Si fa presto a dire che gli eroi son tutti giovani e belli. Passi per il giovane, condizione tanto inevitabile quanto fugace per ognuno, e tendenzialmente necessaria se il tuo compito è quello di correre per novanta e passa minuti dietro a un pallone su un campo d’erba scansando piedi a martello e ginocchia ad altezza fegato. Ma per quanto riguarda la bellezza, beh, quella è una qualità che, a prescindere da un qualche statisticamente irrilevante David Beckham, si acquisisce esclusivamente con l’indefesso rispetto per una maglia e la sua gente, con irripetibili gesta che creano pietre miliari lungo la centenaria strada percorsa da un club, con quel pur effimero orgoglio identitario che solo le prodezze locali ammantate di magia e illusionismo sanno creare.
E a quel punto, la bellezza è diventata qualcos’altro, che poco o niente ha a che vedere con le fattezze puramente fisiche, l’ equilibrio tra i lineamenti del viso, il taglio degli occhi. La bellezza a quel punto diventa solo ed esclusivamente la storia che hai creato e i sogni che hai regalato. Matthew Le Tissier è esattamente quello che sembra: un pennellone britannico dal taglio di capelli chiamiamolo pratico, denti tragicamente storti, uno sguardo placido montato su un naso quantomeno grossolano. Per chi non ne conoscesse la storia, potrebbe venir confuso come un interprete di successo di una qualsiasi pellicola di Ken Loach sulle insuperabili difficoltà della classe operaia british nella moderna economia di mercato.
Le God, eroe di Southampton
Invece dalle parti di Southampton, città costiera del sud del Regno Unito ben più famosa come snodo strategico del traffico marittimo per il suo porto che dà sul Canale della Manica che come sede di una storica società di calcio, il nome Matthew Le Tissier è buono solo per qualche rigido e tignoso burocrate dell’anagrafe. Per tutti gli altri, lui è semplicemente Le God. Qualcosa di più di un altisonante soprannome celebrativo, come tanti ce ne sono stati e ce ne saranno nel mondo del calcio. Per la gente di calcio di Southampton, l’appellativo Le God è più vicino alla dimensione del battesimo pagano, del riconoscimento della venuta di un profeta pallonaro, della pura venerazione sportiva. Un’idolatria ben diversa da quella cui, per ragioni simili eppur diverse, ha goduto il succitato David Beckham. Perché il Teatro dei Sogni in cui lui e compagni si esibivano era di fatto il pantheon di una religione politeista: David Beckham, Ryan Giggs, Roy Keane, Paul Scholes, i Calypso Boys e, pur se per poco, Eric Cantona. Una sfilata di giocatori diversi ma ugualmente fenomenali, quasi un’intera squadra di meravigliosi interpreti su cui proiettare le proprie speranze e i propri sogni: un onere e un onore più o meno equamente suddiviso tra talenti eccezionali.
Ma non a Southampton. A Southampton, la società non può minimamente competere con le corazzate della Premier League e le spalle capaci di reggere le aspettative di un’intera comunità sono solo due. Quelle di colui che, nel 1986, giunge diciassettenne nella città portuale con buone credenziali e poco più. Due anni prima, un provino all’Oxford United si è risolto in un nulla di fatto. Il Southampton è in First Division e la formazione calcistica del nostro è ridotta all’esperienze nell’isola natale di Guernsey, isola indipendente dell’arcipelago del Canale ma legata a doppio filo alla Corona Britannica e abitata principalmente da discendenti delle popolazioni franco-normanne.
Matthew è un centrocampista offensivo, un fantasista si diceva una volta, alla cui discreta fisicità tutta british fa da contraltare una tecnica e un gusto per la giocata che, già a diciassette anni, lo pongono almeno uno scalino sopra i compagni. La sua prima stagione si conclude con 6 gol in 24 presenze e qualche scintilla di quello che sarà uno spettacolo pirotecnico lungo una carriera: una doppietta al Manchester United in League Cup, che di fatto costerà la panchina al mancuniano “Big” Ron Atkinson e la tripletta rifilata al Leicester il 7 marzo 1987 in campionato. Le due stagioni successive sono di ulteriore ambientamento: Le Tissier e il Southampton crescono assieme, tanto che nella stagione 1989-90 lui diventa il capocannoniere della squadra e vince il premio come miglior promessa del calcio inglese, la squadra ottiene il settimo posto in classifica, miglior risultato degli ultimi anni, e fa esordire in prima squadra un certo Alan Shearer.
L’accoppiata è ormai chiaramente un razzo pronto al decollo e nella stagione 1992-93 il Southampton è una delle società fondatrici della nuova Premier League. La differenza tecnica tra i due campionati è abissale e per il Southampton si configura quella che sarà la sua condizione per i successivi due lustri: una squadra composta da dieci onesti mestieranti e un talento purissimo che sistematicamente la acchiapperà per i capelli per mettersela al sicuro in spalla, sotto cui campeggia il suo numero 7, sempre lontana ma non troppo da quegli ultimi tre posti in classifica che significano retrocessione. Qualcosa di molto simile a un salvatore, con buona pace di un certo, inevitabile puzzo di blasfemia.
Le Tissier, meraviglia non contemporanea
Le Tissier è l’archetipo del campione che non esiste più, di quelli cui la stoffa donata da cielo permetteva di non essere atleti ultra-performanti, corridori di maratone, centometristi sotto i dieci secondi. Il rapporto simbiotico tra i suoi piedi e il pallone era tutto quanto fosse sufficiente e necessario. Un marziano con fattezze british, uno spirito brasiliano del calcio infiltratosi nella comunità franco-normanna in tempi remoti. Di quelli che saltano sempre l’uomo, disegnano traiettorie che sembrano arcobaleni e per cui vale sempre spendere il prezzo del biglietto.
A quel punto Le Tissier, ad un passo dall’evoluzione in divinità, ha una missione e non la tradisce mai. Professione trequartista, segna valanghe di gol (25 nella stagione 1993-94), alcuni meravigliosi, come la palombella da 40 metri che il 10 dicembre 1990 beffa l’amico Tim Flowers in un Southampton-Blackburn. Gol dell’anno per la BBC. Le God diventa il primo centrocampista della Premier a raggiungere quota 100 gol e la fila davanti agli uffici della società si fa sempre più fitta. Le offerte che arrivano per lui dalle principali società inglesi sono fuori mercato – il Chelsea è disposto a polverizzare ogni record di mercato mettendo sul piatto 10 milioni di sterline – ma Le God sta bene dov’è.
Un vero profeta non cambia parrocchia. E nemmeno si presta a istanze diverse, a ben guardare: la sua esperienza con la Nazionale di calcio inglese è frammentaria e avara di soddisfazioni, ma fa lo stesso. La sua chiesa è una sola e si trova in riva alla Manica. Amato e rispettato in modo trasversale, trova il modo di lasciare il segno anche in uno dei suoi, rari, errori: il 24 marzo 1993 Le God sbaglia l’unico rigore della sua carriera, dopo un’incredibile striscia di 47 realizzazioni. “È stata la parata più bella della mia carriera” dirà Mark Foster, il portiere del Nottingham Forest, capace di opporsi a quello che ormai sembrava un rito sovrannaturale.
Stagione dopo stagione, una salvezza dietro l’altra, all’alba del nuovo millennio Le God avrà anche il doveroso onore di inaugurare il nuovo stadio St Mary. La sua carriera è ormai agli sgoccioli, la missione compiuta. Senza di lui, che dopo quella maglia non vestirà alcuna altra casacca di società professionistica, il Southampton comincerà a rimbalzare senza soluzione di continuità tra Premier e Championship. Come molti dei colleghi, dopo il ritiro Le Tissier si dedicherà al ruolo di agente e di commentatore sportivo. Tutte attività decisamente troppo terrene e convenzionali. Noi preferiamo di gran lunga cristallizzare la sua figura nella scritta che campeggiava sul The Dell, lo stadio precedente al St Mary, ad accogliere ed ammonire amici e rivali su ciò a cui sarebbero andati incontro una volta varcata la soglia:
Benvenuti nella casa di Dio.
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