Che Sandro Guzmán sia speciale si capisce subito. La certezza è data dal fatto che si tratta di uno dei rari casi di calciatore argentino privo di apodo, il soprannome che nel Paese sudamericano si concede più o meno a chiunque abbia mai preso a calci anche solo un barattolo. Nativo di Castelar, comune dell’estremo ovest dell’area metropolitana di Buenos Aires che diede i natali a Claudio Borghi e concesse i primi calci a Pedro Troglio, Sandro Daniel Guzmán alberga certamente negli strati più profondi del grande iceberg dei portieri latino-americani che sul finire del millennio scandalizzavano il sobrio pubblico europeo, tanto nel look quanto nell’interpretare il ruolo.
Dal Vélez al Boca, ascesa e caduta di Guzmán
Cresciuto nel vivaio del Vélez, a 23 anni si accomoda sulla panchina della prima squadra, nella quale in tre anni José Luis Chilavert gli lascia il posto in porta in appena 16 occasioni. I cinque minuti di celebrità arrivano, suo malgrado, il 1° dicembre 1994. È il 12’ del secondo tempo a Tokyo e la Coppa Intercontinentale ha già imboccato con decisione la direzione di Buenos Aires, dove di lì a poco sarebbe andata ad impreziosire la bacheca del Vélez Sarsfield. Il Milan campione d’Europa si appresta a rimettere la palla al centro per la seconda volta in sette minuti quando il relato argentino ci informa che: “El cuarto árbitro expulsó a Guzmán”. Sandro Guzmán, portiere di riserva del Vélez, è stato infatti appena espulso per essere entrato in campo a festeggiare con i compagni dopo il secondo gol segnato da Omar Asad. Il gioco è già abbondantemente ripreso e nessuna inquadratura verrà mai riproposta ad immortalare quello che, fuori dai patrii confini, rimane ad oggi il momento di maggior popolarità dell’estremo difensore argentino.
Gli anni passati al José Amalfitani sono comunque ricchi di soddisfazioni per Guzmán che, sebbene da comprimario, può fregiarsi dei tre titoli nazionali che la squadra di Carlos Bianchi conquista tra il 1993 e il 1996 oltre che della Coppa Libertadores e della già citata Intercontinentale del 1994. L’addio del Virrey Bianchi, che nell’estate 1996 si imbarca per quella che sarà la sua sciagurata campagna europea alla guida della Roma, coincide anche con quello di Guzmán, le cui poche apparizioni evidentemente convincono il presidente del Boca Juniors e futuro presidente della Repubblica, Mauricio Macri a farne il suo nuovo numero 12.
Arrivato per coprire le spalle alla bandiera xeneize Carlos Navarro Montoya, il deteriorarsi del rapporto tra quest’ultimo e l’allenatore Carlos Bilardo catapulta improvvisamente Guzmán nell’undici titolare, dove debutta nel fragoroso 6-0 che il Boca infligge all’Huracán nel novembre 1996. La stagione però prosegue in tutt’altro modo e, dopo aver mestamente concluso il Torneo Apertura a metà classifica, Macri fa accomodare sulla panchina della Bombonera due personaggi che daranno una svolta alla traiettoria di Guzmán. Il primo è Héctor Veira, nome storico del San Lorenzo, una delle famigerate Carasucias, i ragazzi dalla faccia sporca che negli anni ’60 fecero grande il Ciclón. Chioma fluente di un biscardiano ocra e camicia aperta fin sotto il petto, El Bambino – questo il suo soprannome – è il tecnico chiamato a completare il progetto di rifondazione di una squadra che da troppi anni assiste inerme ai successi dei rivali del River Plate. Oltre a lui, appena rientrato dal prestito al Rosario Central, c’è Roberto Abbondanzieri, portiere che farà la storia del Boca e che all’inizio del Torneo Clausura del 1997 promette di essere più di un semplice rimpiazzo.
L’impressione è confermata fin dalle prime giornate di campionato, dove El Pato viene sempre schierato titolare fino al 4-0 che il Boca subisce in casa del San Lorenzo e che vale a Guzmán una seconda chance. Il cambio non produce effetti sensibili sulla classifica, che continua a vedere gli xeneizes annaspare a metà del gruppo senza mai riuscire a concludere una partita a rete inviolata. A nuocere all’immagine di Guzman presso la hincha sono però soprattutto le insicurezze che di sovente mostra quando si allontana dai pali. Particolarmente funesta è la prestazione offerta in occasione di un Superclásico che alla fine del primo tempo il Boca conduce 3-0 contro un River in dieci uomini ma che nei minuti finali la banda riesce a recuperare grazie a un’uscita fuori tempo del portiere su un calcio d’angolo.
La sintesi della clamorosa rimonta del River nel Superclásico con errore di Guzmán
L’incontro che si gioca il 1° giugno 1997 ha invece l’aria di essere l’ennesima, insignificante tappa di un’altra stagione da buttare. È l’ultima giornata prima della pausa per la Copa América e di fronte c’è il Deportivo Español, squadra di bassa classifica alle prese con gli astrusi calcoli del promédio per non retrocedere. Come nelle ultime apparizioni casalinghe, ogni intervento di Guzmán è prontamente fischiato dal pubblico della Bombonera che dopo appena quattro minuti può gustarsi gli effetti nefasti della pressione che esercita sul giovane portiere, terminale di una copertura difensiva a dir poco rivoltante che porta al vantaggio ospite. A pareggio acquisito, mentre il collega del Deportivo Español si fa bello con plastici interventi che frustrano i ripetuti attacchi del Boca, Guzmán risponde con un goffo manotazo a una punizione che per poco non propizia il 2-1. All’intervallo la zattera sulla quale sta naufragando la stagione del Boca è ancora salva. Ciononostante Guzmán è il primo ad essere gettato in acqua. A mettere in moto la macchina del destino è il Bambino Veira che al rientro delle squadre in campo regala attimi di meraviglia a quanti, dagli spalti, salutano l’ingresso di Abbondanzieri come una vittoria. Autore di due grandi interventi nel corso del secondo tempo, il Pato non riesce però ad evitare una sconfitta per 3-1 che, beffardamente, ricade quasi per intero sulle spalle di Guzmán.
I professionisti affrontano momenti estremi nei quali bisogna proteggerli. La questione non è se Guzmán sia un portiere bravo, scarso o normale. È un eccellente professionista.
Queste le parole che Veira offre in pasto ai giornalisti nel dopo-partita, lesti a tagliarle e a ricavarne il memorabile: “Te saqué para protegerte” (letteralmente “ti ho tolto per proteggerti“) al quale ancora oggi corre la memoria dei tifosi argentini quando sentono il nome di Sandro Guzmán.
Dal calcio al reggae
In realtà quella non sarà l’ultima partita di Guzmán tra i pali del Boca Juniors. Esteban Pogany, traghettatore designato per le ultime giornate di campionato, gli concede infatti un’ultima apparizione ufficiale contro il Gimnasia de Jujuy nella quale, ironia della sorte, riesce nell’impresa di non subire gol prima di salutare tutti nell’amichevole contro il Cerro Porteño che segna il ritorno di Claudio Caniggia.
A 26 anni, con il marchio dell’infamia ancora fresco sulla pelle, Sandro Guzmán prova a riscrivere la sua storia di calciatore con una scelta che si muove sul filo dell’autoironia. Alla vigilia del Torneo Apertura 1998 risponde infatti alla chiamata del Deportivo Español, proprio la squadra che qualche mese prima gli era costata la reputazione e che, alle prese con una crisi finanziaria che minaccia fallimento, assembla come può una rosa di soldati di ventura. Una stagione nata sotto cattivi auspici, ricordata soprattutto perché – sull’onda della moda dell’estate, lanciata dal centrocampista Christian Bassedas quando in Copa América era sceso in campo con la maglia numero 1 – la punta Silvio Carrario decide di imitarlo, lasciando all’ultimo arrivato Guzmán la 10. Come previsto, la campagna si conclude con l’ultimo posto nel Torneo Clausura e la conseguente retrocessione del club, che da allora non ha più rivisto la massima serie.
Guzmán però è già lontano. Quando a dicembre lascia la squadra, dopo 15 partite e un Apertura concluso al quartultimo posto, il calcio non è più al centro dei suoi pensieri. Altre discipline cominciano ad interessarlo e a rispondere in egual misura, se non meglio, alla sua ricerca di equilibrio tra corpo e mente. La scoperta della capoeira e delle arti marziali vanno a stimolare un interesse più generale per la cura del fisico che già da qualche tempo coltiva attraverso la dieta vegana. Il lavoro che, tra un allenamento e l’altro, i medici svolgono sul suo apparato muscolo-scheletrico lo incuriosisce e così comincia ad avvicinarsi alla chiropratica. Il reggae e la filosofia rastafariana lo guidano infine lungo quel percorso di ricerca spirituale che gradualmente relega il calcio in fondo alle sue priorità. Questa trasformazione è più o meno riassunta dai due anni di buco prima che nel 2000 l’All Boys si faccia vivo per proporgli un contratto in seconda divisione. Nella serie trascurabile di passaggi che tra il 2001 e il 2003 lo porta dall’Atlético Tucumán a una non meglio precisata squadra di nome Strikers Miami, fino all’Atlético de Quilmes, ultima oscura tappa in terza divisione, c’è sempre meno Guzmán, il portiere, e sempre più Sandro. O meglio, Jah Sandro: questo il nome d’arte con cui l’ormai ex calciatore comincia a farsi largo nella scena reggae argentina.
Jah Sandro nella sua nuova veste reggae
Nuova vita da chiropratico e rastafariano
La vita di un calciatore non dura a lungo; finisce molto in fretta e bisogna essere preparati a quello che segue.
Consapevole di ciò, a 32 anni appena, Sandro comincia la sua nuova vita. Apre un’edicola dove vende un po’ di tutto. La sua storia incuriosisce i giornalisti che lo vanno a scovare nella zona commerciale di Ramos Mejía, dove al posto dell’ex portiere del Boca Juniors trovano un rastone in canottiera. Ancora oggi se digitate “Jah Sandro”, Google vi rimanderà al profilo Soundcloud sul quale è conservata a imperitura memoria la sua discografia. Su riddim vagamente dancehall decanta i temi classici del roots reggae come l’amore, l’onnipotenza di Dio e di Hailé Selassié – sua incarnazione terrestre – la filosofia dell’I and I. In La hierba de Babylon, che è anche il suo pezzo più ascoltato, la voce fuori tempo e a tratti veramente fastidiosa di Sandro però esce dal coro e prende in contropiede i cliché del genere.
“Hierba de Babylon no quiere fumar más” recita il ritornello, nel quale si intravede l’anticonformismo e la ricerca di libertà che sempre ha animato le sue scelte, in area di rigore come nella vita. Astemio e dedito al veganesimo, Jah Sandro tiene a definirsi rastaman e non reggaeman: ciò che a lui interessa non è tanto la musica quanto il sentiero di liberazione rappresentato dalla filosofia rastafariana, della quale arriva a criticare derive quali il consumo di marijuana fine a se stesso, tantomeno nelle sue forme artificiali. Ne tollera l’uso religioso, sostiene quello terapeutico, detesta il tabacco. Nel suo negozio segnala a mezzo cartello scritto a pennarello il divieto di fumare le sigarette che, un po’ a malincuore, espone in vendita. È la natura a guidare la sua metamorfosi.
Lungo questo processo di trasformazione approfondisce lo studio dell’osteopatia e della chiropratica, logico prosieguo delle arti marziali con cui ha fin lì esplorato le possibilità del suo corpo. Un percorso che lo porta a recidere i dreadlocks che per undici anni aveva lasciato crescere rigogliosi fino alle caviglie:
Uno dei precetti della cultura rasta è che tutto ciò che è fonte di oppressione debba essere eliminato.
Il dolore al collo provocato dal peso dell’ingombrante capigliatura e l’impossibilità di eseguire al meglio i movimenti desiderati lo convincono a privarsi del segno più visibile di ciò che porta dentro. È l’ennesima metamorfosi di un uomo che, paradossalmente, muta in continuazione per rimanere se stesso. Parlando della depressione che colpisce molti calciatori al termine della carriera, ringrazia Dio per non esservi caduto ma allo stesso tempo non se ne sorprende, rivendicando di essere rimasto sempre la stessa persona all’inizio come alla fine della sua carriera, senza mai aver creduto di essere quello che non era.
Del calcio non conserva tanti ricordi ma tutti piacevoli. Da quella chiacchierata con Maradona a proposito dell’invito che Ziggy Marley gli fece per esibirsi in Giamaica ma a cui dovette rinunciare per i troppi impegni, allo spirito di squadra che trovò al Vélez nei suoi primi anni da professionista, fino agli allenamenti al fianco di Chilavert, per il quale ha solo parole di stima quando ne evoca il talento e l’intelligenza, malgrado non gli lasciasse giocare neanche le amichevoli. Nei confronti di Héctor Veira non nutre alcun rancore. Quando un cliente, riconoscendolo, o qualche giornalista gli chiede di quell’infausta sostituzione si limita a ribadire ciò che già disse 27 anni fa:
Il tecnico ha il diritto di sostituire qualunque giocatore. Oggi riconosco questo diritto come all’epoca accettai la sua decisione.
Superati i cinquant’anni, Sandro Guzmán non ha rimpianti. Oggi guarda poco la televisione e a malapena segue la Nazionale. E a proposito dei mille volti della sua vita, in un’intervista di un paio di anni fa dalla clinica in cui oggi esercita la sua nuova professione ha affermato:
Se potessi vivere una seconda vita e dovessi scegliere tra una delle due carriere, sceglierei quella dell’osteopata.
Parole di un uomo che nel corso di una vita sembra averne vissute almeno tre, ma che lungo le differenti strade intraprese ha sempre seguito la stessa direzione. Quella di Sandro.
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