Fenomenologia dei “rigorini” e possibili rimedi

Il contatto fischiato tra Politano e Anjorin è il classico esempio di rigorino.

Siamo onesti: prima o dopo – chi in un’occasione e chi nell’altra, chi per tifo e chi disincantato – ci siamo trovati tutti a riflettere sulla centralità (eccessiva?) dei rigori nel calcio, o sui proverbiali “estremi” (lo sono abbastanza?) per fischiarne uno. Si tratta della sanzione più punitiva in assoluto, da cui arriva un gol l’80% circa delle volte: in uno sport a basso punteggio, neanche a dirlo è un evento game changer all’interno dei 90 minuti. Eppure, quante volte ci capita di pensare che vengano concessi dei “rigorini” per caso – lievi contatti, circostanze fortuite, rigidità delle regole, confini dell’area – più che per il merito (o demerito) di qualcuno? E come viviamo questa casualità?

Eccolo, il “rigorino”: un neologismo che è passato dall’inflazionato all’ampiamente e mediaticamente sdoganato, tanti se ne vedono – in Serie A e non solo – e tanto si finisce ogni volta a parlarne. Non è una polemica nuova, anzi, l’altresì detto “rigore generoso” accende polemiche da una vita. Ma è di recente, con l’avvento del VAR, che il dibattito si è definitivamente acceso. Ultimo tra tanti allenatori, Alessandro Nesta ha detto qualche settimana fa di “avere poco o niente da insegnare” ai suoi difensori, aggiungendo che lui stesso, non proprio l’ultimo arrivato, “non sarebbe capace di difendere al giorno d’oggi”. Le parole di Nesta sono volutamente esagerate, ma non prive di un fondo di verità.

La provocazione dell’ex allenatore del Monza ha dato voce infatti a una causa tutt’altro che impopolare tra gli ascoltatori di quell’intervista, addetti ai lavori inclusi: la crociata ideologica per ridimensionare la vivisezione dei contatti dentro l’area. Ogni weekend ne scopriamo un ambasciatore diverso e, anche se il più delle volte sono le circostanze a orientare il discorso (allenatori e dirigenti dopo un presunto torto subito, ex calciatori diventati opinionisti e tipicamente conservatori in materia), è un argomento che vale la pena almeno di essere preso in considerazione.

 

VAR e “rigorini”

In Italia, oltre a un insaziabile appetito di polemiche arbitrali, abbiamo storicamente una scuola di pensiero abbastanza “punitiva” sotto porta. Pre e soprattutto post VAR, lo dicono i numeri. Tra i principali campionati europei, abbiamo la media più alta di rigori concessi: nella scorsa stagione ce n’è stato poco più di uno ogni tre partite (0,34), che è molto meno di cinque anni fa (0,49), ma più di Premier League e Liga (0,28), ad esempio. I “rigorini”, insomma, non sono ovviamente un’esclusiva del calcio italiano, ma di certo siamo più abituati a vederne che altrove. E per alcuni, come Nesta, è un problema.

FIFA e IFAB dal 2017 osservano attentamente, su scala più vasta, oscillazioni del genere riconducibili all’utilizzo del VAR, adeguando le regole dove necessario e studiando alternative di vario tipo (i test in corso sull’FVS, per dirne una). Con una serie di aggiustamenti, nel tempo si è limitato il raggio d’azione delle review (le casistiche, l’Attacking Possession Phase) ed è stato accentuato il principio di “correggere solo gli errori gravi”. La sensazione che talvolta si ha ancora, però, è che le decisioni possano rimanere – e rimangano spesso – intrappolate nell’evidenza delle immagini; come se rivedere tutto da mille angolazioni, frame per frame – ma senza discrezionalità e con un limitato margine di interpretazione “umana” – in certi casi diventi un limite.

Onde evitare fraintendimenti, prima di procedere è necessaria, per chi scrive, una premessa sull’ausilio del VAR nel calcio. Si può pensare a come ottimizzare lo strumento, e anche di utilizzarlo in modo completamente diverso. E intanto si deve continuare a raccogliere informazioni, dati e feedback per capire in che modo ha cambiato e sta cambiando il gioco, e per valutare eventuali correttivi e migliorie.

E ancora: si dovrebbe cercare di snellire ulteriormente alcune review e provare a rendere i check più accessibili per gli spettatori (dal vivo soprattutto). Non si può considerare, invece, un’inversione a U: piaccia o meno, è fuori di dubbio che la tecnologia abbia reso più “giusta” e trasparente la gestione delle partite e che sia qui per restare. Il “calcio di una volta”, no. Ciò che va messo da parte, semmai, è la pretesa che il VAR possa azzerare le polemiche e i casi-limite, con cui invece continueremo a convivere, inevitabilmente.

 

Esempi di “rigorini”

Si potrebbero fare tanti esempi recenti di “rigorini” sui campi di Serie A. Episodi in cui la sproporzione tra pericolosità dell’azione ed entità della punizione è parsa fin troppo eccessiva e magari decisiva per i tre punti. Non è necessario ingarbugliarci in casi specifici, però: abbiamo tutti in testa qualche situazione del genere, e ci può bastare. I casi più comuni? Calcetti sulla punta del piede, anticipi millimetrici, tentativi goffi di spazzare o giocare la palla, sbracciate per proteggersi, tocchi di mano ai limiti dell’impercettibile. E non mancano gli effetti collaterali: il cross sul braccio del difensore che è diventato una skill, l’anticipo sulle 50-50 balls con ricerca del contatto, un’arte sempre più raffinata, e via dicendo. Si può dire che nell’area di rigore avversaria si vada spesso e volentieri a caccia di “rigorini”, prima quasi che del gol.

Ad oggi, in area come altrove, importano fino a un certo punto le valutazioni su entità e visibilità del contatto, e per niente quelle sulla pericolosità dell’azione. Conta solo la geografia, senza nessun genere di sanzione intermedia. Anche quando si tratta di situazioni ben lontane dal trasformarsi in un’occasione da gol, conosciamo le regole (certo, sono le stesse da più di un secolo): se è dentro l’area, è rigore. Da qui sorge un primo spunto di riflessione, che a molti suonerà, calcisticamente parlando, eretico: se andare oltre al criterio geografico, del tutto o in parte (ci torniamo), fosse un’opzione più proporzionata, più meritocratica e forse più giusta?

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Poniamo comunque che una porzione “protetta” di campo davanti alla porta sia necessaria, e ammesso che non si possa proprio abbandonare il principio della geografia. In tal caso si potrebbero ripensare i confini dell’area di rigore, un’idea che magari vi ha sfiorato davanti a episodi appena dentro l’area, nelle zone più innocue (per gli attaccanti): lungo la linea di fondo, dove non c’è visione dello specchio, e al vertice alto, distante e defilato. È un pensiero legittimo, d’altronde l’attuale area di rigore è praticamente la stessa, per forma e dimensioni (40 metri per 16,5), da che è stata introdotta. Il gioco nel frattempo si è evoluto: i tempi e gli spazi si sono accorciati, sono nate nuove dinamiche, cambiate le regole, stravolte le tattiche, la tecnologia, gli arbitri – ma non le linee dell’area, mai.

E se fosse giunto il momento, adesso che il calcio si è aperto alla tecnologia e ai cambiamenti che ne sono derivati, per una riforma? Addentriamoci più a fondo in queste due eresie.

 

Possibili rimedi (Parte Uno)

Un primo tentativo di limitare i “rigorini” e riequilibrare il rapporto tra reati e pene, dunque, potrebbe passare dal declassamento o dall’abolizione del criterio geografico. In uno scenario del genere, il tiro dal dischetto diventerebbe quindi la misura con cui sanzionare i falli che vanificano una chiara occasione da gol, a prescindere dalla posizione. Anche a 30 metri dalla porta o a metà campo, per intenderci. Basta che un attaccante sia lanciato a rete, secondo i criteri DOGSO (Denying an Obvious Goal Scoring Opportunity) già noti per le espulsioni.

La somiglianza ai criteri per estrarre un cartellino rosso, tra l’altro, potrebbe risolvere qualche piccola incongruenza. In primis si limiterebbero le espulsioni improvvise (non un male nell’opinione di chi scrive). E poi potrebbero risolversi alcuni difetti intrinseci dell’inferiorità numerica, che durante il primo tempo può essere più penalizzante di un gol, ma al contrario ha un impatto limitato negli ultimi minuti (in certe partite e competizioni soprattutto), quando negare un’occasione può ben valere un cartellino rosso. Infine, si semplificherebbe il bivio, a volte il dubbio amletico, tra rigore e giallo e punizione e rosso – e anche in questo caso, FIFA e IFAB hanno già cambiato approccio in passato, e stanno tuttora vagliando ipotesi alternative come i cartellini “a tempo”.

Oppure, una soluzione potrebbe essere l’adozione della punizione a due, ormai una rarità, anche in casi di fallo di un difendente dentro l’area, ma in situazione di scarsa pericolosità offensiva. Uno strumento a disposizione degli arbitri, insomma, per identificare e depenalizzare il “rigorino”. Un’alternativa ibrida tra i due sistemi, invece, potrebbe essere l’introduzione di una regione del campo, diciamo gli ultimi 30 metri, in cui applicare esclusivamente la regola del DOGSO (per i rigori), escludendo i contatti che si verificano troppo lontano dalla porta.

Cambiamenti del genere, oltre a rendere meno essenziale la stessa esistenza dell’area di rigore (se non per altri scopi), restituirebbero all’arbitro una parte di quella discrezionalità che oggi sembra mancare nella valutazione degli episodi più determinanti. La possibilità, cioè, di interpretare le dinamiche e la pericolosità di un’azione, prima di decidere l’entità di una sanzione. Un approccio simile accrescerebbe notevolmente le responsabilità e le pressioni sui diretti di gara, introducendo confini più soggettivi e decisioni più umane (la geografia non va interpretata, la nitidezza di una palla-gol sì), con tutti i pro e i contro che ne conseguono. O almeno quelli che possiamo immaginare alla cieca, senza aver mai visto nulla di tutto ciò e senza neanche considerare altri eventuali correttivi del regolamento, che a dire il vero sarebbero inevitabili, contestualmente. Vedremmo una drastica riduzione di “rigorini”, questo è certo. D’altro canto, l’estensione dell’impunità in marcatura potrebbe rappresentare un vantaggio eccessivo per le difese, limitando gli attacchi e forse anche lo spettacolo. Il modo di stare in campo delle squadre e dei singoli, poi, sarebbe completamente diverso in assenza di un’area dove le pene sono più aspre.

“Si creerebbe un problema enorme di valutazione soggettiva sulle singole azioni”, mi ha detto Luca Marelli, ex arbitro di Serie A e commentatore tecnico-arbitrale per DAZN, a cui ho chiesto un parere in merito. “Oltre a dover determinare se si tratti di infrazione o meno (e sappiamo che sui contatti è incentrata la maggior parte delle discussioni), l’arbitro dovrebbe determinare anche se l’azione è chiaramente o meno da rete: sarebbe una complicazione enorme, che alimenterebbe altre infinite polemiche. Soprattutto considerando che già oggi, di fronte ad azioni chiare, le discussioni si sprecano. Non credo avrebbe senso, anche perchè sarebbe tutto un altro sport. È vero che il rigore è la fattispecie più discussa e una fonte di polemiche, ma la questione non si risolve eliminando completamente l’area di rigore.

 

Possibili rimedi (Parte Due)

Se non siete avvezzi all’idea di scomporre e ricomporre il giocattolo-calcio a tal punto (più che legittimo), c’è una soluzione anti-rigorini più moderata: ridisegnare l’area. Certo, le sanzioni per contatti veniali o irregolarità in situazioni poco pericolose, ma sotto porta, resterebbero severe. E non si eliminerebbe nemmeno il caso-limite del fallo dentro o fuori di un centimetro. Se non altro, però, una riforma geometrica potrebbe premiare l’attacco solo nei metri di campo in cui ha effettivamente più chance di segnare. O meglio, di creare un’occasione da gol.

Quella regione, al momento, non aderisce esattamente all’area di rigore. Osservare i dati sugli Expected Goal è interessante non tanto per dimostrare questa teoria, quanto per immaginare le possibili nuove geometrie dell’area. La “xG Map” qui sotto (fonte: Cannon Stats), in cui la squadra di riferimento attacca da destra a sinistra, ci dà un’idea del rapporto tra probabilità di segnare stimata e possesso della palla in ogni mattonella.

Rigorini - Puntero

Quali soluzioni si potrebbero prendere in esame, quindi? Osservando questa mappa e tutti i dati sugli xG (che è sempre importante, comunque, non prendere come oro colato), nonché l’esempio di altri sport, è immediato immaginare un semicerchio o una semiellisse, regolare o irregolare. Oppure, forse in modo più semplice, un ridimensionamento (o compattamento) dell’attuale estensione.

Nemmeno con questa proposta, però, sono riuscito a convincere Luca Marelli. “Non per insensibilità alla questione, ma perché ritengo che ci siano degli elementi del calcio che non vanno modificati, tra questi la conformazione del campo e la durata delle partite. Non sono favorevole nemmeno al tempo effettivo, per dire (ad eccezione del recupero – una mia ormai datata proposta – perché è problema reale: nei minuti extra si gioca mediamente pochissimo).

La vera domanda, al netto di tutte queste riflessioni cervellotiche, è se vedremo mai cambiare i campi da calcio. La storia, la tradizione, Luca Marelli e un milione di altri motivi ci suggeriscono ampiamente una risposta, ma magari, prima o dopo, in una galassia lontana lontana

Di Andrea Lamperti

Giornalista, scienziato politico, fondatore di Around the Game e STAZ. Pensavo che dopo il ritiro di Dejan Stankovic e Andre Miller non avrei avuto più niente di cui scrivere, e invece.