La Lazio dei primi anni ‘90 svoltò nel febbraio 1992, quando l’imprenditore romano Sergio Cragnotti acquistò la società per 38 miliardi, dopo una lunga trattativa con Gianmarco Calleri. Un uomo cui i laziali rimangono comunque grati, dal momento che fu il presidente che salvò il club nel suo momento peggiore, nel quale rischiò addirittura la retrocessione in Serie C, fino a riportarlo in massima serie nel giugno 1988. Dopo due stagioni piuttosto buone sotto la guida di Dino Zoff, il nome scelto per tentare il definitivo salto di qualità fu quello di Zdeněk Zeman, che tanto bene aveva fatto come allenatore del Foggia.
Estate 1994, Cragnotti chiama Zeman
Dopo il cambio di presidenza, nell’estate del 1994 successiva al mondiale statunitense, fu la volta di quella sulla panchina, quando Cragnotti riuscì ad ingaggiare il tecnico boemo, mentre Zoff veniva “promosso” a presidente onorario. Quello tra il neo-presidente laziale e Zeman, teorico della zona totale, fu un colpo di fulmine, pensato per dare una nuova dimensione alla Lazio a seguito di una stagione agrodolce, con l’ottimo terzo posto (al pari della Sampdoria) al termine della stagione 1993/94, ma anche con le cocenti delusioni nelle coppe, in cui la Lazio subì l’onta delle eliminazioni inflitte dal Boavista in Coppa UEFA ma, soprattutto, dall’Avellino in Coppa Italia.
Il patron biancoceleste si innamorò definitivamente del tecnico boemo il 9 gennaio 1994, quando il Foggia dei miracoli annientò i capitolini con un sonoro 4-1 allo stadio Pino Zaccheria, in una delle più belle partite disputate dai Satanelli. Il mercato di quell’estate portò in dote ai biancocelesti due pupilli del nuovo allenatore, ovvero Roberto Rambaudi e José Antonio Chamot, oltre a Giorgio Venturin e alcuni comprimari quali Vincenzo De Sio, Ivano Della Morte e Daniele Adani, che a novembre fu ceduto al Modena. Pochi acquisti ma mirati, vista la rosa già di buon livello che, secondo Cragnotti, era già in grado di lottare per lo scudetto con le grandi del Nord.
La prima stagione di Zemanlandia
Il primo campionato dell’era Zeman partì bene, con i tifosi che in molte partite si stropicciavano gli occhi per la grande mole di gioco creata, che portava la Lazio a produrre occasioni da rete a profusione. Una coperta che però si rivelava corta e faceva da contraltare alla fase difensiva tutt’altro che impermeabile, un concetto da sempre distintivo di Zeman e che era particolarmente evidente agli inizi delle sue avventure, viste le difficoltà dei giocatori nell’assimilare i principi tattici del boemo.
Nelle prime dieci giornate la truppa biancoceleste perse solamente al terzo turno in maniera beffarda in quel di Milano (sponda rossonera), quando dopo il pareggio di Alen Bokšić all’89’, arrivò la rete di Ruud Gullit un minuto dopo, che castigò Giuseppe Signori e compagni nonostante avessero disputato un ottimo incontro. Per il resto si registrarono sei vittorie (tra cui due 5-1 contro Napoli e Padova) e tre pareggi. La piazza cominciò a sognare ma a spengere gli ardori fu il derby del 27 novembre. In quella famosa stracittadina Carletto Mazzone mise sotto scacco il suo più quotato rivale in panchina e il risultato finale di 0-3 non lasciò scampo ai biancocelesti.
Da quel giorno molti tifosi scesero dal carro zemaniano, perché perdere una stracittadina in quel modo a Roma non è contemplato. La squadra stessa faticò parecchio ad uscire dal tunnel generato da quel pesante ko, conquistando solo quattro punti nelle successive quattro partite. Score migliorato nelle ultime due giornate del girone d’andata che videro la goleada casalinga contro il Foggia (7-1) e il successo di misura in trasferta contro il fanalino di coda Brescia.
Nel girone di ritorno, dopo un inizio balbettante, i tifosi tornarono a godersi lo spettacolo a cui avevano già assistito agli albori della stagione, soprattutto allo Stadio Olimpico con le clamorose goleade ai danni di Milan e Fiorentina seppellite sotto una valanga di reti, rispettivamente per 4-0 e 8-2. Dopo le inopinate sconfitte in trasferta contro Napoli (3-2) e Padova (2-0), Zeman si prese la sua rivincita nel derby di ritorno, anche grazie a una tattica più guardinga e il 2-0 finale fu decisivo per un’ultima parte di stagione quasi perfetta, con cinque vittorie e un pareggio, che fecero volare la Lazio al secondo posto finale in coabitazione con il Parma, miglior risultato della storia del club ad eccezione dello scudetto del 1974.
A conti fatti una buonissima stagione, contraddistinta da qualche capitombolo in pieno stile zemaniano ma anche da vittorie roboanti e da una più che buona partecipazione nelle coppe: in quella nazionale, il cammino biancoceleste si fermò fermato in semifinale al cospetto della Juventus campione d’Italia, mentre in Coppa UEFA arrivò una sfortunata e cocente eliminazione ai quarti di finale contro i tedeschi del Borussia Dortmund, con rimonta e rete decisiva al 90’ in terra tedesca dell’ex Karl-Heinz Riedle.
Signori al Parma e la rivolta dei tifosi
Una settimana dopo la fine del campionato, come un fulmine a ciel sereno, Cragnotti decise di privarsi del beniamino dei tifosi e capocannoniere dei due campionati precedenti all’approdo di Zeman, ossia Beppe Signori, ceduto al Parma del presidente Calisto Tanzi per 25 miliardi. I due patron, tuttavia, non fecero i conti con la piazza biancoceleste che si diede appuntamento (grazie al tam-tam radiofonico) davanti la sede del club per una vera e propria rivolta popolare, tant’è che alla fine il presidente onorario Dino Zoff annunciò in maniera ufficiale che il bomber bergamasco sarebbe rimasto a Roma.
Cragnotti, presa coscienza di quanto successo e deluso dal comportamento dei tifosi, minacciò di vendere le sue quote di maggioranza. Il mancato indotto dalla cessione del bomber portò a un calciomercato meno florido rispetto ai precedenti, basato sull’approdo di comprimari funzionali per il 4-3-3 di Zeman: Alessandro Grandoni, Alessandro Romano, Guerino Gottardi, Marco Piovanelli e infine il portiere Franco Mancini, già allenato dal tecnico ai tempi del Foggia e ingaggiato nel mercato di riparazione di novembre a causa dell’infortunio del titolare Luca Marchegiani.
La seconda stagione
Dopo un primo anno di rodaggio, il club si aspettava di lottare per lo scudetto fino alla fine della stagione e di trionfare in una delle due coppe. Non sarebbe avvenuto niente di tutto ciò: in Coppa Italia i biancocelesti si fermarono ai quarti di finale per mano dell’Inter, mentre in Coppa UEFA l’eliminazione avvenne addirittura al secondo turno contro i francesi dell’Olympique Lione.
In campionato, dopo la solita ottima partenza in cui si registrò anche un roboante 4-0 casalingo rifilato alla Juventus scudettata di mister Marcello Lippi, la prima sconfitta arrivò solamente alla nona giornata al Franchi di Firenze, sotto i colpi di Gabriel Omar Batistuta, autore della decisiva doppietta per il 2-0 finale. Dopo la vittoria sofferta per 2-1 all’Olimpico contro la Cremonese, un trittico di sconfitte fatali contro Vicenza, Milan e Parma finì per allontanare definitivamente la truppa di Zeman dal vertice della classifica. Prima di Natale due successi casalinghi con la solita vendemmiata di gol (6-3 alla Sampdoria e 5-1 all’Atalanta), per poi concludere il girone d’andata con il ko di Napoli per 1-0 e il pareggio deludente in casa contro il Torino, raggiunto solo al 93’ grazie a una bellissima punizione del giovanissimo Alessandro Iannuzzi.
Un andamento preludio alla brutta piega che avrebbe preso la stagione, tanto che la panchina del boemo iniziò a scricchiolare, tra alcuni giocatori che si rivelarono scontenti dell’andazzo e i tifosi delusi dopo le aspettative estive. Nella prima parte del girone di ritorno continuarono gli alti e bassi e ci fu perlomeno la vittoria nel derby.
Il tempo di gioire e vincere in terra veneta contro il quasi retrocesso Padova ed ecco arrivare tre sconfitte consecutive contro Inter, Juventus e Cremonese che misero addirittura in dubbio il posto Uefa. Ma puntuale come un orologio svizzero arrivò la primavera zemaniana a rimettere a posto le cose e con sei vittorie (da ricordare il 4-0 alla Fiorentina) e due pareggi: 59 punti e terzo posto. La qualificazione europea era dunque salva ma la discontinuità di gioco e risultati iniziò a suscitare malcontento anche nei calciatori, su tutti Alen Boksic, pupillo di Cragnotti che il presidente fu costretto a cedere ai freschi campioni d’Europa della Juventus, visto che era ai ferri corti con il tecnico. Stessa sorte toccò anche ai centrocampisti Aaron Winter e Roberto Di Matteo acquistati rispettivamente da Inter e Chelsea.
Alla fine il tecnico di Praga fu confermato ma l’aria che tirava non era più buona come un tempo. Il mercato non accontentò completamente la piazza: arrivarono Pavel Nedvěd voluto fortemente dall’allenatore boemo dopo l’ottimo Europeo disputato con la sua Repubblica Ceca, Mark Fish, Roberto Baronio, Paul Okon, Renato Buso, il secondo portiere Carlo Cudicini e soprattutto Igor Protti, che nella stagione precedente aveva vinto la classifica cannonieri con 24 reti, in coabitazione con il suo nuovo compagno di squadra Signori.
La terza stagione e un brutto finale
Purtroppo i malumori estivi trovarono conferma in un inizio campionato da soli otto punti nelle prime otto giornate, contraddistinto da una squadra che sembrava non seguire più il suo allenatore e con la ciliegina sulla torta di fine ottobre, con l’inopinata eliminazione ancora nel secondo turno di Coppa UEFA, questa volta per mano degli spagnoli del Tenerife che grazie ad un incredibile 5-3 alle Canarie, ribaltarono la sconfitta di misura (1-0) patita all’Olimpico. Anche in Coppa Italia il cammino fu replicato rispetto alla stagione precedente, con un’altra eliminazione ai quarti, nei quali il Napoli ebbe la meglio nel doppio confronto (1-0 in casa e 1-1 a Roma). Ma fu la sconfitta in Spagna a segnare lo lo strappo definitivo nello spogliatoio, come emerse dallo sfogo di Signori nel post partita:
Realizzati tre gol in trasferta, nessuna formazione al mondo si sarebbe fatta sbattere fuori.
Anche Diego Fuser non fu particolarmente tenero:
Stavolta le colpe non sono dei giocatori, vanno cercate altrove. Pazzesco. E per quanto riguarda l’atteggiamento tattico, chiedete all’allenatore. Inutile alludere ad atleti svogliati, che non lo seguono negli allenamenti. Gli svogliati restano a casa, non si portano a Tenerife.
Ormai la storia d’amore tra Sdengo e la Lazio era arrivata ai titoli di coda. Dopo i successi contro le pericolanti Piacenza, Reggiana e Perugia e un netto 3-0 ad un Milan comunque in caduta libera (in quella stagione chiuse solamente undicesimo), tra la fine del girone d’andata e l’inizio del ritorno, le due sconfitte casalinghe consecutive contro Juventus e Bologna, rispettivamente per 2-0 e 2-1, fecero definitivamente perdere la pazienza a Sergio Cragnotti, che con la squadra incredibilmente quasi ai margini della zona retrocessione e una stagione diventata da incubo, decise per l’esonero di Zeman.
Una scelta che, con il senno di poi, sarebbe dovuta arrivare alla fine del campionato precedente. Al suo posto tornò Zoff, che non ci pensò due volte a traghettare la squadra fino alla fine stagione. Peraltro piuttosto bene, visto che i biancocelesti riuscirono a risollevarsi e ritrovare quella verve persa nella prima parte di campionato (32 punti nelle 16 partite con lui in panchina), tanto da arrivare al quarto posto finale, con annessa qualificazione alla Coppa UEFA per il quinto anno consecutivo.
Terminò cosi il 26 gennaio 1997 la storia tra il boemo e la Lazio, fatta di alti e bassi, di divertimento, con tante vittorie altisonanti, ma anche di capitomboli. A Zeman va dato atto di aver dato fiducia e spazio a due campioncini del vivaio, Marco Di Vaio e Alessandro Nesta, di aver trasformato Pierluigi Casiraghi in un vero goleador e di essere stato l’artefice principale dell’acquisto di Nedvěd, decisivo negli anni successivi. Senza dimenticare che i tanti trionfi del compianto Sven-Göran Eriksson tra il 1998 e il 2000 partono proprio dalle fondamenta costruite nel nome di Zemanlandia.
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