“L’arte di correre”: scrittura e podismo si specchiano in un solo volto

l'arte di correre - Puntero

Da che ricordi, ho sempre avuto la necessità di scaricare fisicamente la confusione emotiva-mentale camminando per lunghe distanze, a volte, anche correndo. Ancora oggi è il modo che prediligo per mettere ordine nel caos quotidiano, tanto da essere diventato un rituale consapevole di benessere (che allinea chiarezza mentale e azione fisica) ma anche uno spazio per il libero travaglio di idee e il fluire dei pensieri. La soddisfazione maggiore arriva d’estate, in natura, vicino ad una fonte d’acqua, dove sole e vento sono carezze che ancorano ai sensi, così il movimento nello spazio orienta la ricerca di senso al presente. Se possibile, il tutto risulta ancora più piacevole e armonico quando accompagnato da musica: “Do you believe in magic?”,
“I Do!” verrebbe da rispondere, o al contrario “I Don’t”; “Lovin’ Spoonful” mi risponderebbe invece un intenditore.

L’intenditore a cui penso è Haruki Murakami (Tokyo 1949-), il noto scrittore e pure maratoneta che su questo brano ha sicuramente corso molti più chilometri di me. La magia è il flusso genuino di parole che riversa nei suoi testi, a cui aderisco, il più delle volte, inevitabilmente come un calzino per il corridore. Più nello specifico, dal 2017, quando ho scoperto L’arte di correre (2009), ciclicamente torno a sfogliarlo e mi sento confortata da alcuni passaggi che sembrano appartenermi, anzi uscire proprio dalla mia testa: “Riesco a rendermi conto delle idee quando le percepisco attraverso una materia che posso toccare con mano”.

Il libro è stato scritto in tre anni, il corpo testuale tra agosto del 2005 e ottobre 2006, la postfazione ad agosto del 2007, la prefazione ad agosto 2008. Non è un trattato bensì un elogio in 146 pagine di un’azione antica quanto l’uomo, per l’autore decisamente densa di significato. Infatti, il titolo, che nella versione italiana parrebbe richiamare L’arte della guerra di Sun Tzu (VI-V sec a.C.) a retaggio orientale, in realtà da una traduzione fedele all’originale risulterebbe come: Di cosa parlo quando parlo di corsa; un omaggio voluto al noto Raymond Carver (riferimento letterario e mentore di Murakami), autore della serie di racconti Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (1981), che porta inevitabilmente ad associare corsa e amore, per fortuna non corsa e guerra. Dunque, non è fuorviante considerare il testo un inno d’amore verso uno sport che non conosce nemici e pacifica anche con il proprio animo.

Per lo stesso si tratta di un racimolo di memorie, un diario, un soliloquio, tuttavia, mai e poi mai di un’esortazione edificante a tenersi in forma.
Non sentitevi quindi di non poterlo leggere, o peggio in colpa, se non correte una decina di chilometri al giorno; tuttavia, considerate che non esiste un momento sbagliato per iniziare qualcosa di nuovo che potrebbe persino accompagnarvi una vita. Questo ci racconta con semplicità l’autore, è solo capitato che quel qualcosa, per lui, fosse la corsa. A maggior ragione possiamo ritenerlo una riflessione autobiografica dello scrittore giapponese attraverso la sua passione per l’attività podistica.

Infatti, Murakami inizia a correre a 33 anni, età decisamente emblematica e non certo precoce, e ancora oggi, oltre i 70, continua a considerare la corsa parte della sua identità, scrive: “Ho imparato molte cose riguardo alla scrittura facendo jogging ogni mattina sulle strade. […] In che misura devo prestare attenzione al paesaggio esteriore, e in che misura posso invece dedicarmi all’introspezione? Quanta fiducia posso avere nelle mie capacità, devo dubitare ancora di me stesso? Se all’inizio della mia carriera di scrittore non avessi cominciato anche quella di maratoneta, ho l’impressione che le mie opere sarebbero state diverse. […] Provo un profondo senso di gratitudine nei confronti della corsa”. La corsa a piedi e la scrittura, dunque, si alimentano vicendevolmente nell’esistenza di quest’uomo, e se il jogging è in grado di bilanciare la sedentarietà della scrittura allo stesso tempo ha la capacità di potenziarla, condividendone lo stesso hummus.

Per entrambe ci vuole: resistenza, costanza e dunque pazienza, motivazione rispetto ad un obiettivo, adesione a criteri interni prima che a giudizi esterni, attrezzatura minima e capacità costruttiva (fisica e mentale). Inoltre, entrambe comportano isolamento per un lasso di tempo prolungato, la corsa però è una pratica solitaria che mantiene quel grado prolifico (per un creativo) di immersione nel mondo mentre la scrittura evoca il mondo e ne costituisce uno parallelo.

Murakami insomma ha capito che la corsa così come la scrittura sono attività gemelle e dispiegano il nocciolo della sua personalità, già riconoscibile nella sua occupazione precedente, quella di gestore di un locale, il jazz bar Peter Cat, durata ben 7 anni. Running a bar, si dice non per nulla in inglese. Al Peter Cat, su piacevoli colonne sonore, live e non, deve l’osservazione per giornate intere di tipi umani e dunque l’assorbimento di un’infinita quantità di personaggi e situazioni che successivamente, ammette, hanno permeato le sue opere. Tuttavia, ci è arrivato con i suoi tempi e ritmi proprio come se ascoltasse un gran LP, un vinile a lunga riproduzione o fatalità (?) un “33 giri”.
È infatti solo nel 1978, allo stadio, durante una partita di baseball, che realizza di voler cominciare a scrivere, una sorta di rivelazione poco prima dei 30 anni, per poi consolidare l’idea intorno ai 33. “Era il 1° aprile…”, dunque, sarebbe potuto essere semplicemente un bel pesce d’aprile oppure, oggi, l’incipit di un aneddoto comico per i posteri se non fosse che la determinazione, oltre al talento, lo hanno portato a diventare tra i più noti e premiati autori orbitanti intorno al genere del realismo magico. Un Daydreamer (per citare nuovamente gli “amati Lovin’ Spoonful”) come in effetti si definisce, che sogna di giorno e non di notte, per me un visionario lungimirante capace anche d’improvvisazione al pari di un abile musicista jazz.

In tutti questi anni, come racconta nel volume, non solo si dedica al jogging quotidianamente (dopo le 5 canoniche ore mattutine di scrittura), accompagnato da un MD Walkman contenente preferibilmente musica rock incalzante, ma partecipa ad almeno una maratona l’anno. Inoltre, prende parte a qualche ultramaratona, corsa che copre una distanza olimpionica di ben 100 km. La prima, nel 1996 al Lago Saroma, considerata trasformativa, è illustrata con minuzia di sensazioni, pensieri ed emozioni.

“Corro dunque sono” per scelta personale, senza imposizioni, che altrimenti lo avrebbero senz’altro fatto desistere, portandolo ad abbandonare una pratica esistenziale, come denotano le riflessioni introspettive che gli ha scaturito. Sottolinea infatti di provare tristezza nel pensare a bambini e ragazzi costretti a correre nell’ora di ginnastica e di aver imparato ad apprezzare anche lo studio solo terminata la scuola, quando ormai si è ritrovato libero di approfondire gli ambiti di suo interesse come e quanto gli pareva. Indipendente ed eterno curioso.

Col passare del tempo, alla corsa si sono aggiunti il nuoto e il ciclismo, tanto che Murakami ha iniziato a dilettarsi anche nel Triathlon partecipando a qualche gara, ad esempio a Honolulu, dove ha abitato per un periodo. Questo anche per contrastare un sentimento che nomina “runner blues”, di abbattimento, legato al modificarsi dei risultati podistici col procedere dell’età (e la realizzazione dell’impossibilità di una reversibilità degli stessi). Murakami si esprime in modo sincero e per questo arriva diretto, anche a chi non comprende ancora cosa significhi invecchiare. Interpreta questo verbo come un’esperienza o, meglio, un’esperienza inedita tra le tante narrate e sospende il giudizio, intuendo però debba essere qualcosa di cui farsi onore più che da cui trarre delusione o vergogna. Sensibile è il passaggio in cui rivanga il confronto con il proprio corpo allo specchio in età adolescenziale: una lista di difetti intrusiva e pesante che accantona con il prezioso “intervallo di silenzio” di una gara.

Davvero immersive risultano poi le descrizioni dei numerosi luoghi che accompagnano questa parabola evolutiva del rapporto con la corsa, fatto di affetto e rinnovata meraviglia, intrecciate parallelamente a viaggi e nuove mete della dimensione lavorativa, per docenze, attività di ricerca e conferenze, spesse volte sul suolo americano. Un cittadino del mondo, insomma, che con i piedi lo ha assaporato e ancora lo assapora senza la presunzione di primeggiare.

“Si dica quel che si vuole, ma io sono un maratoneta. Come vengano giudicati il tempo che ottengo in gara e il mio posto in graduatoria è di secondaria importanza. Ciò che conta per me è tagliare un traguardo dopo l’altro con le mie gambe. […] e alla fine essere contento di me.”
In queste poche frasi si può riconoscere un punto di vista sullo sport, collegabile anche ad una questione dibattuta durante le olimpiadi di Parigi: un quarto o quinto posto sono una sconfitta? Non valgono neppure se rappresentano motivo di soddisfazione per un atleta? E aggiungerei: ciò che è meglio o valido per sé coincide sempre con il meglio in assoluto?

Per Murakami la risposta è definitivamente negativa. Certo ha scelto di non votarsi al professionismo nello sport ma lo ha sempre fatto e preso sul serio. Dunque, resta significativo questo sottotesto (echeggiante di questi tempi anche tra i professionisti) che ha i connotati di un atteggiamento sano, dove: la motivazione e la perseveranza, i progressi e gli obiettivi personali, di cui essere soddisfatti, la passione per una certa attività o sport vengono prima di qualsiasi podio e se proprio dev’esserci un avversario che questo sia semmai il sé stesso di ieri. ‘Un meglio in relativo’, dunque, sintomo, tra l’altro, di una consapevolezza acquisita nel tempo rispetto a capacità e limiti personali che consentono di vivere la propria vita e non quella di un altro o quella voluta da qualcun altro per sé.

In questo lo scrittore-maratoneta giapponese è indubbio maestro perché prendere decisioni orientative con la sua lucidità non è né banale né scontato, e lo è ancora meno dare seguito alle stesse cambiando stile di vita, aprendo e chiudendo capitoli col giusto tempismo e portando con sé l’eredità di quanto chiuso. Ha del miracoloso credo: essere in grado di riconoscere che anche un’azione comune ripetuta quotidianamente traduce la propria essenza ma che tale ‘filosofia nascosta’ può dispiegarsi in nuove forme, dunque anche azioni, senza tradirsi; per poi realmente individuarle, concretizzandole, ovviamente considerando una scala di priorità. Nel suo caso al vertice, ormai in-schiodabile, sta la scrittura, segue di poco la corsa (come per altri scrittori, non sarà un caso, ma non è questa la sede per approfondire l’analogia), poi la musica e la letteratura, e pare non possano non essere menzionati anche i gatti.

Tra gli altri suoi testi figurano: Il mestiere dello scrittore (2015), contraltare per così dire de L’arte di correre; il consigliato Kafka sulla spiaggia (2002), chiaro riferimento a Franz Kafka, maestro di creatività e metamorfosi; il premiato romanzo in tre volumi 1Q84 (2009-10), rimando al distopico 1984 (1949) di George Orwell e l’immancabile capolavoro, Norwegian Wood (1987), più legato alle relazioni umane rispetto alla sfera fantastica, che prende in prestito il titolo di un brano dei Beatles (niente di meno!). Il trasporto per la musica è a tutti gli effetti per Murakami una porta d’accesso, insieme alla letteratura, sull’Occidente che contribuisce ad arricchire e contaminare l’immaginario orientale, permettendogli la costituzione di uno stile unico. Non a caso, infatti, decide di gestire, nel 1974, un jazz-bar in Giappone e non un semplice bar; scelta sconsigliata da molti conoscenti per la scarsa popolarità della musica jazz nel contesto nipponico che comunque lui persegue caparbiamente insieme alla moglie, Yoko Takahashi. Allo stesso modo non si esimerà dal tradurre in giapponese i testi degli autori stranieri a lui cari, soprattutto inglesi e americani, per diffonderli quanto più possibile nel paese natale.
Sua caratteristica stilistica è quindi la continua presenza nei testi di citazioni letterarie e rimandi musicali. Questi ultimi sono accentuati ulteriormente ne L’arte di correre visto l’accompagnamento sonoro ben calibrato ad ogni sessione di corsa. I brani e i musicisti riportati vengono soprattutto del panorama rock e jazz, con qualche nota alternativa: dai già citati Loovin’ Spoonful a Eric Clapton, da Otis Redding ai Rolling Stones, e ancora Duran Duran, Red Hot Chili Peppers, Gorillaz, ecc. Spunti per chi ama approfondire o usare altre sensorialità per entrare nel testo oppure è semplicemente in cerca di una nuova playlist, per la corsa o meno.

In effetti è sempre Murakami ad ammettere di aver imparato a scrivere primariamente ascoltando musica. Chiaramente, la conoscenza del concetto di ‘ritmo’ è confluita nella sua narrativa, mai lenta o eccessivamente veloce, e si è vista rafforzata sistematicamente dalla maratona, cadenzata da respiri e falcate regolari. “Corro in modo da acquisire il vuoto”, scrive ancora, un vuoto fertile che è attitudine psico-fisica facente spazio alla linearità intellettuale.

Insomma, se vi va, percorrete col vostro passo tutte quelle parole in fila sulla carta che compongono L’arte di correre, strade che Murakami ha tracciato attraverso i territori di una profonda conoscenza della condizione umana, sapendo di muovere corde comuni ma anche individuali perché la corsa non è che una metafora della Vita, macro-contenitore delle singolari vite di ognuno.

E se, come ci dicono le citatissime neuroscienze, leggere è simulare esperienze ampliando così il bagaglio delle proprie, allora si può correre anche solo leggendo, o far correre il pensiero, lasciando che le parole, ancora ignote ed altere (cioè altrui), portino in chissà quali direzioni. Non siete curiosi?

Le citazioni provengono da: MURAKAMI, H., L’arte di correre, (trad. Antonietta Pastore), Einaudi, Torino, 2009. (Ed. originale 2007)

 


Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!

 

Sostieni Puntero

Di Elena Fornasa

Formata in arti visive, neuroestetica, arteterapia e fototerapia. Mi muovo tra immagini e parole costruendo esperienze e tracciando traiettorie di senso.