Essere (o non essere) Kobe Bryant

Kobe Bryant è stato uno dei giocatori più divisivi e polarizzanti della NBA moderna.

La sera del 22 gennaio 2006 tutti gli occhi degli Stati Uniti erano puntati sulla sfida tra Seattle Seahawks e Carolina Panthers, decisiva per l’accesso al Super Bowl. Sì, dovevano giocare anche i Lakers, ma a nessuno importava molto di quella partita di regular season contro i Raptors. LeBron James viene deriso da anni per aver dichiarato di aver predetto la prestazione storica da 81 punti da parte di Kobe Bryant, e il motivo è proprio questo: non solo la profezia è altamente improbabile, ma anche il fatto che stesse realmente guardando quella partita.

Dopo aver mancato i playoff nell’anno precedente, i gialloviola si presentavano all’incontro con un record mediocre e un roster di Signori Nessuno a fare da contorno sbiadito allo show dell’allora numero 8. Nella formazione titolare comparivano infatti Smush Parker, Kwame Brown e Chris Mihm, con il solo Lamar Odom a “salvarsi” e Andrew Bynum infortunato. Il bello è che gli avversari erano anche peggio: i Toronto Raptors di un Jalen Rose troppo vecchio e un Chris Bosh troppo giovane, nei bassifondi della Eastern Conference con 27 sconfitte in 41 partite. Si delineava all’orizzonte, insomma, una partita insignificante, dimenticabile, in pieno stile NBA di gennaio. All’intervallo gli ospiti avevano persino 14 punti di vantaggio. Poi, all’improvviso, Kobe ha segnato 55 punti in un tempo e completato la seconda miglior performance realizzativa della storia NBA. 

Non si può dire che la difesa dei Raptors abbia opposto una strenua resistenza e nemmeno che quella scossa abbia cambiato le sorti della stagione dei Lakers, terminata tristemente al primo turno dei playoff. Ma quella sera Bryant ha fatto ciò che nessuno prima e dopo di lui è riuscito a fare nell’epoca moderna del gioco. Anche grazie a quella sera è diventato un’icona mondiale – unico titolo che nessuno, nemmeno i più avversi alla sua figura, potrà mai sottrargli.

 

Kobe Bryant, il Mamba che ha creato una religione

Kobe Bryant è stato un fenomeno a parte nel mondo NBA. In campo combatteva con Tim Duncan, Kevin Garnett, Paul Pierce, Allen Iverson e Steve Nash, ma fuori dal rettangolo di gioco è stato di un’altra categoria rispetto a qualsiasi giocatore della sua generazione. Intorno al Black Mamba si è creata una religione, con veri e propri adepti che per anni hanno elevato a dismisura il racconto della sua figura, finendo spesso con l’inquinamento dei dibattiti cestistici, ridotti all’uso di una narrazione creata ad hoc.

Kobe, per fare un esempio, è venerato più di Shaquille O’Neal, nonostante le gerarchie dei Lakers del three-peat nei primi anni 2000 raccontino una realtà diversa. E cioè che Shaq, senza mezzi termini, era la prima opzione offensiva, il perno intorno a cui girava l’attacco dei Lakers di Phil Jackson. The Big Diesel vinse tre premi di MVP delle Finals su tre, risultando più performante in ogni partita decisiva, in primis Gara 6 e Gara 7 della leggendaria serie contro i Kings nel 2002. Eppure, negli anni successivi al burrascoso divorzio tra i due, il revisionismo storico ha avuto spesso la meglio.

Poi c’è l’immancabile mito della clutchness. Nella percezione collettiva, Bryant è il simbolo del giocatore che, nei momenti di massima pressione, diventava sostanzialmente infallibile. Al netto dei 14 game winner messi a bersaglio in carriera, i freddi numeri raccontano una realtà molto meno scintillante. In carriera, Kobe ha registrato una percentuale di conversione del 31,6% (54 su 171) nelle conclusioni per pareggiare o prendere il vantaggio nel quarto periodo delle partite di playoff. Il dato sale al 34,5% (20 su 58) se prendiamo in considerazione solamente gli ultimi due minuti.

A mettere ulteriore benzina sul fuoco ci ha pensato l’NBA stessa, inserendolo nel miglior quintetto difensivo dell’anno ben 12 volte, più di qualsiasi altro giocatore della storia. In un’epoca in cui l’accessibilità alle partite di Regular Season e alle statistiche era ancora povera, a Kobe era sufficiente il nome che portava sulla schiena. Ai votanti era concesso chiudere un occhio sul fatto che, specialmente dal 2003 in poi, il Mamba fosse impiegato principalmente nella difesa lontano dalla palla, per la fisiologica necessità di rifiatare.

Infine, l’accostamento continuo a Michael Jordan e LeBron James. Per quanto Kobe abbia senza dubbio incarnato un modello estetico vicino a quello di Jordan, non ha mai eguagliato né l’impatto di MJ, né l’onnipotenza statistica e la versatilità di LeBron. Il confronto con Kobe, esasperato dai tifosi di quest’ultimo soprattutto a cavallo tra il 2008 e il 2016, è un’operazione più emotiva che razionale. 

Un video dei migliori clutch shots di Kobe Bryant

 

La contro-narrativa

Come contraltare alla gigantesca portata raggiunta dalla figura di Kobe, si è inevitabilmente venuta a creare una contro-narrativa da parte dei suoi detrattori, che si sono presi carico del difficile compito di smontare i luoghi comuni. Risultato: sono passati all’estremo opposto. Le accuse sono sempre le stesse: Kobe aveva una bassa efficienza al tiro, Kobe non passava la palla, Kobe aveva un modo tossico di rapportarsi con i compagni. Tutto con un fondo di verità, ma irrimediabilmente contaminato con il pregiudizio. È fuorviante infatti giudicare la pallacanestro di quindici o venti anni fa attraverso le lenti a cui siamo abituati oggi. Durante il periodo d’oro di Bryant il gioco non era improntato sull’efficienza, alle superstar non importava cercare la propria True Shooting aggiornata su Google. Era un basket dai ritmi bassissimi e dagli spazi chiusi, che rendeva quasi impossibile la vita delle guardie

A questo si collega anche il discorso sul presunto egoismo di Kobe. Per quanto sia innegabile che non amasse ricoprire il ruolo di facilitatore per i compagni, faceva parte di un sistema che aveva necessità di lui nelle vesti di realizzatore. Se per assurdo trasportassimo il Kobe del 2006 ai giorni nostri, con quattro compagni tiratori pronti sul perimetro ad aspettare lo scarico, probabilmente non avrebbe difficoltà a viaggiare a sette-otto assist di media.

E a proposito di compagni, arriviamo allo spinoso tema della leadership. In pieno stile Jordan, con i suoi colleghi di spogliatoio Kobe non ha mai utilizzato la carota, ma solamente il bastone. Non si è fatto problemi a litigare furiosamente con Shaq verso la fine della loro convivenza, né a sottolineare l’inadeguatezza di alcune comparse in gialloviola durante le parentesi di scarsa competitività. Il punto è che non c’è un solo modo di essere un leader, e Kobe non lo era da giovane ma lo è diventato nel corso della carriera. Il suo atteggiamento, poi, non è sempre stato un ostacolo: Pau Gasol ad esempio lo ha assimilato e trasformato in oro colato.

Nonostante gli sforzi, insomma, anche i detrattori sembrano fallire nel centrare il punto della discussione.

 

La vera essenza di Kobe Bryant

Kobe non era il classico predestinato, con abilità tecniche o fisiche fuori dal normale già in tenera età. Ha azzardato il salto diretto dall’High School all’NBA perché fin da giovanissimo aveva un futuro da protagonista assoluto scritto in testa. La notte del Draft 1996 il suo nome fu chiamato alla tredicesima scelta, dai modesti Charlotte Hornets. Il coach Dave Cowens lo chiamò e gli disse: “Non abbiamo bisogno di te qui”. Ciò che oggi tutto il mondo conosce come Mamba Mentality, un concetto divenuto ormai stucchevole, non era altro che una convinzione sconfinata nei propri mezzi, basata unicamente sul lavoro quotidiano individuale.

Diciassette anni dopo, nel post senza filtri pubblicato su Facebook in seguito alla rottura del tendine d’Achille, c’è una frase che racchiude alla perfezione la sua forma mentis: “Se mi vedi lottare con un orso, prega per l’orso”. Kobe non si prendeva decine di tiri impossibili, fuori equilibrio e contestati da due avversari, per semplice egoismo: lo faceva perché era fermamente convinto che sarebbero entrati, tutti. Ed è inopportuno rimproverargli le scelte, perché senza quel tipo di pensiero non avrebbe mai raggiunto gli stessi traguardi. I pregi e i difetti di Kobe erano due facce della stessa medaglia.

Kobe non è tra i cinque migliori giocatori della storia NBA, e probabilmente nemmeno tra i primi dieci, ma questo non è affatto rilevante. Kobe va amato proprio per le sue contraddizioni. Gli 81 punti segnati diciotto anni fa sono un piccolo, grande, enorme manifesto della sua essenza. Nessuno avrebbe mai pensato di poter recuperare quasi venti punti di svantaggio attraverso sole giocate individuali. E nessuno avrebbe mai sognato di arrivare a 81 punti dopo aver terminato il primo tempo con 26. Nessuno, tranne Kobe Bryant.

Gli 81 punti di Kobe Bryant ai Raptors

Di Emil Cambiganu

Studente, caporedattore per Around the Game, co-fondatore di STAZ. Ho 23 anni ma faccio ancora le notti in bianco per guardare Stephen Curry.