LeBron James compie 40 anni: il Prescelto sta ancora benissimo

Lebron James a 40 anni è ancora in forma smagliante.

Nel lungo e divertente Christmas Day 2024 proposto dall’NBA, una partita ha stabilito il nuovo record di spettatori televisivi negli Stati Uniti per gli ultimi cinque anni di Regular Season, con 7.6 milioni di media e un picco di 8.3 milioni sulla televisione via cavo. Si scrive Warriors vs Lakers, si legge LeBron James vs Stephen Curry, la sfida che ha scritto le pagine di storia più importanti dell’ultimo decennio cestistico. Nonostante l’abbandono di Anthony Davis dopo pochi minuti, LeBron ha comunque portato i suoi alla vittoria, con 31 punti, 10 assist e il 55% dal campo. I Lakers sono attualmente in lotta per un posto ai playoff nella Western Conference, e il Re viaggia a circa 23.5 punti e 9 assist di media. Quando la squadra va male, le critiche piovono su di lui. Quando cala il livello delle sue prestazioni, come già successo in questo avvio di stagione, media e appassionati non lo risparmiano. D’altronde, perché dovrebbero? È ancora uno dei migliori dieci giocatori in NBA. Su di lui non si applicano gli alibi dell’età, bensì gli standard altissimi delle superstar nel pieno della loro maturità atletica. Eppure oggi, 30 dicembre, LeBron James compie 40 anni.

 

LeBron James compie 40 anni

Alla stessa età, Michael Jordan, pur con un chilometraggio decisamente inferiore, era nel bel mezzo del suo farewell tour in una squadra da ultime posizioni ad Est. Kobe Bryant era già ritirato da due anni. Tim Duncan era alla sua ultima stagione, nel dignitosissimo ruolo da role player negli Spurs di Kawhi Leonard. Shaquille O’Neal iniziava la sua carriera televisiva da analista scanzonato su TNT.

LeBron è diverso da tutti gli altri non solo per quello che ha fatto e continua a fare in campo, ma anche per il modo in cui si parla ancora di lui. A darci la misura della sua grandezza, oggi, sono proprio i suoi detrattori.

 

“The Chosen One”: una profezia, una condanna

Quando si parla di LeBron è difficile non finire intrappolati nella retorica del destino. Nasce ad Akron, una cittadina operaia dove i sogni spesso si infrangono prima ancora di essere messi nel cassetto. Cresce circondato dalle difficoltà. La madre Gloria deve lottare ogni giorno per mettere insieme i pezzi di una vita che sembra non lasciare spazio a fantasie di evasione. Ma la sua mostruosa genetica e il suo talento non potevano rimanere nascosti sotto la polvere dei quartieri dell’Ohio.

Il suo nome comincia a circolare nei circuiti giovanili; St. Vincent-St. Mary diventa il palcoscenico del prodigio. E quando Sports Illustrated, nel febbraio 2002, lo definisce “The Chosen One”, il Prescelto, non è solo un titolo. È una profezia.

LeBron era il prescelto per prendere le redini di una Lega ancora scottata dal ritiro di Michael Jordan. Doveva ereditare quanto fatto da ‘His Airness’ e superarlo. Doveva stare al passo di Kobe Bryant fin da subito, nonostante la giovanissima età. Doveva essere l’eroe mitologico perfetto, allergico al fallimento. O quantomeno, come obiettivo minimo, doveva diventare uno dei due migliori giocatori della storia della pallacanestro.

 

21 anni da Re

I successivi 21 anni dimostrano che le aspettative non erano poi così campate per aria: 4 titoli NBA, 4 MVP, 20 selezioni All-Star, oltre 40.000 punti e 11.000 assist, 3 ori olimpici.

Ma quella stessa copertina che lo ha proiettato verso la fama mondiale a soli 17 anni è stata un macigno legato alla sua schiena lungo tutta la sua carriera. LeBron non ha mai avuto il privilegio di poter stupire. Ha vissuto ogni grande prestazione, ogni tiro per la vittoria, ogni successo, ogni record come un obbligo. Tutto era dovuto.

Tra il 2007 e il 2010 ha portato alle Finals e alle Eastern Conference Finals delle rose che non avevano alcuna cittadinanza a quei livelli, ma non ha vinto. Nel 2012 ha vinto, ma con l’aiuto di Dwyane Wade. Nel 2013 ha vinto nonostante un Wade sottotono, ma lo ha fatto grazie al miracoloso tiro di Ray Allen. Quattro anni più tardi ha portato il titolo NBA in patria a Cleveland, rimontando da 1-3 nella serie finale, ma il canestro decisivo lo ha segnato Kyrie Irving. Nel 2020 ha riportato il Larry O’Brien Trophy a Los Angeles, dopo dieci anni di bocconi amari per la franchigia più iconica dell’NBA, ma lo ha fatto nel contesto senza precedenti della bolla di Orlando.

 

La legacy di Lebron

James non giocherà ancora per molto. Non era necessaria l’aggiunta della quarantesima candelina per farcene rendere conto, era già piuttosto evidente, e lui non fa che ricordarcelo ogni volta che circumnaviga l’argomento. Nel giro di un anno e mezzo o addirittura di qualche mese, tutto ciò che rimarrà all’NBA del Re sarà il suo trono vuoto e la sua eredità.

Il concetto di ‘legacy’ trascende quello semplificato e abusato in ogni discussione. Non è solamente ciò che un atleta ha raccolto nel corso della propria carriera. La legacy è soprattutto l’impronta che lascia al momento del ritiro.

Partendo dagli aspetti più contraddittori, LeBron lascerà innanzitutto un’eredità fisica: suo figlio, Bronny James. I primi mesi di stagione hanno dato l’impressione che non fosse abbastanza pronto o talentuoso per entrare in NBA senza la spinta del padre. La volontà di LeBron di giocare insieme a lui si scarica su Bronny sotto forma di giudizi esageratamente critici. Ma è il figlio di ‘The Chosen One’, come può pretendere di emergere in NBA senza dover sopportare la pressione?

 

Player Empowerment

Il secondo tratto è inevitabilmente quello del ‘Player Empowerment’. Nell’estate del 2010 James annuncia il suo trasferimento ai Miami Heat attraverso una trasmissione speciale su ESPN, chiamata The Decision. Per la prima volta nella storia, a costruire una squadra da titolo non è un General Manager, bensì la collaborazione tra stelle: lui, Dwyane Wade e Chris Bosh. Il ruolo informale da dirigente-giocatore diventa poi ancora più ingombrante durante il suo secondo mandato ai Cavaliers, tra il coinvolgimento nell’esonero di David Blatt nel 2016 e il via vai di giocatori più o meno validi durante la stagione 2017-18.

LeBron non è l’unico motivo per cui oggi sempre più superstar lavorano a stretto contatto con il front office e possono pretendere di essere cedute quando le cose non vanno bene. Ma è stato certamente un fattore determinante nell’esplosione del fenomeno.

 

James il Mega-creator

Per quanto riguarda le dinamiche strettamente di campo, il Prescelto ha sdoganato definitivamente il ruolo del ‘Mega-creator’, quel tipo di attaccante in grado di gestire quasi tutti i possessi, creando per sé e per i compagni senza mai delegare. Negli ultimi anni sempre più giocatori hanno replicato quel modello di gioco. Dai più noti, come James Harden e Luka Doncic, ai meno noti, come Trae Young e LaMelo Ball.

L’eredità più importante, tuttavia, sarà l’enorme sensazione di vuoto, almeno per i primi anni. LeBron è un personaggio diventato più grande dello sport stesso. Ha attraversato tre diverse generazioni, e i suoi compleanni hanno scandito vent’anni di vita di ogni appassionato, che sia tifoso o non. Non è riuscito, per iconicità, ad essere come Jordan. Ma non ci sarà nemmeno un altro LeBron.

Di Emil Cambiganu

Studente, caporedattore per Around the Game, co-fondatore di STAZ. Ho 23 anni ma faccio ancora le notti in bianco per guardare Stephen Curry.