Maradona e l’Africa, un legame lungo una carriera

Maradona Africa - Puntero

In apertura dell’intervista che nel 2013 Diego Armando Maradona gli concede per la trasmissione Che tempo che fa, Fabio Fazio non può fare a meno di raccontare di quando, nel 1995, persosi da qualche parte in Kenya durante le riprese del film Pole Pole, si trovò a chiedere informazioni a un ragazzino vestito con una maglia del Napoli. Una maglia che, manco a dirlo, portava sul retro un grande numero 10 bianco. Alla domanda se tifasse Napoli il ragazzino avrebbe risposto di tifare Maradona, anche se lui Maradona non lo aveva mai visto giocare perché la televisione non ce l’aveva. La sua popolarità non sarà la stessa di Pelé, in fondo lui era un bianco e un conflitto armato non lo aveva mai fermato, ma Maradona era ed è sinonimo di calcio, anche in Africa.

Una vita smisurata, ricostruita e decostruita infinite volte ma che sa risultare avvincente da qualsiasi angolazione la si guardi. L’Africa è il punto di osservazione da cui oggi rileggiamo Maradona, consapevoli di come nulla che lo riguardi sia oramai inedito, ma curiosi di riscoprirne la traiettoria attraverso una nuova lente.

 

Colpo di fulmine: Costa d’Avorio 1981

Il primo impatto di Diego con il continente africano è forse anche il più profondo. All’inizio degli anni ‘80 la Costa d’Avorio è un paese relativamente prospero, polo di attrazione per milioni di lavoratori che dagli stati limitrofi cercano fortuna in quella un tempo nota come la perla dell’Africa Occidentale Francese. Il boom del cacao degli anni ’70 ha concentrato in Costa d’Avorio ingenti somme, sufficienti a convincere il Boca Juniors a volare al di là dell’Atlantico per giocare un torneo amichevole ad Abidjan.

È il 1981 e il Boca Juniors è alla disperata ricerca dei fondi che gli consentano di riscattare il prestito che l’Argentinos Juniors gli ha concesso nei confronti di quello che già da qualche anno è indicato come il futuro del calcio: Diego Armando Maradona, appunto. Il Boca si accorda per un compenso di 180.000 dollari – di cui 36.000 destinati al solo Maradona – per partecipare a un quadrangolare con tre squadre locali. Il 5 ottobre la squadra atterra nell’allora capitale della Costa d’Avorio e Diego è immediatamente investito dall’entusiasmo dei tifosi di casa che, sfidando la guardia armata degli agenti di polizia, prendono d’assalto la pista d’atterraggio scandendo il suo nome. Un’accoglienza che sul giovane Maradona lascia una profonda impressione:

Fu la più grande della mia vita. Tutti quei ne*retti che mi aspettavano all’aeroporto mi emozionarono davvero. Non immaginavo di essere tanto conosciuto.

Non ha ancora 21 anni ma la sua fama lo precede anche in quell’angolo di Africa, nella sala da pranzo dell’Hotel Ivoire, dove i giocatori del Boca vengono circondati da una ventina di ragazzi che vogliono vedere Maradona da vicino. Uno di questi lo chiama Pelusa, il soprannome con cui Diego è noto fin da bambino e che dalle vilas miserias che affollano la periferia di Buenos Aires ha attraversato l’oceano per finire sulla bocca di un ragazzo cresciuto in chissà quale quartiere di Abidjan.

Il debutto in campo arriva il giorno seguente, nello stadio intitolato all’allora presidente e padre della patria Félix Hophouët-Boigny ma che i suoi frequentatori abituali chiamano confidenzialmente Félicia. Seppur abituati alle atmosfere oltremodo colorite dei campi sudamericani, i calciatori argentini non possono rimanere indifferenti dinanzi a quell’ambientazione esotica. A bordo campo staziona un’orchestra diretta da un nano con cappello che saluta l’ingresso delle squadre e stende un allegro tappeto musicale a ogni rete segnata. Di fronte al Boca, che trascinato da Maradona ha appena riconquistato il titolo argentino dopo un digiuno di cinque anni, c’è lo Stade d’Abidjan, squadra nobile ma dalla bacheca impolverata che già da qualche tempo subisce lo strapotere dell’ASEC Mimosas. Le immagini disponibili sono poche e soprattutto di pessima qualità ma dalle poche inquadrature si intuisce come l’impianto sia lontano dall’essere gremito in tutti i suoi 40.000 posti. A garantire sul calore del pubblico di casa è però lo stesso Diez che, a proposito di quella sera, racconterà di come in certi punti la luce dei riflettori fosse oscurata dalla massa di persone arrampicatavisi sopra per assistere all’evento senza biglietto.

Le riprese lunari di Boca Juniors-Stade d’Abidjan

 

La partita è più combattuta del previsto ma per la gente di Abidjan qualunque risultato è bene accetto. Lo si sente dall’urlo con cui dopo soli sette minuti accoglie il vantaggio della squadra di casa, che con un affondo sulla destra sorprende la difesa degli xeneizes. Lo ribadisce quando, con lo stesso entusiasmo, saluta il pareggio del Boca ad opera del Pichi Escudero, il quale raddoppia a ridosso dell’intervallo. Il pareggio dei padroni di casa in apertura di secondo tempo regala una suspense inattesa che dura fino a un quarto d’ora dalla fine, quando Diego prende in mano la situazione avanzando da sinistra e lasciando di sasso un difensore, prima di battere il portiere in uscita. Quattro minuti dopo si ripete dal lato opposto, dove riceve un cross di Trobbiani e con il medesimo movimento della gamba sinistra controlla il pallone e sbilancia il suo marcatore, aprendosi un pertugio tra quest’ultimo e il portiere. La banda non fa in tempo a concludere la sua esecuzione che Escudero chiude definitivamente la partita sul 5-2. Un risultato che non turba più di tanto il pubblico, pagante e non, soddisfatto di avere potuto ammirare dal vivo il nuovo prodigio del calcio mondiale.

Due giorni dopo, sempre al Félicia, è la volta dell’ASEC Mimosas, vincitore dell’altra semifinale contro la Stella d’Adjamé. Qui le fonti sono ancora più scarse e tocca affidarsi a resoconti scritti e a qualche rara fotografia. Le cronache riferiscono di un incontro tutt’altro che amichevole, consumatosi sotto una pioggia torrenziale. Sotto 2-1 per gran parte dell’incontro, i giocatori del Boca cedono al nervosismo. Si racconta di un Oscar Ruggeri fuori controllo e un Maradona karateka, quando alza i tacchetti ben oltre la cintola di un avversario in un’anteprima della cosiddetta “Battaglia del Bernabeu” che tre anni più tardi avrebbe messo fine alla sua avventura al Barcellona. In un moto d’orgoglio gli xeneizes ribaltano il risultato nel finale aggiudicandosi l’elefante di legno intagliato destinato ai vincitori del torneo.

Intascata la borsa pattuita, l’indomani la squadra prende la strada dell’aeroporto, non prima però che un brivido corra lungo la schiena di giocatori e staff quando un malinteso circa il saldo di una fattura ritarda la partenza, facendo temere un prolungamento del soggiorno africano. Un soggiorno che non basta a cambiare il destino di Maradona – che scaduto il prestito è costretto a lasciare la sua squadra del cuore in direzione Barcellona – e nemmeno quello di Laurent Zahoui, capitano dello Stade d’Abidjan e difensore della Nazionale, che il Boca Juniors si convince a portare a Buenos Aires. Fiutato l’affare, pare che il club ivoriano avesse alzato troppo il tiro.

 

Quando l’Italia non fu razzista: Argentina-Camerun 1990

Il Maradona che a distanza di nove anni affronta il Camerun non è più il Pelusa ma il Pibe de Oro. La sua fama rivaleggia ormai da tempo con quella di Pelé, è uno degli sportivi più popolari di sempre e non si esibisce in qualche oscura località sconosciuta ai più, bensì sotto gli occhi del mondo intero, che quel pomeriggio puntano tutti su San Siro, sede dell’incontro inaugurale della Coppa del Mondo.

L’Argentina è campione in carica e, come è ovvio che sia, si presenta con i favori del pronostico. La fiducia attorno alla squadra di Bilardo tuttavia scarseggia, meno talentuosa e invecchiata di quattro anni e con un Maradona a mezzo servizio a causa da un intervento all’alluce. Fresco del secondo Scudetto con la maglia del Napoli, i suoi malumori sono oramai risaputi come anche il malcelato desiderio di lasciare una città che lo ama al punto da tenerlo prigioniero. Quanto al Camerun, poco trapela al di là della consueta coltre di folklore al confine con il grottesco. Tra il serio e il faceto si dice, ad esempio, che i giocatori scendano in campo senza comprendere realmente le istruzioni impartitegli dal loro allenatore e che in questo forse consista il segreto del loro successo. In effetti è noto come il sovietico Valerij Nepomniachi si esprima solo in russo, servendosi di un interprete; diffuse sono altresì le voci che lo vorrebbero appena scampato a un tentativo di golpe operato dai giocatori, che avrebbero tentato di riportare sulla panchina il francese Claude Le Roy, con il quale avevano alzato la Coppa d’Africa due anni prima. Si dice anche che, qualche mese prima, durante il sorteggio dei gironi, il presidente della Federcalcio Antonio Matarrese fosse particolarmente sollevato dal non aver visto il nome della compagine africana fare capolino dall’urna delle nostre avversarie. Forse per il valore effettivamente riconosciutole, più probabilmente per ciò che essa rappresentava. Come la fatal Corea del 1966 insegna, non tutte le sconfitte hanno lo stesso peso e l’ipotesi di un passo falso contro un simile avversario avrebbe rischiato di travalicare il mero ambito sportivo.

La patata bollente è così nelle mani dell’Argentina che si presenta al più delicato degli appuntamenti con tutto da perdere. Non a caso Maradona indica il suo raggruppamento, che comprende anche Romania e URSS, come il più duro della prima fase. Un gruppo che non tarda a dimostrarsi tale quando, dopo una ventina di minuti, un filtrante mette Makanaky davanti al portiere argentino Pumpido, salvato solo da un intervento provvidenziale di Basualdo. Sul seguente rinvio Maradona ha il primo assaggio del trattamento speciale al quale sarà sottoposto. Victor Ndip ne arresta la corsa alzando la gamba a 90 gradi, prima che l’arbitro gli sventoli un cartellino giallo che con il metro odierno griderebbe vendetta. Le poche idee dell’Argentina non bastano ad avere la meglio sul gioco duro, durissimo dei camerunensi, che termineranno l’incontro in nove uomini. È proprio dopo la prima espulsione, a poco più di venti minuti dalla fine, che il calcio africano scrive una delle sue pagine più memorabili. François Omam-Biyik si produce in un’elevazione che lascia sbigottito Sandro Mazzola in cabina di commento, prima di schiacciare a terra un pallone che Pumpido si fa sfuggire goffamente. Maradona orchestra come può gli ultimi disperati assalti che inevitabilmente espongono i suoi al contropiede avversario. C’è giusto il tempo per un’altra espulsione – quella spettacolare di Massing che, urtando Caniggia lanciato a rete perde addirittura una scarpa – prima che San Siro dia voce ai tifosi di tutto il mondo. Argentina esclusa.

Diego commenta il trattamento speciale riservatogli dai giocatori del Camerun

 

Quel pomeriggio tutti tifano Camerun – soprattutto a Milano – dove Diego, prima ancora che il miglior calciatore del globo, è un avversario. Un avversario da fischiare ma anche da irridere, da sbeffeggiare.

Almeno un merito ce l’ho, sono contento perché grazie al sottoscritto l’Italia non è stata razzista.

Queste le parole a fine partita con le quali Maradona lascia intendere come l’odio nei suoi confronti abbia paradossalmente motivato gli italiani a sostenere una squadra africana composta da giocatori neri. Diego agita lo spettro del razzismo consapevole di maneggiare un’arma a doppio taglio, lui che – di sangue guaraní nella bianchissima Argentina – il razzismo lo ha conosciuto soprattutto in Italia, vittima di riflesso dei cori di scherno che settimanalmente accompagnano il Napoli e i suoi tifosi in giro per la penisola. Cavalcherà questo pericoloso crinale lungo tutto il Mondiale, concentrando il fuoco dei media su di sé e alleggerendo la pressione sulla squadra. Il prezzo di questa sua personale strategia della tensione sarà però amaro e avrà il sapore dei fischi con cui l’Olimpico oscurerà l’inno argentino prima della finale, apostrofati da quell’indimenticabile “hijos de puta”.

 

L’ultima recita: Argentina-Nigeria 1994

Quattro anni dopo, il tempo trascorso sembra quello di una vita intera, una delle innumerevoli vissute da Diego. Nel frattempo Maradona ha lasciato Napoli, di nascosto, nell’ignominia di una positività alla cocaina che farà da spartiacque alla sua carriera. Passa un anno e mezzo lontano dai campi di gioco prima di intraprendere un’improbabile arrampicata lungo gli scoscesi versanti di Siviglia e di un fugace soggiorno al Newell’s Old Boys. Con più rabbia che minuti nelle gambe, Maradona si riprende la Selección facendo gridare al miracolo dopo i 60 minuti di alto livello regalati nel match di esordio del Mondiale americano contro la Grecia. I suoi occhi spiritati sfondano l’obiettivo della telecamera e irrompono nelle case di mezzo mondo per annunciare che lui è tornato per riprendersi tutto.

Ad attenderlo alla resa dei conti, il caso mette sulla sua strada ancora una volta l’Africa. Le Aquile della Nigeria rievocano inevitabilmente i fantasmi dei Leoni Indomabili ma le facili ironie e il timore di una disfatta con i contorni dell’umiliazione lasciano il posto a una rispettosa cautela. La Nigeria infatti si presenta negli Stati Uniti forte del titolo di campione continentale di pochi mesi prima, vanta una folta schiera di giocatori dalla consolidata esperienza europea e soprattutto ha destato ottime impressioni nel primo incontro vinto per 3-0 ai danni della Bulgaria.

Come quattro anni prima, Diego viene fatto immediatamente oggetto delle attenzioni dei giocatori avversari, in particolare di Sunday Oliseh. Sebbene nel cuore del mediano nigeriano Pelé occupi da sempre un posto speciale, a campeggiare nella camera da letto del suo appartamento di Liegi è un poster di Maradona immortalato a Messico ’86. Per evitare condizionamenti della vigilia ha appositamente evitato di visionare i filmati di Argentina-Grecia. Prima che in campo, il dominio che Diego ancora esercita risiede nell’immaginario di chi gli sta attorno. Nella sua autobiografia, Oliseh descrive dettagliatamente i minuti che precedono la partita, le preoccupazioni ma anche la motivazione generata dal calcare un simile palcoscenico; i canti intimidatori intonati nel tunnel e il senso di soggezione che a suo avviso avrebbero provocato nei giocatori argentini. Almeno fino a quando non emerge dagli spogliatoi una tozza sagoma di non più di 165 centimetri.

Mentre cantavamo ci fissava, voltò lo sguardo verso i suoi compagni e gridò qualcosa in spagnolo che non capii. Risposero all’unisono, come guerrieri al cospetto del loro generale.

Passano 100 secondi e Oliseh è già costretto all’intervento duro. “Sembrava avesse gli occhi dietro la testa e le sue scelte di passaggio ci trovavano sempre in ritardo” commenta il giovane mediano appena acquistato dalla Reggiana. In effetti nell’arco dei 90 minuti Diego completa ben otto passaggi chiave e, arretrato il suo raggio d’azione rispetto al passato, tocca una quantità di palloni come mai prima. Dopo il primo gol segnato a freddo dai nigeriani sugli sviluppi di un contropiede, l’Argentina risponde con una doppietta di Caniggia che sembra riportare indietro le lancette di qualche anno. In particolare sul secondo gol, decisiva è l’intuizione di Maradona che, con impeccabile precisione e rapidità di esecuzione, anticipa la stessa regia americana quando batte un innocuo calcio di punizione pescando Caniggia dietro le distratte linee nemiche.

L’ultima recita del Pibe de Oro con l’Albiceleste

 

Al fischio finale l’Argentina vince 2-1 e si qualifica per gli ottavi di finale. Diego ha giocato tutti i 90 minuti come non gli accadeva da tempo. È raggiante, si è appena esibito in una delle prestazioni più esaltanti dai tempi di Napoli e con in bocca il dolce sapore della rivincita stringe la mano dell’anonima infermiera americana che lo accompagna al capolinea. A nome dell’Africa tutta, alla Nigeria va l’onore di aver partecipato all’ultima, autentica recita del Pibe de Oro.

 

Ancora al centro della storia: Sudafrica 2010

Una volta smesse le scarpe da gioco, una delle abitudini del Maradona tifoso è sempre stata quella di seguire di persona la sua Argentina ad ogni fase finale dei Mondiali. Quando nel 2002 il Giappone gli negò il visto di ingresso in virtù dei suoi precedenti legati al consumo di stupefacenti, in pochi avrebbero pensato ad un esito simile. Otto anni dopo infatti Diego è di nuovo al seguito dell’Albiceleste ma non più da semplice tifoso bensì nei panni di commissario tecnico. Un plot twist che non poteva che avere luogo in Africa.

Chiamato ad organizzare il primo grande evento sportivo planetario su suolo africano, il Sudafrica accoglie Maradona per la prima volta nel gennaio 2010. Mancano sei mesi all’inizio della Coppa del Mondo e Diego, che ha appena finito di scontare la squalifica di tre mesi impostagli dalla FIFA in seguito alle volgari esternazioni rilasciate al termine dell’ultima partita di qualificazione contro l’Uruguay, arriva a Pretoria per visitare le strutture che avrebbero accolto la sua squadra. Accolto dalla consueta calca, lo si vede muoversi a rilento, scortato dalla polizia in un momento di apprensione circa le condizioni di sicurezza che il paese africano avrebbe dovuto garantire all’indomani dell’aggressione armata che ha coinvolto il Togo nella Coppa d’Africa in corso nella non lontana Angola. Ai microfoni dei giornalisti, Maradona dichiara la sua completa fiducia nelle locali forze dell’ordine prima di dirigersi in una scuola di Soweto a pochi passi dallo stadio degli Orlando Pirates. Invitato in qualità di testimonial UNICEF, distribuisce palloni e cappellini, scambia più di un palleggio con i ragazzi dell’istituto e appare sincero nei suoi sorrisi, circondato da uno scenario che probabilmente non si discosta troppo da quello che accompagnò la sua infanzia a Villa Fiorito.

Giugno 2010. La Selección è al completo. Ci sono Tévez e Higuaín, c’è l’inossidabile Verón e il giovane Messi ma la vera attrazione è ancora lui: Diego Armando Maradona. Tutti sanno chi è: giovani e meno giovani, uomini e donne, bianchi e neri. Malgrado abbia passato tutta la vita sotto i riflettori, l’attenzione che ancora genera non sembra pesargli, tutt’altro. Dalle interviste prima e durante il torneo traspare la voglia di esserci, il gusto di essere ancora al centro della storia nonostante la pressione che questo comporta.

Al campo dell’Università di Pretoria non passano inosservate le sedute extra sui calci piazzati, dove impallina ripetutamente il portiere di riserva Mariano Andújar, dando dimostrazione di quanto si va dicendo a proposito delle sue abilità di allenatore. Per quanto chi ami il calcio gli riconosca un credito pressoché infinito, non mancano i critici che rimarcano come le sue doti sul campo superino di gran lunga quelle in panchina, a cominciare da quelle di selezionatore. Le esclusioni di Riquelme e soprattutto quelle di Javier Zanetti ed Esteban Cambiasso, freschi di triplete, stuzzicano la stampa argentina, che non si capacita invece di scelte come l’inclusione di Martín Palermo o di Jonás Gutiérrez, centrocampista mancino che in mancanza di terzini destri di ruolo si vede assegnare la posizione che avrebbe occupato Zanetti.

A bagnare l’esordio del Maradona ct, sedici anni dopo la partita che mise fine alla sua storia in maglia albiceleste, c’è ancora la Nigeria. Rispetto al 1994 la differenza di forze in campo è abissale e l’Argentina prende presto il sopravvento con un Messi imprendibile, fermato in apertura solo dai riflessi felini di Enyeama. Confinato dietro la linea di fondo, Diego appare inquieto. Vestito di un completo grigio che distingue lui e i due fidi assistenti dal resto del gruppo, si alza in piedi accompagnando i movimenti dei suoi uomini in campo. Contrariamente a quello che si possa pensare però è il più composto di tutti quando Gabriel Heinze stacca di testa trovando il gol che decide la partita. Attende qualche istante prima di abbandonarsi alla gioia e voltarsi verso la panchina. Tutta la tensione accumulata la vediamo al fischio finale, riversata nel lungo abbraccio con il quale finisce per sollevare il suo erede designato: Lionel Messi.

Quello degli abbracci prolungati, dei baci, del legame estremamente fisico ricercato con i suoi giocatori è uno dei temi che anima le conferenze stampa sudafricane di Maradona che, incalzato sull’argomento da un giornalista inglese, strabuzza gli occhi, forse ingannato dalla traduzione, sicuramente oltraggiato dall’insinuazione. “Mi piacciono le donne” tiene a precisare più volte, preoccupandosi di non lasciare il minimo dubbio circa il suo orientamento sessuale.

I migliori momenti di Diego a Sudafrica 2010

 

Al di là dei siparietti di cui si rende protagonista fuori dal campo, sul rettangolo verde la sua Argentina va oltre le aspettative. La sofferta fase di qualificazione aveva fatto temere il peggio ma una volta arrivata in Sudafrica la squadra sembra rispondere bene agli input del suo condottiero, che compensa le lacune tattiche con l’innato carisma. Una qualche forma di giustizia divina sembra compiersi quando, nell’ultimo incontro del girone contro la Grecia, Martín Palermo segna a pochi minuti dal suo ingresso. Criticatissimo per averlo convocato, Maradona assolve alla sua promessa di portare con sé al Mondiale il 36enne attaccante del Boca Juniors dopo che questi lo aveva salvato nei minuti di recupero di una delicata partita di qualificazione in Perù. La favola continua agli ottavi con il Messico, dove anche la fortuna – sotto forma di una svista arbitrale che ignora la posizione irregolare di Tévez sul primo gol – sembra spirare nella direzione di quella resurrezione rimasta incompiuta sedici anni prima.

Come allora però la favola si interrompe sul più bello. Il quarto di finale contro la Germania è una gara a senso unico che mette a nudo tutti i limiti fin lì tenuti nascosti dalla mistica maradoniana. Ad ogni affondo dei tedeschi, Diego sembra accusare fisicamente il colpo. La fotografia della resa è la reazione al terzo gol tedesco, quando di fronte all’impetuosa discesa sul fondo di Schweinsteiger finalizzata da Arne Friedrich, finisce per aggrapparsi letteralmente alle spalle di Agüero come un pugile suonato alle corde. Non a caso la metafora da lui stesso evocata in conferenza stampa sarà quella di “un cazzotto di Muhammad Ali”.

Termina così la personale Rumble in the jungle sudafricana di Diego Maradona, che al fischio finale pare avere le idee chiare come mai prima da quando siede sulla panchina dell’Argentina. Cerca il suo numero 10, che sconsolato si tiene in disparte, consapevole di non aver risposto alle attese di un pubblico che – malgrado i successi e i Palloni d’Oro – non gli chiederà altro per il resto della carriera. Senza dire niente, Diego abbraccia forte Leo e se lo tiene stretto in un silenzio che il frastuono delle vuvuzelas non fa che amplificare.

Un giorno capirà cosa vuol dire caricarsi una squadra sulle spalle.

Queste le parole che Diego spende per Messi nel dopo-partita. Parole nelle quali oggi non è possibile non leggere la carica profetica.

 

Una volta ancora: Argentina-Nigeria 2018

Sono passati otto anni e Maradona dice ancora presente. Lo fa dalla tribuna della Gazprom Arena di San Pietroburgo, dove un’Argentina sull’orlo dell’eliminazione si gioca il passaggio del turno ancora un volta contro la Nigeria, in quello che – a partire proprio dal 1994 e passando per la semifinale olimpica del 1996 – è diventato nel corso degli anni un piccolo classico del calcio internazionale.

È un Maradona sul quale il peso degli anni e non solo comincia a farsi sentire, quello che parte alla volta della Russia per assolvere al suo quadriennale appuntamento con l’amata Albiceleste, un impegno che non ha mai interrotto anche una volta ritiratosi dal calcio giocato ma che sarà anche l’ultimo della sua vita. Le voce spesso impastata, i movimenti lenti che talvolta richiedono l’ausilio di un accompagnatore. È un lontano parente del Diego gagliardo visto in Sudafrica. Dopo essere stato ricevuto da Putin insieme a Pelé al seguito di una delegazione della FIFA, assiste dalla tribuna alle deludenti prestazioni della squadra di Jorge Sampaoli contro Islanda e Croazia. Con due punti in meno della Nigeria, l’Argentina si stringe attorno ai suoi due numeri 10. Il primo, quello in campo, si sblocca dopo un quarto d’ora di gioco, quando controlla con la coscia un bel lancio di Banega prima di incrociare con il destro verso la porta nigeriana. Il secondo, quello in tribuna, è già abbondantemente in palla prima del calcio di inizio, quando viene colto dalle telecamere ancheggiare insieme a una signora nigeriana presente sugli spalti. Il gol di Messi mette il turbo a Diego che si lascia andare a quella che ha l’aria di essere un’invocazione. Le mani al cielo che si stringono al corpo, la stessa follia che ne venava gli occhi nel 1994 e che scatena facili ironie circa il suo stato tossicologico.

Lo show di Maradona contro la Nigeria a Russia 2018

 

Nell’arco dei 90 minuti attraversa tutto lo spettro delle emozioni umane. Sporgendosi più volte oltre la balaustra che gli impedisce di precipitare nell’anello inferiore dello stadio, Maradona saluta, sonnecchia e si ridesta, si sbraccia, invita a tirare fuori los huevos come fosse ancora lui l’allenatore. Suda come e più degli uomini in campo. Quando un tifoso tenta di attirare la sua attenzione, lui cerca di ignorarlo. Ha lo sguardo fisso – non si sa se verso di lui o semplicemente nel vuoto – quando lo liquida con un sorriso stanco ma dolce e un pollice alzato, probabilmente non avendo capito che cosa gli stesse dicendo. All’intervallo ha bisogno di essere sorretto mentre a fatica si fa strada verso lo skybox dove, al di là dei vetri, lo si vede lasciarsi cadere privo di forze su una sedia. C’è il tempo per lo sconforto dopo il pareggio della Nigeria all’inizio del secondo tempo ma anche quello per un ultimo sussulto. Mancano quattro minuti e l’Argentina è matematicamente fuori dal Mondiale. Dalla destra Gabriel Mercado mette in mezzo un pallone che trova in area Marcos Rojo, libero di battere al volo. È il 2-1 che tiene in vita l’Argentina, almeno per qualche altro giorno. Messi sale sulle spalle dell’uomo della provvidenza ma la regia non può fare a meno di cercare l’altro numero 10 in tribuna. Con un vigore impensabile per chiunque lo avesse visto fino a pochi minuti prima, Maradona balza in piedi, i medi di entrambe le mani belli tesi, mentre le sue labbra disegnano un inequivocabile: “Putooooos” all’indirizzo di chissà chi. Un grido che raccoglie tutta la rabbia rimasta in quel corpo deformato dagli eccessi ma ancora presente dove più conta, per un’altra volta ancora, l’ultima. Compreso cosa stia succedendo la regia stacca bruscamente sui festeggiamenti in campo.

 

L’Africa di Maradona

Giunti alla fine di questo viaggio africano alla riscoperta di Maradona, immaginare ciò che egli abbia rappresentato per gli amanti del calcio nel continente non è difficile. Più complicato è cercare di capire se e cosa l’Africa abbia lasciato a Maradona. Bei panorami, simpatia, un pizzico di paternalismo. Una domanda alla quale non avremo mai risposta ma che possiamo provare a interpretare nell’affetto con cui accolse al Boca Juniors il camerunense Alphonse Tchami – l’unico compagno di squadra africano che Diego abbia mai avuto – che amava coinvolgere in improbabili rievocazioni di Argentina-Camerun durante gli allenamenti. Oppure nei tre giorni passati in Libia nel 1999, pittoresca tappa dove si racconta abbia tenuto sedute private a Saadi Gheddafi, ma perfettamente inscritta nel solco del Maradona ideologico, quello delle amicizie con Fidél Castro e Hugo Chávez, lo stesso che, ancora in attività, incidentalmente si trovò dietro la medesima barricata delle federazioni africane in cerca di spazio durante la sua battaglia affinché la FIFA ridistribuisse direttamente ai calciatori i proventi dei tornei internazionali.

 L’omaggio di Alphonse Tchami a Maradona

 

Figlio del suo tempo e di quella Villa Fiorito che tanto assomigliava agli slum che sorgono oggi ai margini delle metropoli africane, Diego non teme di mostrare i suoi spigoli quando, visibilmente alterato, di fronte alle telecamere del programma El Rayo accusa apertamente Pelé di essere un ipocrita, “uno schiavo” che avrebbe venduto il cuore alla FIFA, non mancando di ironizzare più volte sul suo colore di pelle.

Non c’è ne*ro che non sbiadisca.

Parole scorrette ma dalle quali non trasuda razzismo, tutt’altro. Ciò che si sente invece è la forza, disordinata, primitiva, talvolta sgradevole e spesso colorata di toni populisti, con la quale anche negli ultimi anni Diego ha voluto fare sentire la sua voce a proposito della tratta che sarebbe in corso oggi nei confronti dei giovani calciatori africani, vittime di “una mafia” e di un mercato delle nazionalizzazioni che, è inutile negarlo, affonda le sue radici nel colonialismo europeo.

Forse però l’Africa di Diego è semplicemente nel suo sguardo disorientato sulla tribuna di San Pietroburgo, due anni prima di morire. Nel suo sorriso accondiscendente di fronte all’ennesimo estraneo in cerca di attenzione, nella gratitudine che dietro vi si scorge ancora. La stessa provata appena ventenne su una pista d’atterraggio ad Abidjan.

 


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