Il calcio di oggi è un esercizio di perfezione. Gli atleti sono macchine che eseguono programmi calibrati al millimetro: corpi scolpiti e menti plasmate per sopportare pressioni disumane. Ma c’è un prezzo da pagare per questa ossessione per l’efficienza, e a rimetterci è l’umanità che un tempo traspariva dai protagonisti di questo gioco. I calciatori moderni sembrano action figures in una teca, curate e protette da ogni interferenza esterna, mentre lo spazio per l’errore e l’imprevisto—quel terreno fertile dove fioriva il genio—si riduce sempre di più. Non che manchino le eccezioni: anche chi è cresciuto tra gli anni ’90 e 2000 ha visto personaggi sopra le righe. Cassano, Balotelli, Ronaldinho. Ma la sensazione è che quel tipo di giocatori, capaci di portare un tocco di caos e poesia nella routine asettica del calcio, stia scomparendo.
George Best è forse l’archetipo di questa figura: immenso talento e altrettanto immensa autodistruzione. Il nordirlandese è stato tanto un artista del pallone quanto un simbolo di libertà fuori dal campo. Anche in Italia abbiamo avuto, in scala minore soltanto per i risultati sportivi, un interprete di questo spirito: Ezio Vendrame. Non un fenomeno internazionale, né un uomo di spettacolo al termine della carriera. Vendrame si è reinventato come poeta e scrittore, restando però fedele al personaggio che è sempre stato: un anarchico con un talento innegabile, capace di stregare il pubblico in campo e vivere la vita con la stessa intensità con cui giocava. Questa è la sua storia, la storia del George Best friulano.
Ezio Vendrame nasce nel 1947 a Casarsa della Delizia, un piccolo centro friulano che la storia lega al nome di Pier Paolo Pasolini. Ma la vita di Ezio non ha nulla di poetico, almeno agli inizi. Cresce in una famiglia poverissima e la separazione dei genitori rende ancora più instabile una situazione già fragile, portandolo a trascorrere l’infanzia in orfanotrofio. Negli anni ’50 queste strutture sono spesso gestite da religiosi e la disciplina è imposta con metodi che sconfinano nel sadismo. Per Vendrame quegli anni lasciano segni profondi: impara a detestare regole e imposizioni, sviluppando un’avversione viscerale per la religione e per tutto ciò che rappresenta. È un rifiuto che lo accompagnerà per tutta la vita, così come una certa insofferenza verso ogni forma di autorità.
Finora abbiamo raccontato più l’uomo che il calciatore, ma chi era davvero Ezio Vendrame sul campo? Nei tre anni in Serie C accumula una cinquantina di presenze, abbastanza per meritarsi la chiamata del Lanerossi Vicenza in Serie A. Ma ciò che lo distingue non sono solo i numeri, quanto il suo stile: capelli lunghi, barba incolta, calzettoni perennemente abbassati. Impossibile non paragonarlo a George Best, o, come suggerì Giampiero Boniperti, a Mario Kempes. Eppure, i veri modelli di Vendrame erano altri: Gigi Meroni, Gianfranco Zigoni e, più tardi, Diego Maradona. Idoli anarchici, fuori e dentro il campo.
Vendrame non aveva un ruolo fisso. Nasce come ala, ma la sua natura libera e creativa lo porta a svariare ovunque in attacco, trovando spazi e tempi di gioco che nessun altro vedeva. Dribbling fulminante, tecnica sopraffina, visione di gioco fuori scala: con un gesto poteva illuminare una partita. E poi c’erano quei momenti di puro spettacolo. Quando non trovava compagni liberi, si fermava, metteva entrambi i piedi sul pallone e, con la mano sulla fronte, fingeva di scrutare l’orizzonte alla ricerca di nuove terre emerse. Una teatralità che incantava il pubblico, anche se i suoi numeri in carriera – meno di venti gol in oltre un decennio – non raccontano la sua vera grandezza.
A Vicenza trova il suo habitat ideale. All’inizio è relegato in panchina, ma bastano poche partite per far capire a tutti di che pasta è fatto. L’allenatore Umberto Menti gli concede totale libertà di movimento: Vendrame è un artista, e gli artisti non si incasellano. In campo è imprendibile; fuori è la stessa storia. A 24 anni diventa il simbolo della città, un idolo per i tifosi e un mito per le signore. Vive la notte come vive la partita: donne, alcool, sigarette. Una vita senza freni, ma sempre con stile. È rimasta nella memoria di tutti la sua performance a San Siro contro l’Inter. Giovanni Invernizzi, l’allenatore nerazzurro, prova di tutto per fermarlo: gli cambia marcatura tre volte, ma Vendrame è inarrestabile. Anche Giacinto Facchetti, uno dei migliori difensori di sempre, si arrende ai suoi dribbling.
Con il Lanerossi Vicenza i risultati non sono eccezionali: due dodicesimi posti e un tredicesimo, ma le sue prestazioni non passano inosservate. Mezza Serie A si interessa a lui, ma la spunta il Napoli. Luís Vinício, allenatore dei partenopei, lo vuole per costruire una squadra che sappia giocare alla olandese. Per Vendrame è l’inizio di un nuovo capitolo, ancora più intrigante e imprevedibile, come tutto ciò che ha sempre fatto nella sua carriera.
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A Napoli l’avventura comincia con il piede sbagliato, dentro e fuori dal campo. Per il fantasista friulano è l’occasione di consacrarsi nel grande calcio, ma anche di mettere a posto il portafoglio. Quando si presenta per negoziare il contratto con il direttore generale Francesco Janich, Vendrame ha le idee chiare: vuole 20 milioni di lire a stagione, il doppio di quanto guadagnava a Vicenza. Janich accetta senza esitazioni, e Vendrame, soddisfatto, firma immediatamente. La soddisfazione, però, dura poco. Bastano un paio di giorni perché scopra che il giocatore meno pagato della rosa, Giovanni Ferradini, fresco di trasferimento dall’Atalanta con una sola presenza in Serie A, guadagna 60 milioni: tre volte il suo stipendio. La delusione, ovviamente, è enorme.
Sul campo le cose non vanno meglio. Luís Vinício, che aveva voluto Vendrame per il suo Napoli, si rende conto ben presto che l’intuizione si sta rivelando un errore. Il rapporto tra i due non decolla, e dopo appena tre partite il George Best friulano viene accantonato. Da lì in poi, Vendrame trascorre la stagione quasi interamente ai margini, relegato tra i non convocati. Questa esperienza gli ispirerà uno dei suoi libri più celebri: Se mi metti in tribuna godo, pubblicato nel 2002, in cui racconta con ironia e disincanto quella stagione complicata.
Fuori dal campo, però, Napoli regala a Vendrame un’altra storia. Le sue conquiste femminili in terra campana sono continue, e alcune, secondo quanto raccontato nel suo libro, avvengono persino nelle tribune dello stadio San Paolo. È un periodo di eccessi e leggerezza, in contrasto con l’amarezza di una stagione sportiva che non lo vede protagonista. Il 1974-75 è una stagione amara anche per il Napoli, che lotta per lo scudetto ma lo perde in favore della Juventus. Ironia della sorte, i bianconeri si laureano campioni proprio battendo il Lanerossi Vicenza, la squadra che aveva lanciato Vendrame in Serie A.
Le strade di Ezio Vendrame e del Napoli si separano, ma il legame con la città e i suoi tifosi rimane intatto. Nonostante le sole tre presenze in maglia azzurra, il fantasista friulano ha sempre speso parole di affetto per la squadra e per la gente partenopea, che non gli ha mai fatto mancare il suo amore. A 28 anni, però, la sua carriera in Serie A sembra arrivata al capolinea. Le sue qualità non sono in discussione, ma il carattere fuori dagli schemi scoraggia qualsiasi squadra della massima serie dal puntare su di lui. Vendrame riparte dal Padova, in Serie C, dove il livello del campionato è troppo basso per uno del suo talento. Qui, libero da pressioni, torna a giocare come ai tempi di Vicenza e aggiunge anche qualche gol alla sua collezione, dimostrando che il suo tallone d’Achille non è l’assenza di qualità, ma di continuità.
In maglia biancoscudata, la leggenda di Vendrame si arricchisce di nuovi capitoli. Memorabile la partita contro l’Udinese, squadra in lotta per la promozione in Serie B. Prima del match, i dirigenti friulani offrono 7 milioni di lire al fantasista di Casarsa per “non mettersi troppo in mostra“. Vendrame accetta, consapevole delle difficoltà economiche in cui versa il Padova. Ma quel giorno, lo stadio Appiani è pieno di tifosi dell’Udinese, molti dei quali lo insultano senza sosta. Per Vendrame è troppo. Decide di ignorare l’accordo e giocare sul serio. Il risultato? Una doppietta che consegna al Padova la vittoria per 3-2, mandando in frantumi i sogni di promozione dell’Udinese. Il suo secondo gol è entrato nella leggenda: da un calcio d’angolo, si rivolge ai tifosi friulani e promette che segnerà direttamente dalla bandierina. Dopo essersi soffiato il naso con il pennone, calcia una parabola perfetta che si insacca in rete, regalando il colpo di grazia alla sua ex squadra.
Ma è un’altra partita, Padova-Cremonese, a consacrare definitivamente il personaggio Vendrame. Le due squadre hanno concordato un pareggio, ma per Ezio la sola idea di una combine è insopportabile. Così decide di ribellarsi a modo suo: prende palla, dribbla uno dopo l’altro tutti i suoi compagni di squadra e si dirige verso la propria porta. Arrivato davanti al portiere Bartolini, finta il tiro e si ferma sulla linea, lasciando tutti con il fiato sospeso. La leggenda vuole che uno spettatore sugli spalti abbia avuto un infarto per la tensione. Questo era Vendrame: lucida follia al servizio di un talento puro e indomabile, capace di trasformare ogni partita in un palcoscenico per le sue gesta irripetibili.
La sua avventura al Padova si conclude dopo due stagioni, ma per Ezio Vendrame il calcio non finisce lì. Prosegue il suo percorso nelle categorie inferiori, vestendo le maglie di squadre come l’Audace, il Pordenone, la Junior Casarsa e l’Opitergina. Non sono esperienze che gli regalano titoli o gloria, ma gli permettono di continuare a giocare quel calcio che, pur amandolo visceralmente, lo aveva sempre messo a disagio nella sua veste più formale e professionistica. In quei campionati minori, lontano dagli occhi del grande pubblico, Vendrame ritrova probabilmente un contatto più autentico con il gioco, libero dai riflettori e dalla pressione di chi si aspettava da lui un ruolo che non avrebbe mai potuto interpretare.
Terminata la carriera da calciatore, Vendrame prova anche a cimentarsi come allenatore. A fine anni ’90, guida le giovanili di Pordenone, Venezia e Sanvitese. Ma l’esperimento dura poco: il ruolo del tecnico mal si concilia con il suo spirito anarchico e ribelle. Vendrame era uno che sul campo non voleva schemi, regole o vincoli, uno che necessitava soltanto di libertà. E se lui, da calciatore, chiedeva solo di essere messo in campo e lasciato inventare, come avrebbe potuto pretendere qualcosa di diverso dai ragazzi che allenava? Non era tagliato per quel mestiere, e ne era perfettamente consapevole.
Una lunga intevista a Vendrame
Fuori dal campo, però, Vendrame trova altri modi per esprimersi. Scrive libri e poesie, in cui trasforma la sua vita in letteratura, raccontando le esperienze di un uomo che ha sempre vissuto ai margini, consapevolmente e fieramente. Se mi lasci in tribuna godo e Una vita in gioco sono due dei suoi libri più noti, opere in cui il calcio si intreccia con la sua esistenza, diventando metafora di un mondo che spesso non lo ha capito. Ezio si dedica anche alla musica, suonando la chitarra e l’armonica, e si ritira a vita privata nel suo Friuli, conducendo un’esistenza umile e lontana dai riflettori, in una casa in affitto e con una vecchia Volkswagen Golf come unico lusso. Non ci sono vetrine scintillanti, né ritorni sul grande palcoscenico: c’è solo la coerenza di chi ha sempre rifiutato ogni compromesso.
Ezio Vendrame non è stato solo un calciatore. È stato un simbolo di libertà, di un modo di vivere e interpretare la vita che mal si adattava a un’Italia anni ’70 perbenista e bigotta, dove tutto doveva rientrare nei confini del “buon costume”. Lui invece li ha sempre ignorati, quei confini. Era un uomo che amava il calcio, ma che detestava fare il calciatore. “Era un ambiente che non sopportavo”, diceva. Le trasferte, gli allenamenti, le regole: tutto ciò che per i suoi colleghi rappresentava la normalità, per lui era una gabbia.
Vendrame legge Piero Ciampi: i due erano amici fraterni
Vendrame si è spento nell’aprile del 2020, a 72 anni, portandosi via un mondo che ormai non esiste più. Il calcio moderno non contempla figure come la sua. Gli atleti di oggi sono professionisti impeccabili, prodotti costruiti e ottimizzati per rendere al massimo. Vendrame era il contrario di tutto questo. Non seguiva tabelle, non cercava la perfezione. Era uno di noi, imperfetto e umano, con le sue fragilità e i suoi eccessi, ma con un talento raro che emergeva, a tratti, come un lampo improvviso in una giornata grigia.
Personaggi come lui sono sempre più rari, forse del tutto estinti. Il calcio non è più soltanto uno sport: è un’industria, una macchina che non lascia spazio a sfumature o deviazioni. I calciatori non sono più figure vicine alle persone comuni, e forse è per questo che Ezio rimane nei ricordi di chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare. Non per quello che ha vinto – perché non ha vinto nulla – ma per ciò che rappresentava. La sua era una storia di resistenza: contro le regole, contro l’ipocrisia, contro un mondo che non sapeva cosa fare di uno come lui. E proprio per questo è rimasto unico.
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