Non c’è niente da fare, almeno per quanto mi riguarda. La prole artistica concepita durante la prima metà degli anni ’70 ha veramente la celeberrima “marcia in più” rispetto ai figli di altre epoche. Sarà il background sociale strafottente e lucidamente ribelle di quegli anni, sarà che la generazione di ultraventenni all’inizio di quel decennio era nata al termine della guerra o subito dopo e scalpitava nel voler plasmare un mondo nuovo, sarà destino, sarà il caso, “sarà quel che sarà” come avrebbero poi cantato nel ’71 alcuni figli di questa golden era. The Dark Side of the Moon, Led Zeppelin IV, Arancia Meccanica, Il Padrino, Il Padrino II e chi più ne ha più ne metta: cosa chiedere di più? Ma dato che da buoni italiani la quotidianità del 90% di noi è subordinata al Dio del calcio, è doveroso citare uno dei primogeniti meglio venuti su da quell’epoca, un bambino con le caviglie deformi e i piedi piatti, un uomo dal lungo ciuffo castano, dal viso tipicamente glabro e dalla consueta sigaretta pendente da un angolo della bocca: Johan Cruijff.
Johan Cruijff e Rinus Michels, la forza del gruppo
Già, Johan. Ricordo ancora l’epifania avuta ormai una decina di anni fa quando, durante un Federico Buffa racconta, lo elevai, più o meno consciamente, a mia guida spirituale nel mondo del pallone e non solo. Come poteva esistere uno stregone del genere, capace di rovesciare certe concezioni cementate da anni e anni? Per di più bissando la propria rivoluzione anche quando erano spuntati i primi capelli bianchi in testa e quando fumare una sigaretta in meno alla sera non era più un esercizio di auto convincimento ma un’imposizione da parte del proprio organismo. L’uomo che fece la rivoluzione con i piedi e con la testa, Pitagora con le scarpe da calcio, Il Profeta del Gol. Del fuoriclasse oranje sono state date dozzine e dozzine di definizioni, ma alcune di esse (non è assolutamente il caso di quelle sopracitate, anzi) appaiono quasi ingiuste verso la sua figura, risultando pericolosamente vicine al concetto di etichetta: Johan è stato Johan nella sua totalità, e ciò basta. E vani sono i tentativi di incasellamento in qualsivoglia classifica del vero GOAT del pallone tipica dei nuovi cenacoli culturali di YouTube e Twitch.
D’altronde, come sarebbe possibile pesare l’effettivo impatto tecnico ed ideologico avuto da Cruijff da giocatore prima e da allenatore e dirigente poi? Ciò che però può essere immediatamente colto dell’essenza dell’Amsterdammer in maglia 14 è la sua concezione lucida e visionaria di questo sport, tratteggiata nella sua autobiografia più celebre, La mia rivoluzione. Dalle pagine del libro trapela fortemente il concetto di unità di gruppo squadra in relazione a un unico, grande interesse comune: l’armonia tecnica e tattica dell’undici in campo. L’Olanda della Coppa del Mondo del 1974 ne è l’ineluttabile paradigma: una squadra volubile e quanto mai fluida ma al tempo stesso coesa e fondata su un profondo meccanismo di movimenti, accelerazioni estemporanee e pause individuali architettati in maniera certosina dal boss ajacide e oranje dell’epoca, Rinus Michels.
Nonostante la spigolosità del carattere di entrambi, Cruijff ha sempre individuato in lui un padre sportivo e non, capace di tamponare l’assenza di Manus, morto prematuramente quando il piccolo Johan era appena un ragazzo. Trattasi tuttavia dello stesso Michels che una volta, per punire la sua stella, costrinse il numero 14 a presentarsi al campo d’allenamento alle 8 del mattino di un giorno libero per una sessione supplementare e che, una volta arrivato con la macchina al centro dell’Ajax, neanche scese dalla vettura e con ancora il pigiama addosso si congedò immediatamente da Johan con un sorriso sardonico, affermando che facesse troppo freddo per non stare sotto le coperte. Episodi che, come affermato dallo stesso Cruijff, hanno però contribuito a forgiare in lui una forte etica del lavoro e della disciplina. I due si ritrovarono anche al Barcellona nell’estate del 1973 e vinsero immediatamente il titolo spagnolo che, anche a causa dell’ingombrante ombra franchista di quegli anni, da quelle parti mancava, guarda un po’, da quattordici anni esatti.
Ajax e Barcellona, giovani rivoluzionari sulle orme del maestro
La totalità e la visionarietà delle squadre di Michels partivano dal singolo e dalla capacità di tutti i componenti dell’organico di contribuire alla causa con le proprie caratteristiche personali: basti pensare che il rigorista dell’Ajax e della nazionale non era Cruijff, bensì Johan Neeskens, la cui freddezza e balistica nel tiro dagli undici metri risultavano spesso decisive negli incontri clou. Jan Jongbloed, il buffo portiere del Mondiale del ’74 con l’8 sulle spalle e con una tabaccheria da gestire come prima fonte di reddito nella vita, arrivava a giocare la palla coi piedi tra i due centrali difensivi Arie Haan e Wim Rijsbergen, non tanto per una mera questione di spettacolo quanto per la sua utilità nella prima costruzione. Concetti, schemi, idee e movimenti che arrivavano alla definitiva sublimazione quando Cruijff prendeva palla tra i piedi e situazione in mano, dirigendo l’orchestra già nel rettangolo verde, come testimoniato dalle numerose foto presenti sul web dove sciorina indicazioni di posizionamento ai suoi compagni mentre conduce il pallone.
Un altro aspetto su cui Johan ha costruito il suo credo è l’incentivazione della tecnica di base del singolo e la sua rilevanza nel contesto squadra. In tal senso, un elemento da lui ritenuto fondamentale in questo passaggio di crescita è il calcio di strada, in cui lui è cresciuto e ha mosso i primi passi. In strada il bambino alle prime armi impara a sue spese che la caduta sull’asfalto o su altre superfici è nociva e che, per ovviare a ciò, è necessario affinare il proprio tocco sulla palla ed ingegnarsi per poter trovare soluzioni che facciano evitare i contrasti, come il tanto amato uno-due filtrante con il bordo del marciapiede. Oggi viene detto che Cruijff abbia di fatto “costruito” il Barcellona e l’Ajax moderni e probabilmente tale affermazione non è poi così distante dalla realtà dei fatti, anche se sarebbe più corretto parlare di creazione di un modo di essere e di comportarsi, dentro e fuori dal campo.
A Barcellona, forse ancor più che in patria, Johan è stato un figlio, un condottiero, un profeta. A lui si deve uno dei migliori settori giovanili, se non il migliore, a livello internazionale, la Masia. Originariamente questo era il nome di uno storico edificio di Barcellona, dove, tra l’altro, soggiornavano gli architetti che nel settembre del 1957 diedero vita al Camp Nou. Oggi tale costruzione è stata rinnovata ed ampliata ed è il centro nevralgico delle squadre giovanili blaugrana. Durante la sua militanza da tecnico del club catalano, l’olandese ha dedicato ancora maggior spazio alla crescita e alla salvaguardia della Masia, permettendo spesso ai più giovani di allenarsi nei campi adiacenti a quelli della prima squadra, facendo sì che la filosofia da lui profetizzata non si limitasse a una mera questione di schemi di gioco del Barcellona A, ma che andasse a impregnare anche tutti gli altri scalini della società e del club.
E proprio dalla Masia, Johan andò a pescare un giovane costruttore di gioco dalla tecnica sopraffina ma ritenuto troppo poco dinamico per il livello dei grandi e con le valigie pronte per andar via dalla Catalogna. Tuttavia, andando controcorrente rispetto alle intenzioni della società, il tecnico olandese decise di integrarlo nella prima squadra, prevedendo, a ragion veduta, il suo ruolo fondamentale da equilibratore e gestore davanti alla difesa: si tratta di Josep Guardiola detto Pep, uno che qualcosa avrebbe fatto negli anni a venire. Il suo dream team conquistò quattro titoli spagnoli ma soprattutto regalò ai culers la prima Coppa dei Campioni nella storia del club battendo di misura la Sampdoria grazie a una sassata dalla distanza del solito Ronald Koeman.
Ma ancor prima che un profeta in patria e visionario predicatore nelle sue esperienze in Catalogna e negli USA, Johan è stato un figlio del suo tempo, un Amsterdammer dallo spirito indomito e ribelle capace di chiamare Jordi il proprio primogenito, scegliendo per lui il nome del patrono di Barcellona in un’epoca in cui il potere centrale franchista mal vedeva, per usare un eufemismo, qualsivoglia cosa legata all’indipendentismo catalano e alla lotta alla sua dittatura. Lo stesso figlio e la stessa famiglia per cui, nel 1978, sacrificò la spedizione mondiale olandese in Argentina a seguito di alcune minacce personali ricevute nei mesi antecedenti all’evento. Oppure, ancora, lo stesso figlio che oggi, a distanza di anni, continua a gestire la sua storica fondazione, creata ad hoc dal padre come mezzo di inclusione per centinaia di giovani atleti e di persone affette da disabilità ed il cui statuto è basato su 14 regole formative di comportamento per i più giovani. Johan è stato un reazionario lucido e debordante al tempo stesso, capace di sventrare le tradizioni calcistiche della sua epoca e di rubare il fuoco agli dei dell’Olimpo per poterlo rendere accessibile a tutti i comuni mortali.
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