Un estratto dal libro “Rimpalli” di Teodoro Lorenzo (Voglino Editrice).
Alle 17:28 del 4 maggio 1986 ho capito cosa significa essere felici; perché lo sono stato. Fino alle 17:30. Se quindi vi parlo della felicità so di poterlo fare con cognizione di causa. Darne una definizione è un’impresa ardua. Se scendessimo in strada e provassimo a chiedere a qualche passante: “Mi scusi signore, cos’è la felicità?”, superato lo sconcerto iniziale li vedremmo tutti annaspare scivolando senza appigli in vaghe e indefinite astrattezze. È difficile afferrarla e, rigirandola tra le mani, poterla contemplare. Eccola, sei tu, ti vedo! Come l’acqua sfugge ad ogni presa, ma trovarne una definizione è essenziale. Solo così, raccolta e adagiata nelle nostre mani unite a conca, la potremo finalmente osservare da vicino. Dunque proviamoci.
La parola italiana, da sola, non ci aiuta. La felicità è piena di colori e il termine che nella nostra lingua la identifica non riesce a restituirne l’intero spettro, limitandosi ad illuminarne uno solo. Felicità deriva infatti dal latino felix, che significa fortuna, il che, se ci pensate, è una tautologia, vale a dire una parola che rimanda a se stessa. Che infatti la componente essenziale della felicità sia la fortuna è cosa indiscutibile e universalmente accettata. La parola italiana inquadra perciò solo un aspetto, quello legato alla fortuna.
Siamo peraltro convinti che l’inglese sia una lingua ostica, utile solo per gli affari e poco adatta a cogliere la profondità delle emozioni. Eppure per dare seguito al nostro tentativo dobbiamo ricorrere proprio al termine di quella lingua. In inglese felicità si dice happiness, locuzione che conserva al suo interno la radice del verbo to happen, che vuol dire accadere. La felicità per gli inglesi è quindi qualcosa che ac-cade. Da ciò deriva una logica conseguenza: se cade deve essere qualcosa che arriva da fuori e arriva all’improvviso, quindi qualcosa di esterno, eccezionale e non previsto.
Occorre capire a questo punto dove si debba collocare quel “fuori”, quindi da dove arrivi la felicità. Per farlo è necessario ricorrere al mondo dei Greci, ritornare all’origine della nostra civiltà facendo un salto indietro nel tempo di duemilacinquecento anni; è lì infatti che si annida il segreto della nostra ricerca. Secondo il pensiero della Grecia antica, da Omero in poi, nessuno tra gli uomini può essere felice. La felicità appartiene unicamente agli dei, che la vivono in eterno come realtà intangibile. Solo loro quindi possono farne dono ai mortali, ai quali diversamente rimarrebbe per sempre preclusa e irraggiungibile. Ma si tratta di eventi eccezionali, e pochi sono i beneficati.
Gli dei filarono questo per i mortali infelici: vivere nell’amarezza: essi invece sono senza pene. Due vasi sono piantati sulla soglia di Zeus, dei doni che dà, dei cattivi uno e l’altro dei buoni.
ci dice Omero nell’Iliade, quando il vecchio Priamo si infila nottetempo nella tenda di Achille per chiedergli la restituzione del corpo di suo figlio. Non appartenendo al mondo degli uomini, la loro volontà nel perseguirla è irrilevante, inutili i loro tentativi di raggiungerla, vani i loro desideri. Di questo siamo tutti convinti. Se per ottenere la felicità bastassero sforzi e impegno saremmo tutti felici, o quasi. E tutti, o quasi, l’avremmo conosciuta. Sappiamo bene invece che non è così: nel corso della nostra esistenza potremmo anche non incontrarla mai.
Per cogliere l’intimo significato della felicità dobbiamo allora fare una crasi delle due parole, quella italiana e quella inglese, mischiarle assieme e dare vita ad un ibrido nuovo, nel quale fortuna e accadimento si tengono per mano; poi passeggiare nel tempo, spingerci fino alla Grecia antica e ritornare portando con noi una scintilla del loro pensiero. Un po’ d’acqua comincia a raccogliersi nelle nostre mani, la vediamo, e anche i passanti intervistati, più sicuri, a questo punto potrebbero rispondere così: la felicità è una fortuna, donata da una divinità misteriosa, che accade all’improvviso.
La definizione è bella: potremmo fermarci qui e ritenerci soddisfatti. Ma manca qualcosa. La fortuna, per essere felicità, bisogna averla sognata. Prima di addormentarti, in una delle tue tante notti, la guancia sul cuscino, devi aver sospirato, chiudendo gli occhi… magari, magari accadesse. Se la fortuna l’hai pensata solo con la testa e non con il cuore, se hai impegnato la tua volontà in quella direzione, se hai mosso le cose in modo che quell’evento si verificasse si potrà provare soddisfazione, magari compiacimento se si è di natura vanitosa, forse addirittura trionfalismo se si indulge al vizio di Narciso. Ma non felicità, perché la felicità riguarda solo il cuore. Abbiamo fatto un altro passo avanti, altra acqua si sta raccogliendo nelle nostre mani. Ma manca qualcosa, l’ultima.
Felicità è un’ombra che subito precipita.
dice Sofocle nell’Edipo Re. La felicità non si può trattenere, svanisce in fretta e ritorna nel mistero dal quale proviene. E quando arriva, e ti avvampa l’anima, non la puoi condividere con nessuno. Brucia talmente tanto che se qualcuno si avvicinasse ne rimarrebbe ustionato. È come un’esplosione, e bisogna liberarsi dell’enorme energia che si sprigiona perché altrimenti se ne rimarrebbe soffocati. Il cervello subisce un cortocircuito, scollegandoti dalla realtà e dal tempo presente: non sai più chi sei né dove ti trovi. Il tempo si ferma, come sospeso, e poi comincia a correre a ritroso per ritrovare una di quelle tante notti di sospiri e ad essa miracolosamente sovrapporsi.
Siamo arrivati alla fine. Dunque, riassumiamo. La felicità è una fortuna, donata da una divinità misteriosa, che accade all’improvviso, hai pensato con il cuore, non puoi condividere con nessuno, annulla il tempo, brucia intensamente e svanisce in fretta. La conca delle nostre mani si è riempita e noi finalmente possiamo vedere quell’acqua in tutta la sua trasparenza. Da lì emerge una immagine, che tutto spiega, al di là delle parole, ed è la corsa pazza di Tardelli nella finale mondiale dell’ottantadue. C’è un motivo per cui quella corsa è diventata una icona.
Le immagini che rimangono nel tempo e fanno la Storia dicono sempre più di quello che mostrano. Rimandano a qualcos’altro, di profondo, svelano misteriose radici e illuminano verità universali. Eccola allora la felicità; riguardate le immagini e confrontatele con la definizione a cui ci hanno portato le nostre riflessioni. Tardelli segna, è un campione ma non fa molti gol. Per lui quindi quel gol è un evento eccezionale e non previsto, quindi una fortuna. Ed è una fortuna donatagli da una divinità misteriosa, nel nostro caso dal dio del calcio che da sempre e ovunque regola e decide tutte le vicende calcistiche.
Che infatti dovesse finire così l’aveva già stabilito lui, resuscitando un attaccante, Paolo Rossi, reduce da due anni di squalifica, e ancora morto nelle partite di qualificazione, mandandolo in gol ad ogni rimpallo e facendo subire un infortunio muscolare prima della finale al giocatore più forte degli avversari, il Kaiser Rummenigge, limitandone grandemente l’apporto e rendendone agevole la marcatura al giovane nato baffuto Giuseppe Bergomi, difensore sconosciuto e non eccelso (una fortuna, donata da una divinità misteriosa, che accade all’improvviso). Tardelli segna, nella finale di un mondiale. Come hanno sognato di fare tutti i bambini del mondo tirando per strada i primi calci e come ha fatto anche lui, sospirando in una qualsiasi delle sue notti, la guancia sul cuscino, chiudendo gli occhi…magari, magari accadesse (hai pensato con il cuore). Tardelli segna, e poi si lancia in una corsa sfrenata, a braccia spalancate.
Ma non sono i compagni quelli che sta cercando. Gentile infatti gli afferra un braccio, vuole trattenerlo ma lui si divincola. Il cortocircuito che sta vivendo lo ha staccato dal presente e annullato il tempo. Quello che in realtà sta cercando, l’unico di cui veramente gli importa e che vuole abbracciare è il bambino che è stato, quel bambino che sul cuscino, prima di addormentarsi, ha sognato di fare un gol nella finale di una Coppa del Mondo. Dove sei? Hai visto? Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Il suo animo è esploso e si deve liberare dell’immensa energia che si è sprigionata e che lo sta quasi per soffocare; per questo continua a correre, e a urlare.
Nessuno gli si può avvicinare; sarebbe come entrare nell’epicentro dell’esplosione (non puoi condividere con nessuno, annulla il tempo, brucia intensamente) Poi si accascia sfinito, disteso per terra: la sovrumana energia si è spenta. I compagni lo raggiungono e lo abbracciano; adesso lo possono fare, perché lui è rientrato nell’ordinario fluire del tempo, ha lasciato quel bambino nelle nebbie del passato e il cervello ha riattivato le sue connessioni riportandolo nel presente e riconsegnandolo alla realtà. Adesso i compagni lo possono toccare, senza bruciarsi; adesso sì. La felicità, durata pochi attimi, è tornata nel mistero dal quale è arrivata (e svanisce in fretta).
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