Nell’immaginario collettivo, la figura del lottatore mascherato è qualcosa di mitico: un eroe popolare, un personaggio larger than life che incarna forza, sacrificio e spettacolo. In Messico, la lucha libre è molto più di uno sport. È un rito collettivo, uno show dove il confine tra realtà e finzione si confonde e i personaggi si caricano di un simbolismo che va oltre il ring. Tra questi, pochi hanno una storia che può rivaleggiare con quella di Fray Tormenta. Dietro la sua maschera colorata non c’è solo un lottatore, ma un sacerdote. Un uomo che ha scelto di salire sul ring per una missione: raccogliere fondi per un orfanotrofio e dare una casa a bambini che non avevano nulla. La sua vicenda umana sfida ogni schema, unendo fede, recitazione e sport. Non sorprende che abbia ispirato film (Super Nacho del 2006 con Jack Black) e leggende, ma il cuore della sua storia è più complesso di quanto le versioni romanzate lascino intendere.
Fray Tormenta — al secolo Sergio Gutiérrez Benítez, nato nel 1945 — rappresenta qualcosa di unico. Non era solo un prete che voleva fare beneficenza. La sua decisione di diventare un luchador professionista nasce da una consapevolezza brutale: la povertà non aspetta. Se voleva aiutare davvero, doveva trovare un modo concreto per finanziare il suo progetto.
Sembra L’Uomo Tigre o The Blues Brothers, ma è tutto vero.
Una vita tra fede e lotta
Prima di diventare Fray Tormenta, Sergio Gutiérrez Benítez conduceva una vita turbolenta. Cresciuto in Messico, Sergio è un ragazzo di strada, immerso in un mondo di criminalità, dipendenze e violenza. La sua adolescenza è un continuo passare da un problema all’altro, finché un evento lo costringe a cambiare rotta. Un incontro con un sacerdote lo porta a riflettere su se stesso e sul significato della sua esistenza. Al prete chiede aiuto per uscire dal circolo vizioso delle sostanze che assume da anni, in cambio riceve una risposta che non si aspetta: “La mia chiesa non è una clinica per disintossicarsi”.
Crescendo in una delle periferie più povere, Sergio era abituato alla dura realtà delle strade: poche prospettive, violenza diffusa e un futuro apparentemente segnato. Viveva di espedienti, cercando di sopravvivere giorno dopo giorno. Ma l’incontro con quel sacerdote gli offrì qualcosa che non aveva mai avuto prima: uno scopo. Entrare in seminario non fu una scelta facile; richiedeva disciplina e sacrificio, qualità lontane dal carattere ribelle di Sergio. Tuttavia, fu proprio il senso di sfida che lo spinse ad accettare: voleva dimostrare, prima di tutto a se stesso, di poter essere qualcosa di più.
Gli anni in seminario furono trasformativi. Sergio non perse mai il suo temperamento passionale, ma imparò a canalizzarlo in una direzione diversa. Quando venne ordinato sacerdote, capì che il suo ruolo non si sarebbe limitato ai sermoni domenicali. Per lui, il sacerdozio era un’opportunità per agire, per essere presente nella vita delle persone più vulnerabili. Quando gli fu assegnata una parrocchia in una delle zone più povere del Messico, Sergio si rese conto della gravità della situazione: bambini abbandonati, famiglie distrutte dalla povertà, un tessuto sociale a pezzi. Fu lì che nacque l’idea dell’orfanotrofio.
Il sacrificio della maschera
È durante il suo servizio pastorale che Sergio si rende conto di quanto sia drammatica la situazione degli orfani. Molti di loro vivono in strada, senza cibo, senza cure, senza futuro. Sergio decide di aprire un orfanotrofio per accoglierli, ma presto si trova davanti a un problema gigantesco: come finanziare il progetto?
In Messico, la lucha libre è più di uno sport. È cultura popolare, intrattenimento e, per molti lottatori, un modo per guadagnarsi da vivere. Sergio, da sempre appassionato di questo mondo, ha un’idea tanto folle quanto geniale: diventare un luchador professionista. Se riuscisse a salire sul ring e vincere, potrebbe usare i soldi dei premi per mantenere l’orfanotrofio.
Il piano è tanto ambizioso quanto rischioso. Perché la lucha libre è spettacolo, sì, ma anche sudore, fatica e dolore. Non è qualcosa che si improvvisa, specialmente per un uomo senza alcuna esperienza pregressa. Sergio, però, non si lascia scoraggiare. Per mesi si allena duramente, imparando le tecniche, i movimenti e le cadute. Infine, adotta un nome e una maschera. Nel 1978, a 33 anni, il sacerdote fece il suo debutto come luchador professionista con il nome di Fray Tormenta, Frate Tempesta. Temendo il giudizio della Chiesa e della sua comunità, decise di mantenere segreta la sua seconda vita. Solo pochi intimi conoscevano la verità, mentre per il pubblico Fray Tormenta era semplicemente un nuovo luchador mascherato che lottava per la gloria.
La doppia vita di un eroe mascherato
Dopo anni di segretezza, nel 1984 Fray Tormenta rivelò pubblicamente di essere un prete, attirando ulteriore attenzione mediatica e accrescendo la sua leggenda.
La carriera di Fray Tormenta inizia nei piccoli circuiti della lucha libre, dove si esibisce davanti a poche centinaia di spettatori, guadagnando in media 2000-3000 pesos a incontro, abbastanza per coprire le necessità dell’orfanotrofio.
Per 23 anni, dal 1978 al 2001, Fray Tormenta conduce una doppia vita. Di giorno è Sergio, il sacerdote che si occupa dei bambini dell’orfanotrofio. Di notte è Fray Tormenta, il luchador che lotta per raccogliere fondi. Ogni incontro è una battaglia non solo fisica, ma anche morale. Le cadute sul ring, i colpi, le sconfitte — tutto viene sopportato per un obiettivo più grande.
Il pubblico amava il suo stile di lotta passionale e il suo personaggio carismatico, ma pochi conoscevano il sacrificio che si nascondeva dietro ogni incontro. Ogni peso sollevato, ogni allenamento faticoso, ogni ferita era un passo avanti verso la salvezza dei suoi orfani.
La leggenda di Fray Tormenta
Con il passare degli anni, la fama di Fray Tormenta cresce. Diventa un’icona della lucha libre, ispirando non solo i fan, ma anche altri lottatori. La sua maschera bicolore – dove il giallo rappresenta la luce della fede e il rosso richiama il sacrificio e il sangue versato per i suoi bambini – diventa un simbolo riconoscibile, e la sua storia arriva anche al cinema. Nel 2006, il film Nacho Libre con Jack Black racconta, in chiave comica, la sua vicenda. Anche se il film si prende molte libertà creative, contribuisce a far conoscere al mondo intero la figura di Fray Tormenta.
Ma la vera leggenda di Fray Tormenta non si limita al ring. Il suo orfanotrofio, chiamato Casa Hogar de los Cachorros de Fray Tormenta, negli anni ha accolto centinaia di bambini. Ogni peso guadagnato sul ring veniva usato per coprire spese alimentari, mediche e scolastiche. L’impatto sulla comunità locale fu immenso, tanto che molte persone iniziarono a considerare Fray Tormenta non solo un lottatore, ma un padre per tutti i bambini che salvava dalla strada.
Un mini documentario su Fray Tormenta, per chi mastica lo spagnolo
Fray Tormenta non si è mai visto come un eroe. Per lui, il vero successo era vedere i suoi bambini crescere, studiare e costruirsi una vita migliore. In un’intervista, ha dichiarato: “Non importa quante volte sono stato sconfitto sul ring. Ogni bambino che riesco ad aiutare è una vittoria più grande di qualsiasi trofeo”.
Un’eredità che vive oltre il ring
Oggi, a 79 anni, Fray Tormenta non lotta più, ma la sua leggenda vive. La sua maschera è stata ereditata da altri lottatori, che continuano a portare avanti il suo nome sui ring di tutto il mondo. È un gesto simbolico, ma anche pratico: il nome Fray Tormenta ora rappresenta una causa, un modo per ricordare che la lucha libre è più di uno spettacolo. Può essere uno strumento di cambiamento.
L’impatto di Fray Tormenta va ben oltre il mondo del wrestling. La sua figura si è radicata nella cultura popolare messicana, venendo citata in documentari, interviste e anche da altri atleti che vedono in lui una figura ispiratrice. Le sue lotte hanno dimostrato che anche nei contesti più difficili si possono trovare soluzioni innovative, spesso contro ogni previsione.
Un aneddoto poco noto riguarda una delle sue ultime lotte, in cui, ormai con il corpo segnato da anni di incontri, è salito sul ring nonostante il parere contrario dei medici. Era un match simbolico, una raccolta fondi per una nuova ala dell’orfanotrofio. “Non lottavo per vincere quel giorno – ha raccontato in un’intervista – Lottavo per ricordare alle persone perché lo facevo”.
In molte interviste, Sergio ha confessato di amare il wrestling tanto quanto la sua vocazione religiosa: “Non avrei mai potuto fare una cosa senza l’altra”. E ancora: “Il wrestling mi ha dato una forza che non avrei mai trovato altrove, e la fede mi ha insegnato come usarla per aiutare gli altri”.
Oggi, a 79 anni, Sergio Gutiérrez Benítez vive vicino al suo orfanotrofio in una casa modesta. Continua a occuparsi della gestione della Casa Hogar e a offrire supporto spirituale ai suoi ‘cachorros’, come chiama affettuosamente i bambini che accoglie.
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