Fabrizio De André e l’amore per il suo Genoa

Fabrizio De Andrè è stato un simbolo per Genova e per il Genoa

Un poeta, un idealista, un cantautore. Fabrizio De André ha raccontato la fragilità umana, dando voce a persone difficili, fragili ed emarginate, ispirandosi anche all’amore per la sua città natale, Genova. I carruggi, il mare, il Genoa e le scorribande con l’inseparabile amico Paolo Villaggio fanno da cornice a un’adolescenza libertina, vissuta con quell’eleganza e nobiltà d’animo che sempre lo hanno contraddistinto.

Sposato due volte, prima con Enrica Rignon detta Puni e poi con Dori Ghezzi, le quali lo resero padre di Cristiano e Luisa Vittoria detta Luvi, De André è stato anche un grandissimo tifoso del Genoa, una delle due squadre della sua città. Come dichiarò durante un concerto, mostrando una sciarpa rossoblù:

Ho una malattia: si chiama Genoa

 

De André e la nascita dell’amore per il Genoa

Fabrizio De André nacque in Via de Nicolay, nel quartiere di Pegli a Genova, domenica 18 febbraio 1940, proprio mentre si disputava un incontro del suo futuro amore calcistico: Genoa-Novara. Curiosità del match: i rossoblù, primi in classifica, batté il calcio d’inizio sia nel primo che nel secondo tempo. Un’irregolarità che portò all’annullamento dell’incontro e a un recupero successivo, disputato a maggio e vinto dal Novara per 3-1, con i liguri ormai precipitati in classifica.

Il primo impatto calcistico di De André avvenne nel 1947, quando suo padre Giuseppe, originario di Torino, portò lui e il fratello Mauro allo stadio Luigi Ferraris. L’occasione era una partita del Grande Torino, considerata all’epoca la squadra più forte del mondo. Mauro seguì il tifo paterno, mentre Fabrizio, già controcorrente, scelse di sostenere il Genoa, i più deboli.

La formazione genoana di quel giorno era: Cardani, Cappellini, Becattini, Cattani, Sardelli, Bergamo, Verderi, Trevisan, Gaddoni, Verdeal, Dalla Torre. La gara terminò 2-3 per i granata, con reti di Ossola, Grezar e Ferraris II. I primi gol per il piccolo Faber, invece, furono firmati dall’argentino Verdeal e da Trevisan.

Mi pare che il Genoa avesse perso, e in questo senso anticipai una mia tendenza che si sarebbe poi rivelata frequentando le scuole medie: ho sempre avuto un debole per i troiani e una forte antipatia verso gli achei

 

La fede

In panchina, sedeva una leggenda: William Garbutt, ex giocatore di Reading e Blackburn, arrivato a Genova nel 1912 per lavorare al porto e scelto come allenatore per dare continuità alla scuola inglese. Sotto la sua guida, il Genoa vinse tre scudetti nelle sue diciotto stagioni, interrotte solo dalle guerre mondiali e dai suoi passaggi a Roma e Napoli. A lui si deve l’introduzione del termine Mister per indicare l’allenatore, un omaggio al modo in cui veniva chiamato.

De André aveva una personale interpretazione del tifo, che considerava una fede:

È una sorta di fede laica, il bisogno di schierarsi in un partito, simbolizzato magari da un colore, ma che si pretende essere sostenuto da una tradizione o da una cultura diversa da quella degli altri. Il tifo nasce da un bisogno forse infantile di identificarsi in un gruppo che ha come obiettivo la lotta per la vittoria contro altri gruppi.

A testimonianza della sua precoce passione per i colori rossoblù, il piccolo Bicio – così lo chiamava la famiglia – scrisse una letterina a Gesù Bambino chiedendo, oltre ai soldatini, anche una maglia del Genoa.

 

Faber il mediano

Faber provò anche la strada dell’agonismo, seppur senza troppo impegno. Era spesso esonerato dalle lezioni di educazione fisica a causa di lievi problemi cardiaci, nonostante fosse considerato un buon calciatore con discrete doti da mediano, il cui stile ricordava quello di Romano Fogli, futuro campione d’Italia con il Bologna. Della sua breve “carriera” si ricordano soprattutto le partite scapoli contro ammogliati, giocate con l’inseparabile Paolo Villaggio e alcuni esponenti della borghesia genovese, tra cui il futuro presidente blucerchiato Paolo Mantovani.

Molto più intensa fu la sua vita da tifoso, anche in trasferta, ma soprattutto durante le radiocronache della domenica pomeriggio, che seguiva con passione, indipendentemente dalla categoria in cui militasse il suo Genoa.

Tra i suoi giocatori preferiti figuravano nomi come l’uruguaiano Julio Abbadie, Giorgio Bittolo, Paolo Barison, e i più recenti Pato Aguilera e Tomáš Skuhravý. Tuttavia, il calciatore in cui si riconosceva maggiormente per originalità e creatività fu il mai dimenticato Gigi Meroni.

 

Meroni, l’artista del calcio

Di origine comasca, Meroni era un’ala destra di stampo beat, anticonformista e originale, che conquistò il cuore sportivo di Fabrizio nei suoi trascorsi genoani, prima della tragica morte a Torino. Pittoresco anche fuori dal campo, Meroni era noto per il suo stile di vita unico: amava, ad esempio, passeggiare con una gallina al guinzaglio, un’immagine che ben rappresentava il suo spirito libero.

Il suo tragico destino si compì quando fu investito da un’auto guidata da un giovanissimo Attilio Romero, futuro presidente del Torino nei primi anni 2000.

Meroni fu un artista nella vita e in campo” ricordava De André. Era dotato di una creatività fulminea, capace di mettere immediatamente in pratica ciò che intuiva, unendo una tecnica da giocoliere a una velocità di esecuzione micidiale.

 

Gigi Riva, anarchia e coerenza

Un altro giocatore ammirato da De André fu Gigi Riva, conosciuto grazie all’amico Giuseppe Ferrero, centrocampista rossoblù negli anni ’70. Tra Riva e De André vi erano molte similitudini, oltre alla passione per la Sardegna – patria calcistica per l’attaccante e adottiva per il cantautore – e per le canzoni di Georges Brassens.

Entrambi condividevano un senso profondo di anarchia e coerenza. Nonostante questo legame ideale, i due si incontrarono una sola volta, a Genova, in un’occasione memorabile: si scambiarono la leggendaria maglia numero 11 e la chitarra, un gesto simbolico di reciproca ammirazione.

In quell’incontro si intrecciarono i rispettivi rossoblù, indelebilmente impressi nel cuore e nella pelle, con il mare a fare da sfondo, un elemento comune alle città che avevano segnato le loro vite.

 

La sana rivalità con la Samp

Abbiamo già parlato della profonda amicizia tra De André e l’attore Villaggio, con cui condivise molte serate, avventure e persino la canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Nonostante il rapporto quasi fraterno, i due si scontravano bonariamente per la passione verso le due squadre di Genova: Villaggio era infatti un fervente tifoso della Sampdoria. Durante uno storico concerto allo Stadio Luigi Ferraris, De André mostrò tutta la sua ironia augurando lo scudetto ai rivali cittadini:

Auguro alla Sampdoria di vincere lo scudetto per due ragioni: prima di tutto non va a ostacolare i nostri obiettivi, che almeno per quest’anno non sono quelli di vincere il campionato. In secondo luogo, se la Sampdoria dovesse vincere questo scudetto, sarebbe il decimo per la città di Genova: noi ne abbiamo portati nove, che ne portino uno anche loro.

Le retrocessioni del Genoa fecero più male a De André dello scudetto blucerchiato. In un’occasione, la Gazzetta dello Sport lanciò la provocazione di una possibile fusione tra le due squadre genovesi. Faber rispose con la consueta ironia:

Si potrebbe fare una squadra sola, ma si dovrebbe chiamare Genova e avere i colori del Barcellona, a strisce verticali.

 

Il legame eterno con il Genoa

Anche dopo la sua morte, la figura di De André è rimasta nel cuore della tifoseria genoana. Nel 2005 è stato fondato il Genoa Club Fabrizio De André, situato in via del Campo – titolo di una delle sue canzoni più celebri. Il club, che conta una trentina di iscritti e un piccolo emporio-museo, si propone di legare la “genoanità” alla “genovesità” che il cantautore sapeva trasmettere. Un aforisma esemplifica questa connessione:

Il grifone non è un avvoltoio africano che divora i cadaveri. È una via di mezzo tra il falco e l’aquila: un animale superbo, come Genova.

Nel 2018, prima di Genoa-Inter, lo stadio rese omaggio al cantante. Durante la conferenza stampa post-partita, l’allora tecnico ligure Davide Ballardini, grande appassionato di musica, lo celebrò così:

Cosa posso dire di De André? È un mostro sacro. Ma quello che mi emoziona davvero è la gente allo stadio che canta le sue canzoni. Sentire tutte queste persone cantare con il cuore, con la passione, anche con qualche lacrima, mi commuove e mi emoziona. Chapeau, un grandissimo.

Mezz’ora prima dell’ingresso in campo delle squadre, lo stadio intonò a gran voce “Creuza de mä”, un brano del 1984 scritto in dialetto genovese che esprime l’amore per la sua terra. Secondo i tifosi rossoblù, nel testo della canzone “Sinàn Capudàn Pascià” si celano riferimenti al Genoa, come nella strofa:

Amü me bell’amü, a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun
(Amore mio bell’amore, la sfortuna è un grifone che gira intorno alla testa dell’imbecille).

 

Un’ultima coreografia per Faber

Nel 2023, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di De André, durante la partita Genoa-Torino i tifosi genoani realizzarono una coreografia rossoblù in suo onore, con le scritte “Per sempre amico fragile” e “Faber” accanto alla sua immagine. Ironia del destino: il match coincideva con la prima partita di calcio vista da De André nel lontano 1948.

Il rapporto di Faber con il Genoa, iniziato a otto anni, durò anche nei momenti più bui della squadra e fino alla sua morte. Grazie ai suoi appunti – in cui annotava non solo canzoni e pensieri, ma anche formazioni e risultati del Genoa – sappiamo che nel 1979, durante il sequestro in Sardegna, chiese e ottenne di poter ascoltare le partite alla radio. Uno dei giorni più tristi della sua prigionia fu quando il Genoa perse a Terni.

Nella sua bara, insieme all’inseparabile pacchetto di sigarette e a un naso rosso da clown, fu deposta una sciarpa rossoblù.

 

L’amore troppo grande per scrivere un inno

De André non volle mai comporre un inno per il Genoa. Non amava le marce e credeva che nessuna canzone potesse superare i cori della Gradinata Nord. Ma soprattutto, il suo coinvolgimento era troppo profondo:

Al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna avere un certo distacco da ciò che scrivi. Invece il Genoa mi coinvolge troppo.

Di Stefano Cabrini

Amante del calcio puro e ignorante. Viaggiatore seriale, meta preferita: anni '90. Non ricordo con cosa ho pranzato ieri ma conosco il nome del magazziniere del Piacenza 1995/96.