Nándor Hidegkuti: il mito del falso 9 e la Grande Ungheria

Hidegkuti - Puntero

Nel primo decennio degli anni duemila la più grande innovazione tattica apportata al gioco del calcio era sotto gli occhi di tutti. Spalletti con Totti e Guardiola con Messi, decidono di arretrare la stella della squadra sulla trequarti per lasciare spazio agli inserimenti degli altri attaccanti. Un’idea straordinaria, rivoluzionaria, nata però ben prima di quanto pensiamo. A dar origine a tutto infatti fu Gusztáv Sebes che, come il migliore dei sarti, cucì un ruolo su misura per Nándor Hidegkuti: il primo falso 9 della storia.

 

L’Ungheria del dopoguerra: un Paese da rifondare

Al termine della Seconda Guerra Mondiale e in seguito al trattato di Parigi del 1947, l’Ungheria è una nazione che deve ripartire praticamente da zero. Il Paese magiaro ha bisogno di una rifondazione, di una rinascita che, come spesso accaduto nel corso della storia, sarebbe passata attraverso i risultati sportivi. Il piano del Ministero della Difesa è chiaro: lo sport deve divenire un mezzo per diffondere il messaggio politico

L’obiettivo è quello di competere con il nemico capitalista e per farlo gli ungheresi varano un piano quinquennale (1948-1952) che riguarda lo sport, anche nell’ambito agonistico. Dalle ceneri del Kispest nasce così la Honvéd, la squadra dell’esercito di Budapest e, poiché la nuova formazione deve essere la punta di diamante del regime, ai giocatori migliori viene suggerito (si fa per dire) di vestire la maglia della Honvéd. La militarizzazione dello sport è il primo passo verso la conquista di un nuovo status quo che sembra essere legittimata dalla grande produzione di campioni avvenuta in quel periodo. C’è però un problema da risolvere, o meglio un nemico da eliminare. Il Ferencváros infatti, che al tempo era il club ungherese più popolare in Europa, vanta una tifoseria apertamente orientata verso destra. Molti ultras in quel periodo risultano addirittura simpatizzanti della Germania nazista, un connubio che stona con il nuovo corso dell’Ungheria comunista.

Per questo motivo il club (così come le altre squadre del Paese) perde i propri colori sociali e persino il proprio nome. Le vecchie società diventano associazioni manovrate dal Ministero e dal Comitato Nazionale per l’Educazione Fisica e lo Sport. I poteri decisionali sono ridotti allo zero e, nel caso di eventuali ribellioni, ci avrebbe pensato la AVH (la polizia segreta di Stato che ha operato in Ungheria dal 1945 al 1956) a calmare le acque.

 

Alle origini del tiki-taka danubiano

Alla base dello straordinario percorso dell’Ungheria ci sono due grandi nomi: Gusztáv Sebes e Jenő Kalmár. Il primo, nativo di Budapest, ricopre la carica di vicepresidente del Comitato Nazionale per l’Educazione Fisica e lo Sport (responsabile per la sezione calcio) ed è anche tecnico della nazionale. Il secondo, originario di un paesino della provincia di Somogy, è l’allenatore della Honvéd ed è un ex calciatore della MTK Budapest che tra i propri titoli annovera uno scudetto del tutto inaspettato vinto nel 1947/1948 alla guida del Csepel. La svolta della carriera è però chiaramente l’approdo sulla panchina più importante del Paese: è lui l’uomo scelto dal Partito, è lui che deve lanciare nell’olimpo del mondo calcistico la Honvéd. 

Il compito però non è dei più semplici. Kalmár è il successore di Puskás senior e di Béla Guttmann, due che hanno avuto un discreto successo, per di più in un periodo segnato da un regime fortemente oppressivo. Vincere con una squadra di campioni sarebbe stato il minimo, ma una sconfitta, per usare un eufemismo, non sarebbe stata gradita. Fin da subito però il nuovo mister della Honvéd fa valere le proprie idee. Il tasso tecnico della rosa è troppo elevato per affidarsi ai lanci lunghi tanto cari agli inglesi, avere il controllo del gioco è d’obbligo. Gli scambi veloci e le triangolazioni diventano armi letali e i giocatori vengono schierati in diverse posizioni così da farli crescere tatticamente. Su questi precetti nasce quella che sarà ricordata come una delle più grandi nazionali di calcio di sempre: l’Aranycsapat.

 

La rinascita di Hidegkuti

Allenatore di club e commissario tecnico della nazionale: stessa posizione, ruoli simili, compiti diversi. Sebes però ha una grande fortuna perché quasi tutti i giocatori dell’Ungheria militano nella squadra dell’esercito che, per le partite internazionali, veste in blocco la maglia magiara. Le grandi rivoluzioni apportate dal tecnico sono due: il cambio del modulo e il un nuovo terminale offensivo. In quegli anni il “sistema” è l’assetto tattico più popolare. Nato negli anni ‘30 in Inghilterra, il 3-2-2-3 o anche WM era applicato da moltissimi allenatori ma con il passare del tempo, anche in seguito all’introduzione del fuorigioco, Sebes decide di rimescolare le carte e rivoluzionare lo stile del gioco.

Dal 3-2-2-3 si passa al 3-2-3-2, noto come MM. Il centravanti diviene punta arretrata e crea superiorità a centrocampo, lasciando spazio a due punte che, nel vecchio modulo, erano gli esterni della squadra. Una volta apportata questa modifica, serve un giocatore in grado di ricoprire il nuovo ruolo al meglio. Per questo Lajos Tichy – bomber della Honvéd e della nazionale – viene sostituito da Pelotás. Entrambi però non piacciono a Sebes che li ritiene troppo statici, lenti e prevedibili. Serve una nuova soluzione, un jolly, e il suo nome è Nándor Hidegkuti. Nato a Budapest nel 1922, Hidegkuti è conosciuto nel panorama calcistico grazie alle sue strabilianti prestazioni con la maglia della MTK Budapest e, seppur meno strutturato sia fisicamente che caratterialmente rispetto a Tichy, entra nelle grazie di Sebes fin da subito. Alto 176 centimetri, nasce come ala destra offensiva e grazie alle sue capacità tecniche riesce a conciliare fantasia e duttilità. L’unico problema è il carattere, la gestione dell’emotività che in più occasioni gli ha giocato brutti scherzi. Un lato caratteriale difficile da limare, ma sul quale Sebes decide di lavorare giocandosi l’all-in che rivoluzionerà il gioco del calcio.

Di lui sapevo già da anni che era un buon giocatore. Hidegkuti giocava magnificamente nella sua squadra di club come ala destra, era lui che dirigeva il gioco. In Nazionale, invece, ogni sua prestazione era nervosa, imprecisa, non riuscivo a farlo giocare come mi sarebbe piaciuto. Aveva straordinarie capacità tecniche ma le poche volte che lo impiegavo non riusciva a mostrarle. D’altra parte inutilmente cercavo di trovare in altre squadre un uomo che mi potesse dare il suo stesso apporto potenziale. Eravamo nel 1951, l’anno prima delle Olimpiadi e la nostra Nazionale continuava a mancare di un centravanti. Tra Kocsis e Puskás non potevo mettere uno qualsiasi. Qualche mese prima dei Giochi erano in programma due partite a Varsavia e a Helsinki. Non potei partire perciò mi affidai a Gyula Mandi come allenatore e a Puskás come giocatore di fiducia. Il centravanti doveva essere Palotás, tuttavia consegnai a Mandi una busta avvertendolo che doveva aprirla soltanto negli spogliatoi e incaricai Ferenc di ricordarglielo. Pensavano contenesse parole di circostanza, invece indicavo che il centravanti doveva essere Hidegkuti, che nel frattempo si era accomodato in tribuna. In tutta fretta dovette cambiarsi per entrare in campo e non avendo il tempo di pensare a nulla giocò in tutta tranquillità. Segnò due gol, noi vincemmo 5-1 in casa della Polonia. Fu così che potei scoprire il centravanti che desideravo per la Nazionale”.

 

I Giochi di Helsinki del 1952

16 medaglie d’oro, 10 d’argento e 16 di bronzo, questo il bilancio dell’Ungheria ai Giochi di Helsinki 1952, terza nel medagliere finale dietro a due superpotenze come USA e URSS. I primi effetti del piano quinquennale sono ben visibili sia ai magiari che al resto d’Europa. Il torneo calcistico dei Giochi parte il 19 luglio, giorno dell’inaugurazione, la formula è la più semplice possibile: chi vince avanza, chi perde è subito eliminato.

Antille Olandesi, Finlandia, Austria, Turchia, Norvegia, Svezia e Germania Ovest sono qualificate di diritto. A queste si aggiungono, in seguito al turno di qualificazione, Jugoslavia, Italia, Brasile, Lussemburgo, Polonia, URSS, Danimarca, Egitto e Ungheria. Il torneo coinvolge Helsinki, Lahti, Turku, Tampere e Kotka, si gioca solo alle 7 di sera. La Finlandia esce subito perdendo 4-3 con l’Austria, il Brasile invece supera 2-1 il Lussemburgo. Bene la Germania contro l’Egitto, così come Turchia, Danimarca e Svezia. Il derby comunista tra Jugoslavia e URSS, uno scontro che va ben al di là del calcio, finisce 5-5 dopo i tempi supplementari e, poiché non erano previsti i rigori, si procede con la ripetizione dell’incontro che, il 22 luglio, vede gli slavi trionfare 3-1 in rimonta. L’Ungheria invece se la vede con l’Italia. La nostra selezione olimpica, formalmente, obbedisce alle leggi del dilettantismo che governano i Giochi grazie a una squadra fatta di promesse, studenti universitari e diplomati. Boniperti (che non giocherà per infortunio), per citarne uno, è considerato un giocatore-studente, ma non si può parlare di calciatore di livello amatoriale, così come per altri Paesi occidentali. Anche Puskás e compagni non sono esattamente degli amatori, ma partecipano in qualità di dipendenti ministeriali/membri dell’esercito. Hidegkuti per esempio gioca in qualità di impiegato del Ministero dell’Energia elettrica, Puskás risulta essere tenente colonnello dell’esercito. 

L’Ungheria rispetto a noi ha un altro passo. Dopo il 2-1 di misura con la Romania, i magiari spazzano via l’Italia con un netto 3-0 che li porta al turno successivo. Il 23 luglio iniziano i quarti: la Svezia batte 2-1 in rimonta l’Austria, la Germania supera 4-2 il Brasile e la Jugoslavia firma un 5-3 con la Danimarca. L’Ungheria, sempre più consapevole dei propri mezzi, travolge 7-1 i turchi. Che i magiari siano di un altro livello, non solo rispetto ai dilettanti, ma anche ai professionisti, inizia ad essere chiaro. La qualità di gioco e la preparazione tattica che hanno i ragazzi di Sebes non hanno paragoni. Gli accoppiamenti dicono Jugoslavia-Germania, finita (4-1 per gli slavi) e Ungheria-Svezia. Gli occhi del mondo sono puntati sull’Ungheria che, come al solito, non delude. 6-0 il risultato finale, a segno tra gli altri anche Hidegkuti. 

Il 2 Agosto, a Helsinki, ci si gioca l’oro olimpico. Vincere avrebbe un grande significato sportivo, farlo contro la Jugoslavia avrebbe un forte impatto anche dal punto di vista politico. Il Partito vuole la medaglia ad ogni costo, tanto che Sebes alla vigilia del match riceve una telefonata dal Primo Ministro Rákosi che con tono minaccioso gli dirà semplicemente che un’eventuale sconfitta non sarebbe stata tollerata. Nulla da interpretare, soprattutto considerando l’aria che tira in Ungheria. Un successo sportivo era l’arma per far dimenticare i problemi del Paese, tra cui il razionamento del cibo derivato dalla ristrutturazione economica del 1951.

Grosics, Buzánszky, Lantos, Lóránt, Bozsik, Zakariás, Kocsis, Hidegkuti, Palotás, Puskás, Czibor, questa la formazione che gioca la finale olimpica contro la Jugoslavia che, tra gli altri, schiera il futuro allenatore della Sampdoria Boškov. L’Ungheria è favorita e in campo, pur non essendo brillante come al solito, dà la sensazione di poter sbloccare la gara in qualsiasi momento. Ma la tensione è palpabile e i giocatori la stanno sentendo particolarmente.

Verso la fine della prima frazione l’arbitro inglese Ellis assegna un rigore ai magiari. È il punto di svolta della finale. O meglio, potrebbe esserlo. Si presenta Puskás sul dischetto: Beara respinge lasciando di stucco l’intero stadio. Sembra una di quelle gare in cui la palla proprio non vuole entrare, l’errore dal dischetto è un presagio non indifferente, ma nella ripresa, per fortuna degli ungheresi, la storia cambia. Sarà proprio Puskás a sbloccarla, sarà Czibor invece a chiuderla. 9 milioni di ungheresi impazziscono di gioia, la tensione lascia il posto alla felicità. L’Ungheria conquista l’oro olimpico. Nasce l’Aranycsapat, letteralmente squadra d’oro. Hidegkuti chiude la rassegna olimpica con un gol, quello siglato in semifinale, ma soprattutto con una serie di prestazioni e giocate per i compagni che danno ragione a Sebes, al quale va riconosciuto il merito di aver creato un interprete straordinario in un ruolo inedito. La sera del 2 Agosto le piazze di Budapest sono invase dai cittadini in estasi e per una volta anche governo e AVH si concedono un momento di umanità chiudendo un occhio davanti alla platea che si è riversata sulle rive del Danubio.

 

Alla conquista di Roma e Londra

Passano settimane, mesi, eppure l’Ungheria di Sebes non si stanca mai. Nessuno trova metodi per superare la squadra d’oro, tanto che Hidegkuti e compagni arrivano alla sfida all’Italia del 17 maggio 1953 imbattuti da 3 anni. Il match è importante per due ragioni: il primo è che l’incontro è valevole per la Coppa Internazionale, il secondo è che si inaugura lo Stadio Olimpico che nel 1960 ospiterà le gare di calcio e atletica ai Giochi. Nella capitale c’è grande eccitazione in vista dell’incontro, non capita spesso di poter vedere dal vivo una squadra così forte come quella magiara. Alla stazione Termini i giocatori di Sebes vengono accolti come delle vere star e allo stadio, tra i circa 90mila spettatori, sono presenti anche il Presidente della Repubblica Einaudi e un giovane Giulio Andreotti. 

Nella prima frazione entrambe le formazioni hanno la chance per passare in vantaggio, ma Puskás e Boniperti sparano a salve. A 5 minuti dall’intervallo però Bozsik imbuca per Hidegkuti, il falso 9 ungherese di fronte a Sentimenti non trema: è 1-0. L’Olimpico si ammutolisce. La disparità tra le due squadre nella ripresa diventa sempre più evidente, Cervellati e Amadei non riescono ad incidere, Puskás invece inizia a prendere più confidenza con la gara e firma una doppietta tra il 63’ e il 70’. Finisce 3-0 per l’Ungheria che, dopo l’oro ad Helsinki, conquista anche la Coppa Internazionale in casa dell’Italia. La Nazionale di Hidegkuti e Sebes è uno spettacolo, un fenomeno planetario, tanto che le altre nazionali vogliono organizzare amichevoli per confrontarsi con i campioni olimpici, divertimento e grandi incassi sarebbero stati assicurati. Da qui l’idea del presidente della FA Stanley Rous che, durante un summit sportivo tenutosi in Svizzera chiede a Sebes di poter organizzare un incontro tra Ungheria e Inghilterra. “Quando volete” replica il CT magiaro che, superficialmente, accetta senza pensarci troppo e senza consultarsi con chi di dovere. Accettare una proposta simile senza passare per le vie gerarchiche, considerata la posta in palio e la portata politica dell’evento, era stato un azzardo, ma è ormai tardi. Poco dopo Rous si impegna per mettere la nazionale inglese nelle migliori condizioni possibili in vista della sfida ai più forti del mondo. Si gioca a Wembley in pieno novembre, periodo in cui le piogge britanniche appesantiscono i terreni di gioco. Gli inglesi inoltre avrebbero goduto di una condizione fisica migliore: a novembre, infatti, il campionato inglese è nel vivo, gli ungheresi invece sono in pausa. 

Ne segue un durissimo confronto tra Sebes e il Primo Ministro Rákosi che, senza troppo giri di parole, esprime il suo risentimento verso il CT.

Sa che rischiamo una sconfitta che farebbe fare una figuraccia allo sport ungherese? E sa che la nazionale è uno strumento di propaganda formidabile? Non dico che ci reggiamo solo su quella, ma certo, viste le condizioni economiche, riusciamo a rasserenare e a tenere sotto controllo il popolo molto più facilmente. Ogni vittoria di questa squadra è una vittoria di tutto il campo socialista, ogni sconfitta è una vittoria del mondo capitalista. Non possiamo permetterci di perdere.

Il buon Sebes però, consapevole di avere tra le mani una vera macchina da guerra, con coraggio, replica:

E proprio perché è uno strumento di propaganda formidabile, pensate cosa direbbe il mondo se vincessimo.

Il Primo Ministro, ormai persuaso, garantisce il via libera al CT a una condizione:

Risponderete personalmente del risultato.

Alla vigilia della contesa Gianni Brera intervista mister Winterbottom, una persona irriverente, arrogante, spocchiosa fino ai limiti, tanto da liquidare con poche parole il giornalista che gli aveva fatto una domanda su Hidegkuti e su come lo avrebbero contrastato. Poco dopo, lo stesso Brera sussurrerà queste profetiche parole a un collega: “Secondo me questi domani ne prendono 6”.

Il 25 Novembre, alle 15:15 locali, 100mila paganti riempiono Wembley per assistere a quello che alcuni definiscono il match del secolo. Gli inventori del gioco sfidano i campioni olimpici. Sebes è più agitato di Winterbottom, si gioca certamente di più sia dal punto di vista agonistico che personale, teme inoltre che Hidegkuti possa avere problemi nel reggere la tensione durante un evento di quella portata. Per sua fortuna si sbagliava. 

Passano 30 secondi – sì, trenta secondi – e proprio Hidegkuti trafigge Gil Merrick siglando il vantaggio magiaro. Fin da subito gli ospiti dominano, Winterbottom si è affidato a marcature e tattiche troppo schematiche che l’Ungheria elude facilmente. Come spesso accade nel calcio però, chi vive un brutto momento riesce a sferrare il colpo migliore e, infatti, i padroni di casa pareggiano al 14’ con Sewell. Winterbottom si rianima, gli spettatori di Wembley riprendono colore, ma è solo un fuoco di paglia in un freddo pomeriggio londinese. Al 20’ Hidegkuti riporta avanti l’Ungheria che al 27’ è già sul 4-1 grazie a una doppietta di Puskás. La prima frazione termina sul 4-2 (Mortensen ha accorciato le distanze al 38’), ma è ciò che accade nella ripresa ad avere dell’incredibile. Ricordate le parole di Brera al collega durante la conferenza della vigilia? Bozsik e Hidegkuti segnano ancora, inutile il gol di Alf Ramsey su rigore. L’Ungheria trionfa 6-3 a Wembley, l’Ungheria ne ha segnati 6 all’Inghilterra a Wembley. I magiari vengono ribattezzati “New Wembley Wizards” e, ancora una volta, Hidegkuti ha fornito una prestazione clamorosa in un momento importante. Ha segnato in semifinale olimpica, ha segnato con l’Italia a Roma e a Wembley con gli inglesi. Grazie al successo del socialismo sul capitalismo, operai, contadini e borghesi ridotti alla povertà dimenticano i problemi che affliggono loro e la terra ungherese. 

La prima sconfitta interna dell’Inghilterra ha una forte risonanza all’estero, perfino Luca Trevisani, giornalista del quotidiano L’Unità, dedica un pezzo allo show a cui ha assistito. 6 degli 11 titolari non saranno mai più convocati, i magiari invece sono accolti in patria da un clamore ancor più grande di quello che il popolo gli aveva riservato dopo il successo ai Giochi. Non contento, lo sciagurato Rous, convinto che quella di Wembley fosse una sconfitta casuale, chiede una rivincita alla squadra più forte del mondo, stavolta però a Budapest, il 23 maggio 1954. Il risultato è impietoso: finisce 7-1 per i padroni di casa. A segno ovviamente, anche Hidegkuti. Alla luce del tabellino finale, sulle rive del Danubio una domanda sorge spontanea: “Siamo o non siamo i più forti?”. C’era solo un modo per scoprirlo: la Coppa Rimet che meno di un mese dopo si sarebbe giocata in Svizzera.

 

Destinazione Berna

Il 16 giugno il via alla Coppa Rimet 1954: 6 città svizzere coinvolte, 4 gironi da 4 in cui ogni squadra gioca due partite (le due del girone considerate più forti non si sarebbero incontrate), spareggi solo nel caso in cui seconda e terza si sarebbero ritrovate a pari punti. Per la prima volta partecipa anche la Germania Ovest, esclusa dal torneo del 1950 in quanto Paese aggressore nella Seconda guerra mondiale. Brasile e Uruguay si classificano al primo posto grazie a un sorteggio benevolo che le favorisce rispetto a Jugoslavia e Austria, arrivate a pari punti con i sudamericani. L’Inghilterra arriva prima nel gruppo 4 davanti al Paese ospitante e all’Italia, l’Ungheria se la gioca con Turchia, Corea del Sud e Germania Ovest.

Sebes prepara la rassegna mondiale con la solita attenzione e con tanto studio. L’esordio con la Corea è una passeggiata, finisce 9-0. Tre giorni dopo tocca alla Germania Ovest che, come le tigri asiatiche, viene massacrata dall’Ungheria. I magiari vincono 8-3, a segno, tra gli altri, due volte Hidegkuti e quattro Puskás. Ai quarti la squadra d’oro viene sorteggiata con il Brasile che, nonostante non abbia ancora Pelé in squadra, è una formazione di altissimo livello. Dopo 7’ gli europei sono avanti di due reti grazie a Kocsis e Hidegkuti, ma il rigore di Djalma Santos rimette tutto in discussione. Al fischio finale il tabellone dice 4-2 Ungheria, ma le cose non sono andate come previsto. La formazione di Sebes ha faticato e un velo di preoccupazione inizia ad aleggiare sopra lo spogliatoio magiaro. In semifinale ci sono i campioni in carica dell’Uruguay guidati da Schiaffino, squadra sudamericana con una solidità e uno stile europeo. A 15’ dal termine i campioni olimpici sono avanti di due reti grazie a Czibor e al solito Hidegkuti, basterebbe amministrare il gioco e abbassare i ritmi per portarla a casa, ma Hohberg sigla una doppietta che porta la sfida all’extra time. Per fortuna di Sebes il capocannoniere del torneo Kocsis risponde al bomber della Celeste con una doppietta che fissa il risultato finale, ancora una volta, sul 4-2. 25 gol segnati in 4 partite, 7 quelli subiti, di problemi da risolvere in vista della finale del 4 luglio ce ne sono. L’Ungheria è in ritiro a Solothurn e alloggia all’Hotel Krone, edificio di fine 1800 in cui Sebes e il suo staff cercano di isolare i giocatori.

L’Ungheria però non sembra essere al meglio, Puskás non gioca dal 20 giugno a causa dell’infortunio rimediato contro la Germania Ovest e ha ripreso a correre da poco. Non è neanche al 50% della condizione e inoltre Kocsis lo preferirebbe in tribuna il giorno della finale. Da quando Ferenc non gioca, il realizzatore principale dell’Ungheria è diventata proprio Kocsis, lo dimostrano gli 11 gol siglati fino a quel momento. Schierare Puskás in queste condizioni significherebbe giocare con un uomo a mezzo servizio, ma non schierarlo potrebbe essere un rischio ancora più grande in caso di un’eventuale sconfitta.

Alle 5 di pomeriggio del 4 luglio le formazioni scendono in campo. L’Ungheria schiera per 10/11 la stessa squadra che ha battuto la Jugoslavia in finale a Helsinki, c’è però Tóth al posto di Palotás. Gioca anche Puskás. 9 milioni di Ungheresi divisi tra Berna e Budapest intonano Isten, áldd meg a magyart (Dio, benedici gli ungheresi), in un coro carico di speranza e occhi lucidi i danubiani chiedono la benedizione di Dio. Ci si gioca una trofeo che sarebbe la coronazione di un piano quinquennale straordinariamente riuscito, una vittoria potrebbe salvare 9 milioni di anime sofferenti che intravedono un futuro migliore grazie al successo sportivo di 11 eroi.

Puskás fa quel che può, si vede che non è al meglio. C’è inoltre il pensiero di Liebrich (il difensore che lo ha infortunato il 20 giugno) che è di nuovo in campo pronto a dargli la caccia. Al 5’ però è proprio Ferenc a sbloccarla e, poco dopo, Czibor firma il 2-0. A 8’ dal fischio iniziale i magiari sono avanti di due nella finale mondiale e i tedeschi sembrano non essere nemmeno scesi in campo. Sembra l’inizio di un sogno. Poi però la pioggia invade Berna e lo scenario cambia radicalmente. Al 10’ un retropassaggio di Zakariás si inchioda su una pozzanghera e Morlock, attaccante del Norimberga, ne approfitta per accorciare le distanze. Al 18’ è ancora la Germania a segnare: Fritz Walter batte un angolo che manda in confusione Grosics e Lóránt, i due si scontrano e si ostacolano, Rahn si fionda sul pallone e infila in rete. 2-2. L’Ungheria si ritrova a lottare contro la pioggia, contro il pubblico del Wankdorf, contro la pessima condizione del suo giocatore migliore e con le pressioni del partito. La qualità è dalla loro, ma l’aspetto psicologico è dalla parte dei tedeschi. L’Ungheria può solo perdere e, difatti, così sarà. 

Il palo colpito da un Hidegkuti perfettamente limitato dalla difesa tedesca è l’ennesimo segnale negativo di una giornata nera. A 6’ dal termine uno stremato Bozsik si fa rubare palla da Schaefer che vola sulla fascia e crossa in mezzo, Lóránt respinge corto e sulla sfera si avventa Rahn, la palla passa sotto la mano di Grosics e gonfia la rete. La Germania Ovest conduce 3-2. Se prima del match i magiari si erano affidati a una preghiera a Dio, al 90’ si affidano al passaggio dell’Ave Maria (per citare Nicola Roggero): lancio lungo verso Kocsis che fa sponda di testa per Puskás, l’attaccante segna in spaccata, ma il sogno ungherese viene infranto dal guardalinee Griffiths. L’arbitro aveva convalidato la rete, i tedeschi si erano diretti verso centrocampo convinti di doversi giocare il titolo ai supplementari, ma così non è. Al triplice fischio la Germania Ovest di Herberger festeggia, 9 milioni di magiari invece si lasciano andare a un pianto di disperazione. Quelli che si sentivano superiori sono stati benedetti da Dio, quelli che si sono affidati a Dio sono stati beffati in modo atroce. 

Se ne sono dette tante su quella finale, si è parlato di doping dei tedeschi che dopo il mondiale sono stati ricoverati in ospedale per epatite, dell’errore del guardalinee, perfino di un ingente fornitura di trattori da parte dei tedeschi, fatto sta che dopo la battaglia di Berna l’Ungheria calcistica sprofonda in un abisso che l’avrebbe cancellata dagli almanacchi sportivi.

 

Fine di un’era

Dopo 4 anni da imbattuti Hidegkuti e compagni hanno perso l’unica gara che non potevano perdere. In Ungheria non ci sono più sogni, speranze, motivi per continuare a sopportare una vita così grigia. Il crollo di Berna rappresenta il fallimento dello Stato, l’amore dei tifosi è stato tradito e ad aspettare la squadra all’aeroporto non c’è nessuno.

L’Aranycsapat è crollata e poco dopo crollerà anche la Honvéd di Budapest, città che tra l’ottobre e il novembre del 1956 si trasformerà nel teatro della Rivoluzione Ungherese. Grosics si schiera con gli insorti, Sebes invece si ritrova senza una casa dopo che quest’ultima è stata distrutta. Una serie di eventi disastrosi porterà moltissimi giocatori all’estero (Puskás al Real nel 1958, Kocsis al Barcellona nel 1958, Czibor alla Roma nel 1956 tanto per citarne alcuni). Solo Hidegkuti rimane in patria a giocare nella sua MTK e lo farà fino al 1958, anno in cui vince il terzo titolo e in cui disputa il suo ultimo Mondiale prima di passare alla carriera da allenatore. 

Hidegkuti chiude la carriera con i club con più di 260 gol, ma soprattutto lascia la nazionale con 39 gol in 69 presenze (di cui 4 al mondiale di Svizzera e 29 totali nei 4 anni in cui la squadra è rimasta imbattuta). Negli anni seguenti vincerà uno scudetto e una Coppa d’Ungheria alla guida del Győri ETO, una Coppa d’Ungheria con la sua MTK, 5 campionati e una Coppa d’Egitto con l’Al-Ahly e altri 3 trofei alla guida della Fiorentina: La Coppa delle Alpi, la Coppa Italia e la Coppa delle Coppe.

La colonna portante della MTK e dell’Aranycsapat terminerà la sua avventura in panchina a Dubai nel 1983. In seguito ad alcuni problemi di cuore, Nándor si spegnerà nella capitale ungherese nel 2002 a 79 anni, lasciando però vivissimi nella memoria della gente i suoi gol, le sue giocate e il suo stile, tanto che la MTK gli intitolerà lo stadio di casa.

 


Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!

 

Sostieni Puntero

Di Alessandro Amici

Romano, 26 anni. Vivo la mia vita una partita di calcio alla volta.