Nel dicembre 2011, in un lussuoso appartamento di New Orleans, un giovane Chris Paul è in chiamata con il fratello CJ e il proprio agente, in cerca di un paio di posti in prima classe per volare a Los Angeles. Nella stanza a fianco, una indaffarata Jada Crowley sta impacchettando tutti gli effetti personali, suoi e del marito, impilando scatole su scatole in vista del trasferimento. Seduto sul divano invece c’è Jarrett Jack, che è appena arrivato in città – da Toronto, dopo uno scambio – e ha chiesto una sistemazione di fortuna all’amico e – per il momento – compagno di squadra. Con un occhio sfoglia una lista di appartamenti in zona, con l’altro segue gli aggiornamenti in televisione sul mercato NBA. Si parla di una breaking news fantasmagorica: l’approdo ai Los Angeles Lakers del suo attuale ospite, Chris Paul.
La quiete di questo quadretto familiare è scossa dall’agente, che riattacca di fretta la chiamata e poi si riconnette con una voce completamente diversa. Qualcosa non va, riesce solo a balbettare parole confuse – abbastanza, comunque, per mettere CP3 al corrente degli ultimi sviluppi dell’affare, che è clamorosamente saltato. Dopo aver riattaccato, Chris resta in silenzio, attonito, con gli occhi persi nel vuoto. Si siede, sente mancare la terra sotto i piedi, ripensa a tutte le chiacchierate dei giorni prima con Kobe Bryant, finché il telefono squilla di nuovo. Mette la conversazione in vivavoce, così che tutti i presenti possano ascoltare. “Ci dispiace dirtelo così, Chris, ma ti aspettiamo domani all’allenamento”. Le voci sono familiari per Jarrett Jack, che non ha dubbi: si tratta del general manager degli (allora) New Orleans Hornets, Dell Demps, e del commissioner NBA, nonché provvisorio proprietario della franchigia, David Stern.
Questo non è un racconto immaginario, ma la ricostruzione dei fatti – a 10 anni di distanza – a cura del Los Angeles Times, per bocca dei diretti interessati. Si è appena consumata una delle vicende più controverse nella storia della lega, destinata ad accendere eterne polemiche tra tifosi e addetti ai lavori. Riavvolgiamo un attimo il nastro.
The trade that would have sent a 26-year-old, Chris Paul, to the Lakers was vetoed by David Stern. (2011) pic.twitter.com/tQpxJWzBXd
— ThrowbackHoops (@ThrowbackHoops) May 16, 2018
Il veto
A dicembre 2011, l’NBA è appena uscita dal cosiddetto lockout, una serrata durata 161 giorni e provocata da mancati accordi organizzativi e finanziari fra proprietari e giocatori. Si è risolto tutto, alla fine, con un nuovo Accordo Collettivo (CBA) di durata decennale, ma a qualche settimana dall’avvio (ritardato) della regular season non tutto è tornato alla normalità, anzi. A partire dai New Orleans Hornets, in mano ad interim all’NBA stessa, che l’anno prima aveva prelevato la franchigia da George Shinn e Gary Chouest, per rivenderla il prima possibile.
Come se non bastasse, l’offseason prolungata del 2011 è una delle più instabili che si ricordino in Louisiana, con soli cinque giocatori sotto contratto – fra cui il sopracitato Jarrett Jack, un giovane Marco Belinelli e la superstar della squadra, Chris Paul, in aria di rinnovo. Il problema è che quest’ultimo, uno dei migliori in assoluto su entrambe le metà campo (tre volte nei quintetti All-NBA e All-Defensive nelle sue prime sei stagioni da professionista) e non per niente un perenne candidato MVP, ha un’opzione contrattuale da esercitare alla fine della stagione 2011/12; e per un giocatore di quel calibro, la ricerca di un contesto competitivo è una condizione necessaria, che difficilmente a New Orleans gli potrà essere garantita. Dentro e fuori la lega, tutti ritengono scontato che la point guard nell’estate 2012 diventerà free agent, tra cui gli Hornets stessi, che lavorano – di comune accordo con il giocatore – a uno scambio. Perdere la propria superstar ricevendo un pugno di mosche, del resto, è un’opzione da scongiurare in ogni modo.
È in queste condizioni che, fra le tante offerte, quella più allettante prevede una trade a tre squadre con Rockets e Lakers, che i primi di dicembre pare quasi fatta. Anzi, diciamo pure che l’affare è andato in porto: manca solo l’ufficialità, dato che il GM Dell Demps ha già dato l’ok, praticamente senza passare da Stern. Quest’ultimo però, l’8 dicembre 2011, in una giornata sconvolgente per il mondo NBA, decide di porre il veto all’operazione, facendo saltare la trattativa. Getta una secchiata d’acqua sul fuoco mediatico che già sta bruciando, immaginando la coppia Paul-Bryant, l’approdo di Pau Gasol a Houston e il roster degli Hornets infoltito da role player di livello come Goran Dragić, Luis Scola e Kevin Martin (tutti dai Rockets), oltre a Lamar Odom da LA. Ma perchè Stern, ovvero l’NBA, si è messo di mezzo a tutto ciò?
I motivi del rifiuto sono molteplici. Quello ufficiale riguarda la volontà, sottolineata dallo stesso commissioner, di fare gli interessi degli Hornets, non scambiando uno dei migliori giocatori della lega e un futuro Hall of Famer per il primo pacchetto di role player disponibili, per quanto di alto livello. Il non detto, però, è più complesso.
Stu Jackson, al tempo executive NBA, ha raccontato a Los Angeles Times come uno scambio del genere avrebbe penalizzato New Orleans sul lungo periodo. Non solo sul campo, ma anche e soprattutto nell’ottica di un’eventuale vendita. Secondo Jackson, infatti, l’arrivo dei role player sopra citati avrebbe portato la franchigia a partecipare comunque ai playoffs, ma senza chance concrete di competere per il titolo; avrebbe relegato gli Hornets, insomma, a un limbo poco attraente per potenziali compratori. Meglio un prodotto “da riparare” totalmente, e dunque con maggiori chance di profitto. Una strategia che in effetti si rivelerà vincente, considerando che appena quattro mesi dopo la franchigia verrà acquistata da Tom Benson, owner dei Saints in NFL.
Al di là di versioni ufficiali e teorie del complotto, però, un’altra delle ragioni riguarda il contesto storico. La firma del nuovo CBA nel deserto del lockout è appena avvenuta proprio con il presupposto di valorizzare i piccoli mercati anziché le powerhouse come i Lakers, al tempo reduci da due titoli in tre anni. I gialloviola, inoltre, avevano costruito questi successi proprio a partire da una trade del 2008 ritenuta dai più “scandalosa”: Kwame Brown, Javaris Crittenton, Aaron McKie, i diritti su Marc Gasol e un paio di first-round pick ai Grizzlies per l’All-Star catalano Pau Gasol. Un vero e proprio scam ai danni di Memphis, lenito parzialmente dal futuro sviluppo di Marc Gasol in stella, ma percepito come tale dai dirigenti di allora.
Non è un caso che l’owner dei Cleveland Cavaliers, Dan Gilbert, avesse mandato una mail a Stern protestando – a nome suo e di svariati altri dirigenti – e chiedendo “perché non cambiare, a questo punto, i nomi delle altre 25 franchigie in Washington Generals?”, ironizzando sulla squadra da esibizione e sparring partner negli anni ‘50 degli Harlem Globetrotters, protagonista di una striscia di 2.495 sconfitte consecutive. Dopo la firma del nuovo CBA, accettare uno scambio come quello per Chris Paul e favorire un mercato potente, vincente e con precedenti del genere sarebbe stato a dir poco incoerente. Aggiungete che i rumors parlavano proprio in quel periodo di un flirt tra Lakers e Dwight Howard, vincitore di tre premi consecutivi di Difensore dell’Anno, ed ecco la ricetta perfetta per un polverone. In un clima così teso, che neanche a dirlo enfatizza l’incompatibilità – già eticamente evidente – dei ruoli di owner e commissioner, il veto si presenta a David Stern come l’unica strada percorribile.
Le conseguenze
Eccoci di nuovo al momento in cui Chris Paul ha appena ricevuto telefonicamente l’invito a farsi vedere agli allenamenti di New Orleans, fino a nuovo ordine. La cosa, comunque, non andrà avanti a lungo, anzi CP3 non dovrà chiedere nemmeno il rimborso per i costi di trasloco, dato che a Los Angeles volerà effettivamente la settimana successiva. Non ai Lakers però, ma sponda Clippers. Il pacchetto concordato è più futuribile per gli Hornets: il lungo navigato Chris Kaman, una giovane ala versatile reduce dall’anno da rookie come Al-Farouq Aminu, una first-round pick da Minnesota (usata al Draft 2012 per chiamare Austin Rivers) e, soprattutto, il 22enne Eric Gordon, stella offensiva che sembrava rappresentare il futuro della franchigia, e che al momento dell’annuncio si trovava su un bus con gli abbonati stagionali dei Clippers. Sono tutti scioccati dallo scambio, come succedeva spesso prima del boom di Twitter.
Lamar Odom back in 2017 talking about how hard it was to get traded from the Lakers
(via @latimes) pic.twitter.com/ULC1JGpYsw
— Hoop Central (@TheHoopCentral) November 26, 2020
Chi su Twitter è già attivo da tempo, invece, è Lamar Odom, che dopo il veto userà la piattaforma per mettere eticamente in discussione il suo caso; ovvero, le modalità con le quali un giocatore dovrebbe trovare stimoli dopo aver saputo di essere stato praticamente scambiato. Odom è stato tra i principali artefici dei due titoli dei Lakers, fresco di nomina a Sixth Man of the Year, e non si riprenderà più dalla vicenda. È emotivamente turbato dalla scelta della dirigenza di impacchettarlo e spedirlo altrove, senza essere nemmeno a conoscenza della trattativa. I toni si scaldano, Odom non si fa neanche vedere al training camp, e pochi giorni dopo viene scambiato ai Dallas Mavericks.
In questo butterfly effect, dunque, i Lakers usciranno addirittura come squadra svantaggiata, che non per niente a fine anno verrà eliminata al secondo turno dei Playoffs. Correndo disperatamente ai ripari dopo il mancato arrivo di Paul e la perdita di Odom, nell’offseason 2012 verrà effettuato uno scambio a più squadre per arrivare a Dwight Howard, aggiungendo anche un 38enne Steve Nash tramite sign&trade. Tra problemi fisici e mancata chimica in spogliatoio, dopo tre cambi di allenatore e una piallata storica al primo turno Playoffs per mano dei San Antonio Spurs, il nucleo si sfalderà dopo un solo anno. Un disastro, con tanto di epilogo tragico: l’infortunio al tendine d’Achille di Kobe Bryant, che de facto metterà fine alla sua carriera, competitivamente parlando.
In tutto questo, gli Hornets – anzi i Pelicans, dato che nel 2012 il nuovo proprietario decide di cambiare nome alla franchigia rimandando a un simbolo più “locale” – manterranno a lungo termine solo Gordon, ma sfrutteranno la mediocrità acquisita per ottenere la prima scelta al Draft 2013. Ovvero, Anthony Davis – che oggi, ironia della sorte, è il volto proprio dei Los Angeles Lakers. L’unica squadra che ne uscirà con slancio positivo saranno proprio i Clippers, dando il via al mito di Lob City, una squadra divertente da vedere, con atleti esplosivi come Blake Griffin e DeAndre Jordan costantemente innescati dal genio e dagli assist di CP3. Nonostante non sia mai arrivato il titolo, e nemmeno una serie di Conference Finals, saranno sei anni consecutivi di Playoffs e stagioni perennemente oltre le 50 vittorie stagionali (“solo” 40 nel primo anno di rodaggio), utili a mettere sulla mappa dell’NBA una franchigia storicamente perdente.
Fra corsi e ricorsi storici, Chris Paul andrà più vicino al titolo quando si riunirà con Monty Williams, coach avuto a New Orleans, ai Phoenix Suns. Insieme a Devin Booker e compagnia, darà vita a una cavalcata interrotta solo dai Milwaukee Bucks, in sei gare, alle NBA Finals. Chissà se ancora adesso, come ha ammesso su Knuckleheads Podcast, continua a raccontare a Wembanyama e ai giovani Spurs, seduti di fronte a lui nella facility di San Antonio, di quell’assurdo momento in cui ha tenuto sotto scacco l’intera NBA. “Giocando per i Lakers, ma giusto per un paio d’ore”.
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