Samurai, onore e un gigante olandese: la storia del judo

Anton Geesink è stato il primo lottatore di Judo non giapponese a vincere alle Olimpiadi, ai Giochi di Tokyo 1964.

Il judo è uno sport relativamente giovane, ideato poco più di un secolo fa. Tuttavia, per comprenderne appieno la filosofia la storia è necessario fare un ulteriore passo indietro di quasi 200 anni, all’epoca della fine del Medioevo giapponese.

Quando pensiamo al Medioevo, la mente corre ai massicci castelli europei, alle crociate e alle signorie feudali. Ma in Giappone, questo periodo storico assume contorni del tutto diversi e, per certi versi, affascinanti. Nonostante le apparenze, il Medioevo giapponese convenzionalmente termina nel 1853, un momento che segna un punto di svolta nella storia del Paese e apre le porte a un’era di trasformazioni epocali.

Il Giappone, fino ad allora, non era mai stato invaso, ma ciò non significa che non ci fossero stati tentativi. Il più noto è quello della flotta navale di Kublai Khan, che arrivò a poche miglia marine dalle coste. Tuttavia, un evento straordinario fermò l’approdo: il “vento divino” o kamikaze (神風).

Questo termine, di origine scintoista, è molto evocativo e deriva dall’unione delle parole kami, che indica la spiritualità onnipresente in ogni luogo del Giappone, e kaze, ovvero il vento. Per gli antichi giapponesi, il kamikaze non fu solo un fenomeno meteorologico, ma l’intervento tangibile degli spiriti protettori che impedirono alle navi degli invasori di attraccare sulle sacre isole.

Una parola che tornerà tristemente attuale durante la Seconda Guerra Mondiale, con un significato ben diverso, ma la cui origine rimanda a un momento cruciale della storia del paese.

 

Dall’epoca dell’isolamento all’apertura forzata

Il Giappone aveva vissuto secoli di guerre interne, culminate nel 1614 con la vittoria del clan Tokugawa nella battaglia di Osaka, evento che segnò l’inizio di un rigido isolamento, noto come sakoku (鎖国). Nel 1638, lo shogun ordinò la distruzione di qualsiasi influenza straniera, in particolare del cristianesimo, temendo una sorte simile a quella delle Filippine, dove i missionari avevano facilitato l’ingresso degli spagnoli.

Nonostante l’isolamento, soltanto due popoli riuscirono a mantenere rapporti commerciali con il Giappone: i portoghesi, che introdussero la polvere da sparo, e gli olandesi, i commercianti per eccellenza, che stabilirono un piccolo avamposto a Nagasaki. Curiosamente, i mulini a vento portati dagli olandesi sono ancora visibili in città, un simbolo di quel fragile contatto con l’esterno. E sarà proprio un olandese il protagonista della nostra storia.

Il Medioevo giapponese termina ufficialmente nel 1853, quando nella Baia di Tokyo arrivano le Kuro Fune (黒船), le “Navi Nere” guidate dal commodoro americano Matthew Perry. Il loro scopo dichiarato era avviare rapporti commerciali con il Giappone, ma il messaggio implicito era inequivocabile: le cannoniere lasciavano poco spazio alla negoziazione.

Di fronte a tale pressione, il Giappone fu costretto ad accettare per la prima volta l’ingresso di una forza esterna. Questo evento segnò non solo la fine del lungo isolamento, ma anche l’ingresso forzato del paese del Sol Levante nel contesto internazionale, aprendo la strada a una nuova era di trasformazioni epocali.

 

Un nuovo Giappone: la modernità si affaccia a Kobe

Sette anni dopo l’arrivo delle Navi Nere, nasce a Kobe una figura destinata a cambiare la storia del Giappone: Kanō Jigorō. Kobe, città simbolica, è stata più volte distrutta da terremoti ma sempre rinata, rappresentando perfettamente la caparbietà dei giapponesi.

Kanō, figlio di una famiglia benestante, riceve un’educazione internazionale, imparando l’inglese e abbracciando una visione del mondo ampia e innovativa. Non fu solo un grande maestro di arti marziali, ma anche un ponte tra tradizione e modernità. La sua storia incarna il mutamento di un Giappone che, da società feudale chiusa in sé stessa, si trasforma in una nazione pronta a interagire con il resto del mondo.

L’arrivo dell’Occidente sconvolse ogni aspetto della società nipponica, partendo dai dettagli più quotidiani. L’imperatore, inizialmente incerto, comprese che fermare l’Occidente era impossibile. La modernizzazione divenne un obbligo, e i giapponesi iniziarono a cambiare profondamente. Tra i simboli più evidenti di questa trasformazione ci fu l’abbandono degli abiti tradizionali a favore di quelli in stile occidentale, simili a quelli degli uomini d’affari inglesi.

Un dettaglio curioso: nel vocabolario giapponese non esisteva un termine per “vestito”. Per colmare questa lacuna linguistica venne coniato sebiro (背広), una nipponizzazione di “Savile Row”, la celebre strada dei sarti londinesi. Questo neologismo è un perfetto esempio di come la cultura giapponese abbia saputo adattarsi e assorbire influenze esterne, mantenendo però un’impronta unica.

 

Storia del judo

Con la modernizzazione si chiuse definitivamente l’era dei Samurai (侍). Consegnando le loro armi all’imperatore, i nobili guerrieri si fecero da parte, una dinamica immortalata dal film cult “L’ultimo Samurai”. Privati del loro ruolo tradizionale e dello status di membri di una casta militare elitaria, molti iniziarono a insegnare le arti marziali al popolo, un privilegio fino ad allora riservato a pochi. Tuttavia, le discipline tradizionali erano troppo legate al passato: profondamente intrise di guerra, risultavano troppo violente per chi non era cresciuto nel contesto particolare e raffinato dei nobili guerrieri giapponesi.

Fu Kanō Jigorō a dare una svolta, modernizzando la tradizione marziale giapponese. Eliminò gli aspetti più bellicosi, trasformandola in un metodo educativo per la gioventù. La visione di Kanō era ambiziosa e innovativa: unire la tradizione millenaria nipponica ai precetti moderni ispirati dall’Occidente, per istruire i giovani e introdurli allo sport.

Il suo impegno fu determinante anche per l’ingresso del Giappone nel panorama sportivo internazionale:

  • 1912: portò i primi atleti giapponesi alle Olimpiadi di Stoccolma.
  • 1928: ad Amsterdan, grazie al supporto di Ikkaku Matsuzawa, contribuì alla conquista del primo oro olimpico della storia giapponese.
  • 1936: fu ospite illustre ai Giochi di Berlino come fondatore e unico membro del Comitato Olimpico giapponese, in un’epoca in cui il Giappone era alleato del Reich.

Un dettaglio emblematico della sua figura emerge in una fotografia che ritrae la premiazione di Jesse Owens per il salto in lungo. Mentre molti tengono il braccio alzato nel saluto nazista, Kanō è visibilmente distinto: il suo braccio rimane lungo il corpo.

Perché? Kanō Jigorō, pur essendo un patriota giapponese, incarnava valori profondamente diversi. Era un uomo che sapeva mantenere la propria identità culturale e morale, riflessa nel sistema di concetti, teorie e discipline che confluirono nello sport da lui creato e strutturato: il judo (柔道).

Come molti vocaboli giapponesi, judo è una parola composta. Da una parte c’è l’ideogramma Ju (morbidezza o cedevolezza), dall’altra Do, un termine complesso che indica una filosofia di vita per il miglioramento personale. Traducendo in modo semplice, il judo è la via della morbidezza: una disciplina in cui l’atleta migliore è colui che sa adattarsi alla forza dell’avversario, usandola a proprio vantaggio invece di opporsi.

Capire fino in fondo il mondo giapponese richiede pazienza. È un popolo con una lingua affascinante e complessa, che per esempio ha più di 50 modi diversi per dire la parola pioggia.

Kanō Jigorō morì durante un viaggio al Cairo, poco prima della Seconda Guerra Mondiale, mentre il Giappone si avviava verso l’abisso del 1945, già impegnato in Cina e Manciuria. Non avrebbe mai potuto immaginare che il judo, da lui perfezionato e trasformato, sarebbe diventato uno degli sport simbolo del Giappone alle Olimpiadi di Tokyo 1964.

 

Un manovale olandese alla conquista del Giappone

Il viaggio del judo verso la definitiva consacrazione prende una direzione inaspettata: dall’Estremo Oriente si sposta nel cuore dell’Europa, a Utrecht, cittadina olandese che, qualche anno dopo, darà i natali a Marco Van Basten. Qui, nel 1958, accadde l’impensabile, frutto di una serie di coincidenze incredibili. Durante l’intervallo di una partita del Football Club Utrecht, i dirigenti decisero di intrattenere il pubblico con una dimostrazione di judo.

In tribuna, tra il pubblico annoiato e poco coinvolto, c’era un giovane manovale di nome Anton Geesink, un portiere di calcio che, con il suo metro e novantasei di altezza, non era mai riuscito a spiccare come grande atleta. Colpito dalla dimostrazione, Geesink decise di iniziare a praticare quella che riconobbe subito come “la sua disciplina”.

Di giorno lavorava nei cantieri fino alle sette di sera, poi si allenava. La sua dedizione e la sua struttura fisica unica – un gigante dal baricentro basso – lo resero un’atleta perfetto per il judo, una macchina imbattibile. Il suo maestro? Proprio uno degli istruttori inviati da Kanō Jigorō per diffondere l’arte in Europa.

Nel 1963, Geesink partecipò ai Campionati del Mondo a Parigi. In una città intrisa di storia e cultura, si svolse un evento destinato a riscrivere le regole di una disciplina ancora giovane, ma le cui radici affondavano in una tradizione millenaria. Fino a quel momento, il judo era dominato dai giapponesi. Non solo erano imbattibili, ma controllavano ogni aspetto della disciplina, legandola profondamente alle proprie radici culturali.

 

Le categorie di peso

Il sistema giapponese prevedeva un’unica categoria di peso e un solo campione assoluto. La tecnica, l’arte, la disciplina erano considerate superiori a qualsiasi distinzione fisica. L’idea di suddividere gli atleti per peso era vista come un’eresia, una concessione che avrebbe snaturato la purezza della pratica.

Tutto cambiò a Parigi. Anton Geesink si trovò di fronte a Kaminaga, il rappresentante giapponese. Kaminaga, con i suoi 100 chili per 1 metro e 80, era imponente per gli standard nipponici, ma al confronto con Geesink sembrava minuto. La tecnica impeccabile di Kaminaga non fu sufficiente. Geesink non solo vinse, ma lo fece con una supremazia tale da costringere i giapponesi a rivedere le loro convinzioni.

Per la prima volta nella storia, uno straniero, un gaijin (外人), trionfava su un tatami mondiale, scardinando l’idea che il judo fosse un’esclusiva del Giappone.

La sconfitta di Geesink fu un colpo devastante per l’orgoglio giapponese, arrivando in un momento cruciale. Le Olimpiadi di Tokyo 1964 erano alle porte, e il Giappone non poteva permettersi di ospitare i Giochi senza conquistare almeno una medaglia d’oro nel judo, lo sport che avevano scelto di introdurre come discipline dimostrativa.

Di fronte alla necessità, i giapponesi furono costretti a fare una clamorosa retromarcia: accettarono di introdurre le categorie di peso. Una decisione che, se da un lato aumentava le probabilità di vittoria, dall’altro rappresentava un compromesso culturale. Era un cedimento alle logiche europee che fino a quel momento avevano disprezzato, segnando un momento epocale nella storia del judo.

 

Le Olimpiadi di Tokyo 1964

Le Olimpiadi del 1964 rappresentarono un momento di grande simbolismo per il Giappone. Nel cuore di Tokyo, a pochi passi dai giardini segreti del Palazzo Imperiale, fu costruito il Budokan, una maestosa sala dedicata alle arti marziali. Questo luogo, concepito per celebrare la tradizione e l’identità giapponese, sarebbe stato il teatro delle competizioni di judo.

I giapponesi si trovarono davanti a una scelta cruciale: chi avrebbe rappresentato la nazione nella categoria open? Chi avrebbe sfidato il colosso europeo per difendere l’onore del Sol Levante? In corsa c’erano due atleti: da un lato Kaminaga, già sconfitto da Geesink ai Mondiali dell’anno precedente; dall’altro Isao Innokuma, atleta di altissimo livello. La decisione non fu priva di conseguenze drammatiche.

Quando Innokuma apprese di non essere stato selezionato, cadde in una crisi così profonda da far temere per la sua vita. Il contesto culturale giapponese dell’epoca era spietato: due atleti si erano già tolti la vita nel corso delle Olimpiadi, incapaci di sopportare il peso del fallimento.

Per il Giappone, queste Olimpiadi non erano solo una competizione sportiva, ma una ribalta internazionale. La pressione su Kaminaga era immensa. Il pubblico lo sommerse di messaggi poetici, le attività parlamentari vennero sospese durante le gare, e in ogni azienda, dalle più piccole fino a colossi come Toyota e Mitsubishi, i televisori trasmettevano gli incontri in diretta.

Geesink contro Kaminaga

Quando finalmente arrivò il giorno della finale, l’atmosfera al Budokan era elettrica. Tra gli occidentali accorsi per assistere ai Giochi e i tifosi locali pronti a sostenere il loro beniamino di casa, l’aria era carica di tensione.

Il più teso di tutti sedeva in prima fila: il volto preoccupato di Hakumi Michigami, il sensei che aveva portato Geesink all’eccellenza, era emblematico. Per il Giappone, era inconcepibile che un compatriota avesse formato uno straniero alla nobile arte del judo, rendendolo il favorito assoluto per la vittoria.

Sul tatami, Kaminaga e Geesink si studiarono a lungo. Ma appena l’olandese riuscì a portare il suo avversario a terra, non lasciò scampo. La superiorità fisica e tecnica di Geesink fu innegabile. L’incontro, tutto sommato, non offrì momenti memorabili.

Ciò che invece rimase indelebile fu l’immagine seguente alla vittoria: un membro della delegazione olandese corse sul tatami per festeggiare, infrangendo il sacro protocollo che vietava di salire con le scarpe. Geesink, con la sua imponente figura, lo fermò immediatamente, intimandogli di rispettare le regole. Quel gesto semplice ma significativo conquistò il pubblico di casa.

Il judo oggi: equilibrio tra tradizione e innovazione

Fu proprio quel rispetto a trasformare Geesink in un eroe anche per il Giappone. L’imperatore gli conferì l’Ordine del Sacro Tesoro, una delle più prestigiose onorificenze del Paese, riconoscendolo non solo come un grande atleta, ma come un amico della nazione.

La vittoria di Geesink e l’introduzione delle categorie di peso segnarono l’inizio di una nuova era per il judo. Da disciplina profondamente radicata nella tradizione giapponese, la creatura di Kanō Jigorō divenne uno sport globale, capace di abbracciare culture diverse e adattarsi alle esigenze di un mondo sempre più interconnesso.

Quella notte a Tokyo, sotto le luci del Budokan, non si decise solo il destino di una medaglia. Si scrisse la storia di uno sport che, superando i confini, trovò la sua vera essenza: l’equilibrio perfetto tra tradizione e innovazione.

Di Lorenzo Bartolucci

Elegante mitomane stregato dalla scientificità del basket. Mi diverto a sputare sentenze su The Homies e Catenaccio, bilanciando perfettamente il mugugno ligure con l'austerità sabauda.