Occhio indemoniato, torso nudo, aria furba e compiaciuta di chi sa di star facendo un dispetto che non passerà inosservato, alzando la temperatura sugli spalti e sui social. L’immagine con cui si è chiusa la 14esima giornata di Serie A, quella di Nicolò Zaniolo sotto il settore ospiti dell’Olimpico, dopo aver segnato lo 0-2 in Roma-Atalanta, ha fatto tornare d’attualità un tema che a dire il vero non ci abbandona mai del tutto. Ovvero: i gol dell’ex, o meglio il modo di celebrarli – tra chi regala materiale da prime pagine e polemiche a non finire, come Zaniolo e prima di lui tanti altri “agitatori” (da Higuain ad Adebayor, passando per Vieri, Ibrahimovic, Osvaldo, Icardi…); e chi invece sceglie la via del rispetto e dell’eleganza, o presunta tale – che si tratti, come vedremo, di prassi, di un “ricatto” o di un gesto spontaneo.
Non c’è più niente di sorprendente nella scena di un calciatore che, dopo aver segnato contro la sua ex squadra, ha uno strano attimo di esitazione al momento dell’esultanza. Un momento in cui la testa sembra dire al resto del corpo di non cedere alla memoria muscolare e di non abbandonarsi alle abitudini di un’intera carriera, ma di ricordare che dopo certi gol – non importa quanto belli e importanti – bisogna anteporre al piacere, il dovere. Ovvero il rispetto di quello che nel galateo calcistico si è trasformato nei decenni da dimostrazione spontanea di riconoscenza a prassi tanto consolidata da sembrare una legge non scritta: il divieto di festeggiare insieme ai nuovi compagni e tifosi, per una strana forma di reverenza nei confronti dei precedenti. Pena la nomea di “infame”, “traditore” o “ingrato”, o almeno questo pare scorrere nella testa di tutti quegli attaccanti che ci restituiscono espressioni e mimiche dispiaciute per il semplice motivo di star facendo – forse troppo – bene, nel giorno sbagliato (?), il lavoro per cui sono pagati.
Ed è così che nelle gol collection di tantissime giornate di Serie A ci troviamo davanti a scene del genere, e salvo qualche raro caso ci interroghiamo sul perché di questi siparietti. Che hanno del paradossale: stadi interi in festa, speaker e tifosi che acclamano il nome del marcatore, i compagni che celebrano il momento intorno a lui, e al centro di tutto il protagonista del momento, intrappolato in un deprimente rituale. Anche nella forma, peraltro, non c’è spazio per la fantasia, come se andasse osservato un codice protocollare. Prima di tutto: volto serio, sguardo basso, vietato sorridere o gesticolare in qualsiasi modo che non sia con le mani aperte, chiedendo perdono. E poi una generale, mesta sobrietà: meglio camminare che correre, abbracciarsi senza troppo entusiasmo, tornare nella propria metà campo a testa bassa.
Ma quando ha avuto inizio tutto ciò? Secondo diversi media britannici, il capostipite sarebbe Denis Law, icona della “Premier League dei vostri padri”, che nel 1974 segnò un celebre gol contro il “suo” Manchester United, di cui aveva vestito la maglia oltre 300 volte. Law racconta che il gesto lo tormenti ancora oggi, dato che quella rete pareva condannare i Red Devils alla retrocessione. Di sicuro lo colse impreparato, sul momento: con un gesto senza precedenti, l’attaccante scozzese decise di non esultare, chiedendo platealmente scusa al pubblico, con il capo chino. Da allora, il manuale d’uso del buon ex ha continuato a modellarsi in una direzione precisa: scusarsi è obbligatorio, esultare è quasi un peccato.
Episodi recenti
Se state leggendo questo pezzo probabilmente avrete già ampia familiarità con tutto ciò, ma prima di procedere con qualche altra considerazione, diamo una rinfrescata ad alcuni esempi recenti nel campionato italiano. Poche settimane fa abbiamo visto Yacine Adli segnare il suo primo gol all’Artemio Franchi, a seguito di una bella azione personale e in una partita di alta classifica per la sua Fiorentina. Una di quelle situazioni in cui lasciarsi andare alla gioia più primitiva, in cui correre sotto la Fiesole “à la Tardelli” e godersi il primo regalo al pubblico viola – se non fosse che l’avversario era il Milan, club in cui il francese ha giocato le ultime due stagioni (30 presenze) e a cui è rimasto molto legato. Abbastanza per rimandare la prima esultanza con la nuova maglia. In modo analogo, Mateo Retegui si è negato anche la più impercettibile esternazione di gioia dopo i tre gol rifilati al “suo” Genoa, con cui ha giocato una stagione, in un giorno in cui la prima tripletta segnata per l’Atalanta stava certificando una volta per tutte la sua iscrizione alla lista dei migliori nove della Serie A.
Nei percorsi personali e professionali di Adli e Retegui, almeno, tali passaggi hanno rappresentato dei significativi punti di svolta – cosa che non si può dire del trascorso a Marassi di Roberto Piccoli. L’attaccante ventitreenne ha rappresentato il Grifone nel 2022, con la bellezza di cinque presenze e zero reti all’attivo, vestendo nei ventiquattro mesi successivi le maglie di Verona, Empoli, Lecce e Cagliari. Un girovago insomma, ma anche in questo caso è stato abbastanza, comunque, per non godersi gli attimi successivi al rigore del 2-2 segnato in extremis a Marassi.
Sembrano scuse, o almeno tendono a questo, ma spesso – al di là dei casi specifici – appaiono come un rituale vuoto e forzato. Si può dire senza troppi giri di parole: ormai siamo tutti nauseati dalle non-esultanze, un po’ come quelle ricorrenze e consuetudini tanto codificate da aver perso ogni spontaneità e ricercatezza, e forse anche una ragione di esistere. Ad esempio, la formalità delle e-mail e le cene di San Valentino, oppure – restando in ambito sportivo – le scuse per un nastro fortunato nel tennis, o per una tripla di tabella nel basket.
La non-esultanza di Adli
Tra sentimento e dovere
Certo, ci sono storie in cui il gesto è sembrato autentico. Una su tutti, quella di Gabriel Omar Batistuta. Dopo il trasferimento dalla Fiorentina alla Roma, nel novembre 2000 segnò una delle sue solite reti spettacolari, dalla lunga distanza, proprio nella porta della Viola che per una vita – nove stagioni – era stata casa sua. Batigol restò immobile, sguardo fisso al centrocampo, trattenendo le lacrime. “Ho passato nove anni a Firenze, ho avuto tre figli lì. È qualcosa che non si può cancellare”, dichiarò in seguito. La sua sofferenza sembrava reale, tanto quanto il rispetto per un popolo che non ha mai smesso di trattarlo come un figlio.
Per ogni gesto autentico, però, quanti sono quelli che sembrano solo un atto dovuto? Oggi ci si sente “ex” per molto meno. Non servono dieci anni o duecento gol: talvolta basta qualche presenza – nei casi più estremi, pure nelle giovanili – per spargere il germe del senso di colpa. Il peso delle aspettative di media e tifosi porta molti calciatori a scusarsi anche quando non ne sentirebbero davvero il bisogno, come ha raccontato qualche anno fa Robin van Persie. Nel 2012 l’attaccante olandese decise di chiedere scusa ai tifosi dell’Arsenal per il gol segnato ai loro danni dopo il passaggio al Manchester United. Lo fece una volta sola, però: la stagione successiva, dopo un’altra rete ai Gunners, si lasciò andare a un’esultanza liberatoria, quasi a sottolineare che un’unica dose di rispetto bastasse e avanzasse.
Se proprio si vuole introdurre il concetto di rispetto, tra l’altro, una domanda sorge quasi spontanea: chi lo merita davvero, in questi casi? Gli ex tifosi o la squadra attuale? O, più semplicemente, se stessi? L’assenza di esultanza viene spesso interpretata come un segnale di attaccamento al passato, ma si potrebbe applicare il ragionamento anche in direzione inversa. Come sa bene Diego Perotti, ad esempio, che non si fece troppi problemi nel 2017, quando segnò contro il Genoa all’ultimo minuto, regalando alla Roma l’accesso diretto ai gironi di Champions League. In un’occasione così importante, chiedere scusa sarebbe probabilmente apparso fuori luogo, e per qualcuno anche fastidioso, se non irrispettoso.
Con tutto ciò non si vuole negare che un gol possa essere accompagnato da emozioni contrastanti, ma della pretesa che il calciatore non festeggi e del codice a cui ha dato luogo. Un dovere cavalleresco, per così dire, che il pubblico ha iniziato piano piano, inconsapevolmente, a pretendere; e che i calciatori, di riflesso, hanno sempre di più l’abitudine a compiacere. Che si tratti di una scelta spontanea e sentita, oppure di una maschera che funge semplicemente da riparo di fronte a possibili critiche e polemiche.
Importante il gol ma anche il sentimento: Batistuta decide un cruciale Roma-Fiorentina ma non trattiene le lacrime
Fuori script
Non mancano, per chiudere con leggerezza questa rassegna, i casi più particolari di non-esultanze contro ex squadre. Ad esempio Frank Lampard, una delle icone del Chelsea, quando nel 2014 segnò un gol al suo vecchio club con la maglia del Manchester City. Il centrocampista inglese era ormai a fine carriera, destinato a chiudere la sua avventura a New York, ma il destino volle che prima di attraversare l’Oceano si ritrovasse di fronte i Blues, nella manciata di mesi in cui, durante l’offseason della MLS, venne mandato in prestito ai Citizens. In quella strana domenica Lampard entrò dalla panchina, con la sua squadra sotto 0-1, e siglò il pareggio dopo una manciata di minuti: l’esultanza non ci fu, Frankie sembrava realmente incredulo, quasi scioccato per l’accaduto.
Poi ci sono le storie di vita, che talvolta si intrecciano a quelle calcistiche. Erling Haaland, ad esempio, dopo un gol segnato al Leeds ha deciso di non festeggiare, motivando la scelta con un rispetto del tutto personale: suo padre aveva giocato per il club e lui stesso è nato in quella città, meglio chiedere scusa. Oppure Breel Embolo, che ai Mondiali del 2022 ha segnato per la Svizzera contro il Camerun, suo Paese d’origine. E ha scelto di non esultare, diventando un caso unico – per ovvi motivi – nel contesto delle nazionali.
Infine c’è Chris Maguire, un flashback perfetto per chiudere con una risata. Dopo aver lasciato il Sunderland nel 2021, lo scozzese è tornato da avversario con la maglia del Lincoln City, servendo una vendetta neanche troppo fredda, e particolarmente spietata. Tripletta, scuse ai tifosi – nessun astio nei loro confronti, ci teneva a chiarirlo – e dedica speciale al suo ex allenatore, Lee Johnson, che l’estate precedente lo aveva accompagnato all’uscio. Quel giorno, Maguire ha scritto un nuovo capitolo delle non-esultanze, unendo lo spargimento di ceneri sul capo per il dolore inflitto agli ex tifosi, ai sassolini tolti dalla scarpa nei confronti della dirigenza e dello staff tecnico. “Era qualcosa di personale”, ha spiegato in seguito, raccontando di aver anticipato ad amici e parenti che quella sera “aveva pronto qualcosa”.
Si potrebbe prendere esempio proprio da quest’ultimo caso, il più “fuori script” di tutti, che ci ricorda come si possano provare sentimenti contrastanti dopo aver segnato un gol alla propria ex squadra. In lui c’era anche una buona quantità di rancore, che in tanti altri casi è sfociata in esultanze polemiche e asti senza fine. Ma anche senza questo elemento, ci piacerebbe vedere più mix di dispiacere e gioia, e soprattutto più spontaneità. Ci si potrebbe mettere d’accordo così: un gesto di scusa alla panchina o alla curva avversaria, e poi liberi tutti. Salvo casi particolari, in cui il gesto può nascere spontaneamente, questo è un appello per l’intero mondo del calcio: lasciamo esultare questi ragazzi, non mettiamo loro pressione se vogliono godersi un bel momento insieme a chi hanno intorno, aiutiamoli a dimenticarsi di questa assurda usanza. Prendiamo tutto un po’ meno sul serio, insomma.
Chris Maguire, ovvero quando gioia, rivalsa e rispetto si fondono
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