Le biografie con il maggiore fascino sono spesso quelle ammantate di mistero e animate da un intreccio di teorie, ricostruzioni e complotti. In questo senso, la parabola di Ottavio Bottecchia rappresenta un esempio luminoso. Nel 1924 è il primo italiano a conquistare il Tour de France, indossando la maglia gialla dall’inizio alla fine dei quindici giorni di gara. L’anno successivo riesce persino a replicare il trionfo, confermandosi il dominatore della competizione a tappe. Ha poco più di trent’anni e tutto lascia pensare all’inizio di un’epopea, tanto più significativa se si considera che parliamo di un figlio della dura realtà contadina del primo Novecento.
Ottavio Bottecchia ciclista di guerra
Nato e cresciuto nella provincia di Treviso alla fine dell’Ottocento, Bottecchia ha affrontato fame, stenti e privazioni condividendoli con i suoi sette fratelli. Da giovane uomo del Nordest italiano, cresciuto negli anni ’90 del XIX secolo, il suo destino non poteva sfuggire alle maglie della Grande Guerra. Si arruola nel sesto reggimento bersaglieri, reparto ciclisti, affrontando il conflitto come esploratore in bicicletta. Sopravvive agli assalti degli austriaci, alla malaria e persino ai micidiali gas tossici. Eppure, mentre combatte per la propria vita, alimenta anche un’innata passione per la bicicletta, che trova espressione proprio nelle funzioni strategiche e d’assalto del suo reparto.
Questo periodo bellico, per quanto devastante, segna una svolta decisiva. Una volta riposta la divisa, Ottavio riesce a entrare nel mondo del ciclismo agonistico nazionale. Ha trascorso quasi cinque anni tra il fango delle trincee e il fuoco incrociato del fronte, ma per un furlan de fero come lui era quasi naturale riprendere il filo interrotto della propria esistenza.
L’inizio dell’avventura
Il nome di Ottavio Bottecchia inizia a farsi strada già nei primissimi anni Venti, quando si distingue in alcune competizioni dilettantistiche nella sua regione. La sua straordinaria resistenza alla fatica gli vale presto una crescente notorietà, che si estende rapidamente al resto del Nord Italia. Nel 1922 ottiene il titolo di ciclista professionista, corre nel Giro di Lombardia sotto l’egida della celebre scuderia Ganna-Dunlop, e l’anno successivo partecipa al suo primo Giro d’Italia. Ma ciò che rende questa parabola sportiva e umana leggendaria è quanto accade nel quadriennio successivo, un periodo che richiama alla mente la mitologica avventura di Icaro: l’ascesa verso il Sole, seguita da una caduta rovinosamente fatale.
L’inizio dell’ascesa è, come detto, deflagrante. Dopo un ottimo esordio nella corsa su strada più celebre d’Italia, una delegazione francese nota il suo talento e lo ingaggia, seppur come gregario, per la “Champions League del ciclismo”, il Tour de France. Anche in questa nuova sfida, di fronte a una competizione sempre più serrata, Bottecchia si distingue: al suo debutto è secondo nella classifica generale e diventa il primo italiano a indossare la maglia gialla, mantenendola per sei tappe. Una vera impresa: il ciclismo italiano esplora così per la prima volta vette fino ad allora inaccessibili. Ottavio non scala semplicemente i gradini della sua carriera, ma li divora voracemente: “Botescià”, come lo chiamano affettuosamente i francesi, è il nuovo astro nascente di questo sport.
I due Tour de France
Tra il 1924 e il 1925 raggiunge il suo apice sportivo. Il suo fisico è una macchina perfetta: un fiato inesauribile, gambe potenti e instancabili, e una resistenza alle pendenze che sembra innaturale. Nel giugno del 1924, indossa la maglia gialla e non la lascia più fino all’arrivo trionfale nella Ville Lumière, diventando il primo italiano a vincere il Tour e il primo corridore nella storia a mantenerla per l’intera competizione.
Il trionfo viene replicato dodici mesi dopo, nel 1925, quando si piazza davanti al belga Lucien Buysse, distanziato di 54’20”, e al connazionale Bartolomeo Aimo, staccato di 56’17”. È il ventesimo Tour de France della storia, e per l’Italia – in quel momento più nazionalista che mai – sottrarre il titolo ai cugini d’Oltralpe assume un valore simbolico enorme. La vittoria diventa un mors tua, vita mea, un ulteriore motivo di vanto per una penisola che cerca di affermarsi non solo sul piano politico, ma anche sportivo.
In quegli anni, il Partito Nazionale Fascista è al potere da tre anni e il suo occhio vigile controlla ogni aspetto della vita pubblica: dalla politica interna ed estera, alla repressione del dissenso, fino al mondo dello sport e delle arti. Proprio in quest’ultimo contesto si intreccia l’atmosfera indecifrabile e misteriosa che avvolge la prematura scomparsa di Bottecchia, rendendola un enigma che ancora oggi accende dibattiti e ipotesi.
L’insofferenza al fascismo
Dopo il successo del 1925, qualcosa si spezza: Bottecchia non riesce più a ritrovare lo smalto fisico e mentale di quel biennio dorato. Nel 1926 è costretto ad abbandonare anzitempo il Tour de France e si accontenta di un deludente quarto posto al Giro di Lombardia. A 32 anni, appare chiaro a tutti che il suo prime è ormai un ricordo e che la fine della carriera è questione di pochi anni. Ma accanto alla figura del grande sportivo in declino si staglia quella dell’uomo, del figlio di una famiglia contadina del Nord Italia del secolo scorso. Una figura intrisa di disciplina e opposizione alle intemperie della vita, ma anche segnata da una certa spigolosità nei rapporti interpersonali, un carattere che mal si conciliava con il mondo del regime fascista dell’epoca.
L’ombra del regime si era fatta sempre più ingombrante, sia sulle sue prestazioni sportive in Italia che all’estero. Bottecchia mal sopportava il ruolo di eroe sportivo ridotto a strumento propagandistico per il Duce. La morte di suo fratello Giovanni, peraltro, era stata motivo di dibattito nell’opinione pubblica: si diceva che il responsabile fosse Franco Marinotti, un noto gerarca friulano.
La morte
Il 3 giugno 1927, Ottavio viene trovato accasciato lungo una strada, agonizzante, il volto insanguinato. Il corpo giace in un tratto vicino a Peonis, un piccolo centro del Friuli dove era solito allenarsi in bicicletta. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Gemona, i medici riscontrano gravi fratture al cranio e alle clavicole. Dodici giorni dopo, il 15 giugno, Ottavio Bottecchia esala il suo ultimo respiro. Gli investigatori incaricati di far luce sull’accaduto non hanno dubbi: si tratta di una morte accidentale. La moglie avvalora questa versione, raccontando che in uno degli ultimi momenti di lucidità Ottavio avrebbe biascicato la parola “malore”.
Proprio grazie all’archiviazione del caso come incidente, la vedova ottiene un risarcimento record di circa mezzo milione di lire. Tuttavia, parallelamente, iniziano a circolare teorie alternative che mettono in dubbio il referto ufficiale. Per esempio, qualcuno nota come la bicicletta usata da Ottavio quel giorno fosse praticamente intatta, salvo poi sparire misteriosamente senza lasciare tracce.
Il mistero
Tra le versioni alternative, quella che gode di maggiore credito è fornita da Don Dante Nigris, il parroco che diede a Bottecchia l’estrema unzione e celebrò i suoi funerali il 17 giugno. Secondo il sacerdote, Ottavio sarebbe stato vittima di un attacco squadrista, massacrato dagli scagnozzi del regime, ormai sempre più diffidente nei suoi confronti. Tuttavia, nel contesto storico e politico dell’epoca, questa ricostruzione venne rapidamente accantonata: una morte accidentale era una spiegazione conveniente per tutti, dalla vedova ai pubblici ministeri.
Ancora oggi, la morte di Bottecchia rimane avvolta nel mistero, e probabilmente lo sarà per sempre. Di lui ci resta un lascito involontario, un simbolismo che si lega alla sua fine: le ultime pedalate nei boschi friulani sembrano chiudere il cerchio di una vita straordinaria, un’esistenza nata nella semplicità e conclusasi tragicamente nello stesso luogo dove tutto era cominciato.
Un documentario su Ottavio Bottecchia nel centenario del primo successo al Tour de France
L’eredità sportiva
A poco più di un secolo dal suo primo trionfo parigino, Ottavio Bottecchia rimane una figura di riferimento nel panorama del ciclismo italiano ed europeo. Se da un lato il suo nome è indissolubilmente legato alla prima vittoria italiana al Tour de France, dall’altro conserva ancora oggi un primato unico: è l’unico ciclista italiano ad aver conquistato due successi consecutivi nella Grande Boucle. Da questo punto di vista, nemmeno Bartali, Coppi o Pantani possono reggere il confronto. I 24 mesi di dominio di Botescià, vissuti tappa dopo tappa, maglia gialla dopo maglia gialla, sembrano qualcosa di irripetibile nella storia del nostro ciclismo.
Sul resto, però, il confronto con i giganti delle due ruote è meno favorevole. Il palmarès di leggende come Bartali e Coppi, unito alla loro longevità ventennale ai massimi livelli, schiaccia quasi ogni concorrente. Eppure, cercare di classificare i migliori rappresentanti di uno sport risulta spesso sterile e controproducente: gli incasellamenti lasciamoli a Darwin e alla biologia. Piuttosto, è utile limitarsi ad apprezzare l’impronta che ogni grande dello sport ha lasciato nella propria epoca, all’interno del contesto socio-culturale in cui ha agito e dominato prima della naturale deposizione dal trono.
Ottavio Bottecchia ha pedalato per soli sette anni. Sette anni di scalata umana e professionale, che racchiudono una straordinaria doppietta francese e un regime opprimente che non gli ha mai permesso di respirare a pieni polmoni. Sette anni di vicinanza al sole, prima della tragica caduta. Sette anni che, dilatati dall’intensità della sua parabola, per lui – e siamo sicuri anche per tanti appassionati suoi contemporanei – sono sembrati durare una vita intera.