La figura di Fred Perry, al secolo Frederick John Perry, ci appare oggi impolverata, temprata dallo scorrere degli anni ma al tempo stesso contornata da quella patina dorata che avvolge solo i più grandi, a discapito delle distanze temporali. Un’esistenza, la sua, dettata da quel sentimento di rivincita sociale inculcatagli dai suoi due padri, Samuel da una parte ed il secolo in cui è vissuto dall’altra.
Samuel, il padre biologico, era un operaio tessile della grigia Stockport, cittadina industriale nei dintorni di Manchester. Politicamente attivo tra le file del Partito Laburista britannico, instillò al figlio una forte etica del lavoro e della disciplina, al punto di arrivare spesso allo scontro verbale con lo stesso. Il secondo padre, invece, è stato il Novecento, l’epoca delle grandi guerre, dei grandi accordi, delle grandi rivoluzioni moderne e dei grandi colpi di stato: ineluttabilmente, la sua epoca. Fred racconta di esser stato folgorato sulla propria via di Damasco quella volta che, a soli sette anni, si imbatté casualmente nel Devonshire Park, uno dei circoli tennistici più esclusivi d’Inghilterra.
L’austera solennità del complesso architettonico a fare da cornice a un doppio senza troppo impegno tra alcuni borghesi della zona in rigorosa tenuta bianca: tutto apparve magnificente agli occhi del piccolo Fred. Ma, come si sa, non vi è disciplina sportiva più elitaria del tennis: se oggi tale etichetta va pian piano scemando, nel Regno di Sua Maestà dei primi del Novecento i dritti e i rovesci erano un’esclusiva patrizia. Come piccolo premio di consolazione per i ceti meno abbienti c’era il tennistavolo, maggiormente accessibile al vulgo comune ma comunque diffuso anche nei piani alti della società, dove veniva inteso come la versione indoor dello sport principale. Motivi per cui un figlio della working class come Fred dovette ben presto accontentarsi di impugnare la racchetta più piccola negli anni della sua adolescenza.
Gli anni Venti segnarono tuttavia un punto di svolta nella storia del tennistavolo: nel 1926 venne fondata a Londra l’International Table Tennis Federation e l’anno successivo prese il via il primo Campionato del Mondo nella capitale inglese. Tra i pionieri del nuovo movimento spiccava Ivor Montagu. Su Wikipedia, all’interno della pagina a lui dedicata, risalta all’occhio la sua decennale attività nel mondo del cinema che lo porterà a collaborare, tra gli altri, anche con un giovane Albert Hitchcock in rampa di lancio e con il Ministero dell’Informazione britannico durante la Seconda guerra mondiale. Ma Montagu è stato anche e soprattutto un grande uomo di sport, calcisticamente impegnato in una relazione a lungo termine con i Saints biancorossi del Southampton e grande appassionato di cricket. Ed è a lui che si deve la crescita esponenziale del tennistavolo nel Regno Unito e la creazione, oltre che dell’ITTF, anche dell’English National table tennis team, di cui divenne coach e selezionatore per le spedizioni in patria e all’estero. Manco a dirlo, fu proprio lui a scovare Perry durante una partita di tennistavolo: la sua mano decisa e geometrica ed i suoi effetti con la palla lo convinsero ad includere quello sconosciuto appena diciottenne ad unirsi al team nel Campionato del Mondo. Nel 1929, ad appena vent’anni, Fred Perry si laureò campione del mondo di tennistavolo.
A seguito del trionfo ecco però il fulmine a ciel sereno: l’annuncio di un clamoroso ritiro per potersi concentrare su altro. E la leggenda vuole che i nuovi piani fossero stati rivelati dall’atleta a suo padre Samuel subito dopo la vittoria del Campionato del Mondo: riuscire a vincere la Coppa Davis di tennis entro qualche anno. Non era totalmente un volo di Icaro. Molte basi posturali e locomotive le aveva assimilate durante la precedente esperienza. E poi c’era ancora quel sogno nel cassetto di quando era bambino e si era ritrovato davanti al Devonshire Park. A maggior ragione in un’epoca sportiva non certo sfavillante per la sua patria: vuoi mettere battere quegli spocchiosi francesi a Wimbledon o al Roland Garros? Un sogno. Inoltre, il suo nuovo status di atleta ben noto anche al di là della Manica ne avrebbe accelerato il processo di integrazione e crescita nel nuovo mondo.
Si arrivò così al fatidico 1933, l’anno delle sliding doors per Fred Perry e per tutto il movimento tennistico britannico. Il Regno Unito riuscì a strappare il pass per la finale della Coppa Davis, dove però avrebbe affrontato i padroni di casa, forti di un dominio quasi incontrastato negli anni precedenti. La terra battuta parigina sorrise però ai servi di Sua Maestà, che grazie a un fenomenale Perry riuscirono a rimontare l’iniziale svantaggio e a trionfare con un 3-2. Una vittoria che vale doppio: spesso si abusa di tale espressione ma in questo specifico caso sembra calzare a pennello, per tutta una serie di fattori. Anzitutto, l’interruzione della tirannia francese in Coppa Davis, che aveva portato Les Quatre Mousquetaires di René Lacoste e soci a primeggiare durante i sei anni antecedenti. E poi ci sarebbe tutta quella numerologia, quel cerchio magico che va a chiudersi, dando vita ad una nuova epoca dello sport britannico: dalla promessa fatta da Fred al padre fino al fatto che dalle sue parti una Coppa Davis non si vedeva, guarda un po’ dal 1909, anno della sua nascita. Forse era veramente tutto scritto nelle stelle. Ed il successivo triennio non fece altro che confermare tali impressioni: cambiavano gli avversari in finale, ma non la sostanza. Il Regno Unito vinse anche l’edizioni del 1934, del 1935 e del 1936, nei primi due casi contro i cugini d’oltreoceano e nel terzo contro gli australiani.
Tutte e tre le manifestazioni si svolsero sul suolo sacro di Wimbledon e le gesta dell’appena ventisettenne di Stockport furono coadiuvate sapientemente da Bunny Austin e Pat Hughes, altri due giganti della storia di questo sport. Austin, benché a livello individuale perse due volte la finale di Wimbledon ed una volta quella del Roland Garros, è rimasto fino al 2012 l’ultimo britannico ad aver raggiunto la finale del singolare maschile a Wimbledon e nel 1997 è stato inserito nell’International Tennis Hall of Fame. Anche Hughes ebbe maggior fortuna nei doppi, riuscendo a primeggiare in questa specialità all’Open di Francia del 1933, agli Australian Open del 1934 e a Wimbledon nel 1936. Di contro, Perry impose la propria supremazia anche nei singolari, incenerendo ogni traccia di possibile concorrenza tra il 1933 e il 1936: vinse 8 finali Slam su 10, aggiudicandosi tre volte Wimbledon e US Open, oltre a un Australian Open e un Roland Garros. Nel 1935, a soli ventisei anni, divenne il primo tennista della storia a completare il Career Grand Slam, essendosi aggiudicato almeno una volta tutti e quattro i principali tornei internazionali.
Ma la vera rivoluzione sportiva dettata da Perry è senza dubbio legata allo stile di gioco da lui presentato al mondo in quel periodo: una continua ricerca di dominio, di imposizione della propria ferocia agonistica e tecnica a discapito di colui che stava dall’altra parte della rete, chiunque egli fosse e qualsiasi fosse il suo curriculum. Ai giorni nostri tali aspetti possono sembrare quasi banali se rapportati alla filosofia dei grandi giocatori odierni votati al controllo tecnico, fisico e mentale del match, ma quasi un secolo fa questo pensiero non attecchiva particolarmente in un ambiente che, come accennato precedentemente, quasi derubricava questo sport a semplice hobby per i ceti benestanti. Si può dire che con l’avvento di Perry tali concezioni vengono rovesciate e per un working class hero come lui la cura dei dettagli e la preparazione psico-motoria alle gare diventa una questione di assoluta rilevanza.
Sul web è facilmente rintracciabile una fotografia dell’epoca che ritrae quattro uomini intenti a svolgere un esercizio tipico dello stretching, ovvero il sollevare le ginocchia quasi fino all’altezza del petto. Tre dei quattro soggetti immortalati vestono uguale: maglione non esattamente adatto alle stagioni calde fatto in lana (o qualche materiale assimilabile) e lungo calzone scuro a coprire metà gamba. L’altro personaggio è invece rivestito da un maglione scuro e decisamente più skinny rispetto ai sopracitati, alla sommità del quale sbuca un colletto bianco, in purissimo stile british. I suoi pantaloni sono invece ben più lunghi rispetto ai calzoncini degli altri tre, il che è testimoniato anche dal fatto che le calze sollevate sopra il pantalone quasi fino alle ginocchia non possono comunque evitare dei rotoli di tessuto in eccesso tipici di una probabile “zampa di elefante”. Quest’ultimo personaggio, lo avrete capito, è Fred Perry, ma ciò che è davvero rilevante è sapere che coloro che gli stanno attorno sono dei calciatori dell’Arsenal e che lo scatto è stato realizzato nel leggendario Highbury. Qui Perry spesso frequentava le sessioni di allenamento dei colleghi pedestri, in modo da poter affinare le proprie capacità fisiche attraverso il confronto con uno sport se non totalmente quantomeno largamente differente dal suo in termini di movimenti e di muscoli sollecitati durante le gare.
Un raro filmato di Fred Perry sul sacro suolo di Wimbledon
Nonostante la notorietà conquistata in pochi anni e la prospettiva di un avvenire ancora ricco di soddisfazioni, l’ascesa di Perry non fu mai vista di buon occhio dai piani alti del tennis britannico. Lo spirito indomito e a tratti ribelle del ragazzo, la sua provenienza da una realtà umile e periferica come poteva essere una famiglia di Stockport nei primi del Novecento ed i contrasti sugli effettivi premi da corrispondergli a seguito delle vittorie a Wimbledon furono le principali motivazioni che indussero la Lawn Tennis Association a proibirgli di prender parte alle edizioni di Wimbledon successive a quella del 1936. Gli attriti tra le parti andavano avanti ormai da tempo, ma questa fu la vera ferita insanabile che squarciò definitivamente il rapporto. Colpito nell’orgoglio, Perry decise dunque di sorvolare l’Atlantico per trovare una nuova casa a Los Angeles, dove acquistò, divenendone proprietario, il Beverly Hills Tennis Club. Qui ebbe modo di conoscere il mondo americano, acquisendo la cittadinanza e arrivando ad essere scelto come preparatore atletico delle truppe statunitensi durante il secondo conflitto mondiale. Tra le sue nuove conoscenze di maggior rilievo spiccano Charlie Chaplin e Groucho Marx, con i quali si sfidò in più di un’occasione in dei doppi inediti completati da Ellsworth Vines.
E così, dopo una carriera stellare nei più grandi circuiti mondiali di tennis e un titolo di Campione del Mondo di tennistavolo, Perry ebbe nuovamente occasione di reinventarsi durante la sua permanenza californiana. Qui entrò in contatto con tale Tibby Wegner, un ex calciatore austriaco che collaborò al concepimento della corona d’alloro più conosciuta al mondo. Secondo la leggenda, l’idea iniziale di Perry era quella di utilizzare la pipa come logo per il nuovo marchio, ma Wegner riuscì a fargli cambiare idea puntando sul fatto che una corona di alloro, al contempo semplice ma di indubbia eleganza, avrebbe attecchito maggiormente nel mondo del commercio. Oggi, a distanza di tempo, possiamo dire che in quel lontano 1952 non ci aveva visto affatto male. Oltre che nel mondo sportivo e tennistico nello specifico, il neonato marchio Fred Perry ha avuto grande successo anche tra i più giovani, arrivando ad essere un vero e proprio segno distintivo e di appartenenza a certe frange sociali.
È il caso dei Mods, il movimento giovanile che prese piede a Londra tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e che per un lungo periodo rappresentò il manifesto estetico e morale di milioni di ragazzi in tutto il mondo. Il loro abbigliamento era caratterizzato, oltre che dall’iconica polo Fred Perry, da uno stile all’avanguardia, fatto di giacconi parka spesso verdi e di stivaletti Dr. Martens. Il movimento dei Mods ha attraversato varie fasi, dagli allucinogeni anni Sessanta fino alla sua riscoperta alla fine del millennio, talvolta arrivando a delle scissioni interne che confluirono, ad esempio, nella nascita dei primi Skinheads, anch’essi contraddistinti dai capi addosso griffati da Perry.
Il grande successo avuto dal nuovo brand fece tornare l’ex tennista sotto i riflettori e, data la grande diffusione della linea di abbigliamento in Inghilterra, riuscì a ricucire parzialmente il proprio rapporto con la madre patria. Nel 1978 fu invitato a Wimbledon, nella sua Wimbledon, per premiare il vincitore Björn Borg, altra istituzione del tennis internazionale. L’opinione pubblica inglese, anche grazie al ricambio generazionale occorso tra i suoi ultimi slam ed il ritorno in tarda età nel Regno Unito, ha avuto modo di rivalutare completamente la sua figura, ribaltando il punto di vista legato alla sua ascesa da ragazzo di famiglia operaia tramutatosi in campione pluridecorato del tennis e dello sport. Tanto che, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, la federazione inglese ha voluto estinguere il debito metaforico nei suoi confronti facendo realizzare una statua in suo onore a Wimbledon. Di Frederick oggi resta lo spirito e un profondo lascito morale: nell’epoca del tennis giocato con le racchette in legno e i pantaloni bianchi lunghi fino al collo del piede, Perry è stato in grado di fornire una nuova chiave concettuale di uno sport classista e dalla carica agonistica fin troppo soppressa. La sua sete di rivincita verso un mondo fatto di sguardi torvi e di discriminazioni sociali lo ha condotto fino al Valhalla, nel regno dei più grandi. E peccato che col rivale transalpino Lacoste non abbia potuto dar via ad un duello sportivo capace di durare nel tempo, visto che la Francia chiuse il suo ciclo vincente nel 1933 lasciando poi campo libero a Gran Bretagna e USA.
Seppur a distanza e con altre modalità, il loro antagonismo si è poi trasferito al mercato globale, dove i loro rispettivi marchi giganteggiano nel mondo dell’abbigliamento tennistico, sportivo e non solo. Ma forse va bene così, va bene che restino incastonati per sempre nei loro anni come manifesto di uno sport in cambiamento: Lacoste a tiranneggiare sulla fine degli anni Venti, Perry a imperare sulla prima metà del decennio successivo. A conferma della natura opposta a quella del collega, René proveniva da una famiglia borghese parigina, in cui il piccolo crebbe in un ambiente fortemente legato all’istruzione e alla cultura. E sebbene oggi i loro nominativi siano più facilmente riconducibili all’attività imprenditoriale, sarebbe veramente abominevole far finire nel dimenticatoio due ragazzi che, con le dovute proporzioni e con la difficoltà di esprimere un parallelismo oggettivo, potrebbero essere quasi considerati dei Nadal, dei Federer o dei Djokovic ante litteram.
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