioni delle parti chiamate in causa anche qualora si arrivasse a una soluzione per far approdare il veterano in Arizona.
Persino ipotizzando un semplice scambio a due tra Miami e Phoenix le cose sarebbero complesse. Gli Heat sono sopra al primo apron, perciò non possono ricevere dal punto di vista salariale più di quanto spediscano; i Suns sono profondamente nel secondo apron, perciò non possono nemmeno aggregare più stipendi e hanno le stesse limitazioni nel salary matching (parità di stipendi in entrata e in uscita). L’unico modo per far quadrare i conti sarebbe spedire Bradley Beal a Miami, e in uno scambio separato inserire un giocatore degli Heat al minimo salariale verso Phoenix, sfruttando un’eccezione. Ora, se già questo scambio, il più basilare di tutti, presenta tali problematiche, immaginate cosa vorrebbe dire includere una terza – o quarto, o quinta – squadra in una blockbuster trade.
Una simulazione di trade effettuata tramite il portale Spotrac, una delle pochissime chance di vedere Butler ai Miami Heat alla deadline
Cosa aspettarsi da questa NBA trade deadline?
Ovviamente, per molte squadre non sarebbe un grande problema aggirare queste normative. Rispetto agli anni passati, però, ci sono stati più aggiustamenti in estate, quando è avvenuta effettivamente la transizione tra vecchie e nuove regole. Pertanto solo chi si è mosso con maggiore senno ha ancora margine di manovra. È il caso, per esempio, dei Knicks, nonostante lo stringente hard cap al secondo apron. Pur con un monte ingaggi spaventosamente alto e le grandi manovre già concluse – l’acquisizione di Mikal Bridges e di Karl-Anthony Towns – i newyorkesi hanno ancora qualcosa da spostare, come il contratto da 14 milioni di Mitchell Robinson da mettere sul piatto, anche solo per un paio di pezzi di rotazione con uno stipendio inferiore.
Oppure, squadre come Philadelphia 76ers e Phoenix Suns sono state lungimiranti nei dettagli, nonostante una costruzione del roster non ottimale. Con uno stratagemma quasi geniale, hanno deciso di “strapagare” giocatori modesti come KJ Martin e Josh Okogie, firmandoli a circa 8 milioni ciascuno. Mentre il primo è ancora nella città dell’amore fraterno, il secondo è stato ceduto a Charlotte per arrivare a uno dei migliori lunghi di riserva della NBA, Nick Richards, diventato immediatamente il titolare dei Suns. Il vantaggio nell’offrire uno stipendio più alto del normale a un giocatore nonostante il monte ingaggi già saturo e la tassazione alle stelle è proprio questo. Indorando la pillola con qualche draft pick, squadre con spazio salariale e poco competitive accettano volentieri di assorbire un contrattone, cedendo role player che magari hanno poco a che fare con la propria timeline.
Questa è la fotografia del mercato NBA dall’introduzione del nuovo Collective Bargaining Agreement, in vista dell’imminente trade deadline. Una serie di sotterfugi e manovre creative per aggirare le limitazioni ed evitare, soprattutto sul lungo periodo, le conseguenze del doppio apron.