Vista la brevità della storia americana, lo sport è spesso stato usato come vera e propria cosmogonia e base culturale su cui far prosperare gli ideali made in USA. In particolare il football, un gioco basato sulla conquista del territorio, si è trasformato sin da subito in una grande fucina di personaggi, avvenimenti e vicissitudini che hanno finito per diventare parte integrante della cultura a stelle e strisce. Uno di questi personaggi è Alan Page, MVP della NFL e Giudice della Corte Suprema. Esatto, per quanto possa suonare strano che qualcuno raggiunga due obiettivi di tale prestigio e così radicalmente opposti, non ci troviamo di fronte a un caso di omonimia.
Alan Page, l’MVP che ha rivoluzionato i Minnesota Vikings
Che Page fosse un predestinato lo si può intuire dalla prima delle incredibili coincidenze della sua vita, per la precisione dal luogo di nascita. Alan infatti è di Canton, Ohio, la città dove nel 1963 è stato inaugurato il museo della Hall of Fame del football americano. Per quanto il football gli piaccia, i suoi progetti futuri sono indirizzati verso la carriera forense sin dai primi anni della sua infanzia: a 8 anni, ascoltando la sentenza del famosissimo processo Brown vs. Board of Education, dice ai suoi genitori di voler diventare avvocato. La cosa non stupisce nessuno in famiglia, i Page sono grandi lavoratori e da sempre danno grande importanza nella scolarizzazione del figlio. Qualche anno più tardi, tuttavia, pare chiaro a tutti che la via che porta ai tribunali, per quanto lastricata di buone intenzioni, debba subire una netta virata: la strada da imboccare è quella del football.
È il 1966 e Page, nel suo anno da senior e da All-American, guida l’università di Notre Dame alla vittoria del National Championship in NCAA, proprio mentre completa in maniera eccellente i suoi studi nell’ateneo dell’Indiana. Talento e potenzialità lo portano a essere la quindicesima chiamata assoluta del Draft 1967, in quello che è il primo vero giorno di lavoro di coach Bud Grant, da soli tre giorni diventato il nuovo timoniere dei Minnesota Vikings. Grant allenerà per il resto della sua carriera i Vikings, dal 1967 al 1983 – e di nuovo nel 1985 – diventandone il vero e proprio Mahatma. Sarà lui a creare i famosi Purple People Eater, una linea difensiva che oltre a Page schiererà Jim Marshall, Gary Larsen e Carl Eller. Un quartetto da paura che nei dieci anni successivi costituirà il principale punto di forza di Minnesota.
Su Grant potremmo aprire una parentesi infinita, ma qui ci accontentiamo di sottolineare come sia stato il primo allenatore in grado di portare i Vikings ai playoff – già dalla seconda stagione – e l’unico fino ad ora a permettere alla franchigia di disputare il Super Bowl. Come detto, già dal 1968 Minnesota comincia a far rumore, vincendo la propria Division e centrando la post-season. Dovrà arrendersi ai Colts nell’allora Conference Championship Game ma sarà solo il preludio a una serie di stagioni straordinarie. Nel 1969, ultima stagione prima della fusione tra NFL e AFL, i Vikings si trasformano in una corazzata difensiva, concedendo poco più di 9 punti di media a partita, un’attitudine che li vede planare dolcemente ai playoff.
Nel Conference Championship Game è proprio Page a fare la giocata decisiva: intercetta Roman Gabriel, quarterback dai Rams ed MVP della lega, e regala la prima, storica vittoria in post-season alla franchigia. La corsa continua con la conquista dell’NFL Championship ai danni dei Browns ma si arresta proprio ad un passo dall’anello. Al Super Bowl IV, giocato a New Orleans da favoritissimi, i Vikings perdono contro i Kansas City Chiefs. L’anno successivo Minnesota raggiunge nuovamente i playoff ma interrompe la propria corsa contro i 49ers al Divisional Round. Page è ormai diventato una star di primo livello e guida una difesa dai numeri eccezionali, capace di subire in stagione solo 10 touchdown. Il tutto riuscendo lui stesso a segnarne 7, un rendimento mai visto prima.
Tuttavia è il 1971 l’anno della consacrazione. Nonostante i Vikings perdano nuovamente al Divisional contro i Cowboys, Alan Page diventa il primo difensore a vincere l’MVP. Solo Lawrence Taylor riuscirà a bissare questa impresa, 15 anni dopo. Non basta il ritorno del figliol prodigo Fran Tarkenton per fare il definitivo salto di qualità e nel 1972 Minnesota regredisce fino ad un record di 7-7 che li esclude dalla post-season. È solo uno stop momentaneo, dalla stagione successiva i Vikings sbocciano definitivamente: con un record di 12-2, Page e Tarkenton, dopo essersi liberati di Washington e Dallas, portano la squadra direttamente al Super Bowl VIII. Purtroppo anche stavolta Minnesota deve arrendersi ai vincitori della AFC. I Miami Dolphins – che l’anno prima avevano concluso la prima, e finora unica, perfect season della storia – si impongono nettamente 24-7.
La maledizione dei Vikings
Già nell’estate del 1974 Page torna a far parlare di sé, e questa volta non per le sue giocate, ma per l’attività fuori dal campo. È infatti lui a guidare lo sciopero dei giocatori, chiedendo l’abolizione della Rozelle Rule, una regola che limita fortemente il potere negoziale dei giocatori nella free agency. Nonostante il fallimento momentaneo dello sciopero, la successiva abolizione di questa norma ridisegnerà completamente il mercato NFL, dando finalmente ai giocatori il potere di decidere per quale franchigia giocare. Non certo una casualità che sia stato proprio Page a guidare il cambiamento.
I sussulti extra-campo non influiscono sulla regular season di Minnesota, che conclude con un solido 10-4. Le vittorie in post-season contro Cardinals e Rams proiettano i Vikings nuovamente al Super Bowl. La partita si disputa in uno stadio e una città che evocano cattivi pensieri, il Tulane Stadium di New Orleans dove i Vikings hanno perso il Super Bowl IV. Questa volta ad attenderli ci sono gli Steelers guidati da Terry Bradshaw. Minnesota parte bene, mettendo a segno la prima safety della storia in un Super Bowl, ma finisce per soccombere 16-6 in una partita ricca di errori da ambo le parti. È il punto di partenza dell’era d’oro degli Steelers, mentre per i Vikings si tratta dell’ennesima grande delusione.
L’anno seguente l’obiettivo è il solito, vincere il primo anello della storia della franchigia. E il copione sembra finalmente pronto a cambiare: il record è ancora da primi della classe, un 12-2 frutto non solo della canonica difesa eccellente ma anche di un attacco che sembra girare al massimo. La ciliegina sulla torta è la nomina a MVP di Tarkenton. Lo stop arriva stavolta al Divisional Round contro Dallas, quando Minnesota entra nella storia dalla parte sbagliata. In una partita ricca di episodi controversi, i Vikings vedono sfumare la vittoria all’ultimo secondo per colpa di una giocata mai vista prima. Roger Staubach lancia alla disperata verso la end zone e incredibilmente trova Drew Pearson: touchdown e vittoria Cowboys. A fine partita il quarterback dell’America’s Team proferirà parole che consegneranno l’azione alla mitologia del football:
When I closed my eyes I said a Hail Mary.
Tradotto: “quando ho chiuso gli occhi ho detto un’Ave Maria“. Da quel momento in poi queste parole verranno utilizzate da tutti i commentatori sportivi americani per etichettare una giocata a tempo scaduto. Una beffa atroce che pesa il doppio per i due atleti simbolo di questa squadra: Page, fino ad allora sempre in campo nei momenti decisivi della storia dei Vikings, ha assistito dalla sideline a questa sconfitta, dopo essere stato relegato in panchina per un’inspiegabile scelta tecnica proprio per quest’ultimo snap. Tarkenton viene addirittura colpito da una tragedia familiare: mentre sta guardando la partita di suo figlio, il padre viene colto da un infarto e muore.
Nonostante questa sconfitta cocente, nel 1976 gli uomini di Bud Grant ci riprovano. Vincono per la sesta volta in sette anni la loro Conference (11-2-1) e arrivano nuovamente fino in fondo anche in post-season. Prima battono nettamente Washington 35-20 al Divisional Round, quindi staccano il quarto biglietto per il Super Bowl in otto anni, sconfiggendo i Rams 24-13 nell’NFC Championship. Ad attenderli a Pasadena però ci sono dei Raiders davvero inarrestabili (13-1 in regular season), che dominano la partita già dal secondo quarto e permettono a Minnesota di avvicinarsi solo nel finale, chiudendo la pratica sul 32-14. Quarto Super Bowl giocato, quarta sconfitta.
Sarà l’ultima volta in cui Minnesota vedrà da vicino il Vince Lombardi Trophy, la franchigia Purple & Gold non arriverà più a giocarsi nuovamente un Super Bowl, non lasciando che l’amarezza di non aver vinto nemmeno un anello nonostante una squadra all’altezza, pagando l’inesperienza nel primo Super Bowl disputato, sicuramente quello più alla portata, e scontrandosi contro le grandi superpotenze della lega nei tentativi successivi. L’ultima post-season con questo gruppo, l’anno successivo, si conclude con la netta sconfitta inflitta dai Cowboys nell’NFC Championship 6-23. A seguire il definitivo sipario.
Page e la sua nuova strada: giudice della Corte Suprema
La storia dei Vikings andrà avanti, continuando a regalare giocatori incredibili, storie assurde, e sconfitte laceranti. E a proposito di storie particolari, già da qualche tempo Page ha iniziato una nuova routine. Per aiutare sua moglie a smettere di fumare, la accompagna a correre tutti i giorni. Correre lo appassiona così tanto che in breve tempo il suo corpo comincia ad assomigliare più a quello di un fondista che di un defensive lineman. Grant non vede di buon occhio questo cambiamento e dopo diversi avvisi caduti nel vuoto lo taglia dalla squadra con una telefonata nell’estate del 1978. Un finale inspiegabile per un connubio del genere, per fortuna ricucito negli anni a venire.
Page continua a giocare egregiamente ancora qualche anno con la maglia dei Bears. Nel mentre però decide di trasformare l’altra sua passione in una nuova missione di vita. Proprio nel 1978, infatti, consegue la laurea in legge all’Università del Minnesota, mentre l’anno seguente inizia a esercitare da avvocato per lo studio Lindquist & Vennum di Minneapolis, ovviamente durante la off-season. La legge lo appassiona così tanto che nel 1980 inizia a parlare apertamente di ritiro, e lo fa con queste parole:
Spenderò sempre più tempo per la mia attività forense; dopo tutto, beh… Credo che sarò solo Alan Page, l’avvocato.
E se la notizia di un MVP della NFL che intraprende la carriera di avvocato non fosse già abbastanza straordinaria, Alan Page riesce ad andare addirittura oltre e nel 1992 diventa il primo afroamericano ad essere eletto come giudice della Corte Suprema del Minnesota, carica che ricoprirà fino al pensionamento obbligatorio per raggiunti limiti di età nel 2015, a 70 anni. Una carriera nel mondo del diritto incredibile tanto quanto quella nel football, che lo porta a essere rieletto in tre diverse occasioni e, una volta ottenuta la meritata pensione, a ricevere nel 2018 la Presidential Medal of Freedom dal presidente Donald Trump.
Un riconoscimento che fa onore a un grande atleta e lavoratore ma, soprattutto, un uomo che non ha mai avuto paura di rimboccarsi le maniche. Come evidenzia un episodio piuttosto curioso: nel 1988, mentre si sta dedicando alla sua nuova carriera da avvocato, Page viene giustamente e legittimamente ammesso come first ballot nella Pro Football Hall of Fame di Canton, la sua città natale. Quello però che è davvero incredibile, specchio di tutta questa storia, è che da ragazzino Page ha contribuito come muratore proprio alla costruzione dell’edificio in cui oggi è esposto il suo busto, insieme a quelli di tutti i più grandi giocatori della storia dell’NFL. Solo una piccola coincidenza ma emblematica delle poliedriche capacità e dell’immenso impegno che quest’uomo ha messo in ogni obiettivo che ha perseguito. O, come direbbe lui:
Il modo per avere successo è attraverso la preparazione. Non succede e basta. Non ti svegli un giorno e scopri di essere un avvocato, così come non ti svegli come giocatore di football professionista. Ci vuole tempo.
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